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La compagnia dei giusti (Gregorio di Tours agiografo)

PaterikonDelleGallie Sono disponibili in traduzione italiana le Vite dei Padri di Gregorio di Tours1 (attivo nella seconda metà del VI secolo e assai noto soprattutto per la sua Storia dei Franchi), anzi, come precisa l’autore stesso citando Plinio, «“gli antichi parlano delle vite di ciascuno di noi, ma i grammatici non credono che il termine vita abbia un plurale”. Quindi è chiaro che è meglio parlare di vita dei Padri, che non di vite dei Padri, poiché, anche se vi è diversità di meriti e di virtù, tuttavia una sola Vita li mantiene in questo mondo».

Mi fa sempre bene ripassare le formule e gli stereotipi della letteratura agiografica (in questo caso altomedievale): febbri spente; ciechi che recuperano la vista grazie alla santa saliva; zoppi, sordi, muti e contratti: tutti guariti; cadaveri incorrotti; un sacco di pustole e di morsi curati; dita in bocca per «estrarre» Satana dagli indemoniati (per farli, cioè, vomitare il male); tombe che esalano profumo e che spandono miracoli, tra i quali quello di rallegrare i tristi; criminali ravveduti; re rabboniti; reliquie contese; brandelli miracolosi di abiti (e anche zolle della terra di sepoltura); lampade che non si spengono tutta la notte; otri che non si svuotano; reti che si riempiono di pesci; incendi che distruggono tutto tranne la santa reliquia…

Qui, poi, trova ampio spazio il motivo dell’abbandono del consesso umano a favore della montagna, della foresta, del «deserto»: fratelli che si spostarono nei luoghi remoti del deserto del Giura; piccoli monasteri che sorgono una volta abbattuta e spianata la foresta; un monaco che, entrato nella profonda solitudine della selva… vi costruì una cella; il monaco che, dimenticando la sua patria e i suoi genitori, andò in cerca del deserto; i santi che si ritirarono nelle lande più incolte; il recluso che, preso un piccone, scavò la pietra della cella in cui si trovava per ingrandirla

Si possono trovare anche piccoli episodi che esulano dal canone e che hanno un forte sapore di realtà: i monaci che ci restarono molto male quando il loro abate li obbligò a mangiare un semplice minestrone [pultis]; i barbari, pagani, della regione che «lì adoravano i propri idoli come dèi e deponevano delle immagini di membra umane scolpite nel legno, quando una parte del corpo era colpita da malattia». Talvolta l’agiografo, per così dire, non sa dove sbattere la testa e riporta «miracoli» appena passabili: il santo che guarisce la mano della ragazza che si era ferita acconciandosi i capelli, «credo che si ferì perché si stava pettinando in un giorno santo»; il recluso che scaccia uno sciame di vespe col segno della croce; il futuro vescovo nato già con la chierica e che anni dopo cerca di togliersi un fastidio dietro al collo, senza riuscirvi: «Voltando il capo a destra e a sinistra, annusò un dolce odore e capì che questo fardello era quello della dignità episcopale»; il vescovo Niceto che «un giorno, mentre era in viaggio, scese da cavallo per fare i suoi bisogni e andò in una fitta boscaglia [descendens ab equo, inter vepres condensas ventris purgandi gratia est ingressus]» dove un terribile serpente quasi lo divora, prima di essere messo in fuga dal segno della croce…

Anche i nomi, mia inossidabile passione, sono spesso memorabili: Illidio, taumaturgo di Clermont; il vescovo Apruncolo, il duca Hilpingo e il funzionario Lytigio; Friardo e Clappano, reclusi abitatori delle foreste; la tentatrice Leubella; il monastero di Mascarpion; l’abate Leobazio; persino gli indemoniati, eccezionalmente, hanno un nome: «Lupo, Teodulfo, Rucco, Scopilia, Nectariola e Tachilde furono purificati presso la tomba del santo»…

Nella rassegna di Gregorio c’è posto per una sola donna dalla parte dei «buoni», Monegunda, santa e taumaturga («L’Onnipotente] ci dà come modelli non solo uomini robusti, ma anche il sesso debole [inferiorem sexum], che lotta non debolmente ma con vigore virile»). Originaria di Chartres, Monegunda si sposa, «secondo il desiderio dei suoi genitori», e dà alla luce due figlie, che però le «furono portate via da una leggera febbre». Allora, passato il lutto, si «fece fare una cella con una sola finestrella» dove occuparsi soltanto di Dio. Ma la sua fama si diffonde, e cominciano i miracoli. Per non cadere nella vanagloria Monegunda se ne va a Tours; il marito, sensibile alla fama della «santa», la insegue e la riporta a casa; lei scappa di nuovo e torna a Tours; il marito si rassegna; lei raduna alcune donne e fonda un piccolo monastero. E ricominciano i miracoli, soprattutto le guarigioni, che si moltiplicano innumerevoli sulla sua tomba: «Che dire di tanti altri che sono stati guariti dalla febbre solo per aver baciato con fede il drappo che ricopre il sepolcro della santa? Che dire degli indemoniati che, portati nella sua cella, appena varcata la soglia già avevano recuperata la ragione?»

Che dire? «Non abbiamo visto tutte le cose di cui abbiamo scritto», precisa Gregorio, «ma alcune ci sono state confermate da certi racconti, alcune dalla testimonianza di autori approvati e altre le abbiamo viste con i nostri occhi», e che questi santi siano stati ammessi nella compagnia dei giusti «credo che nessuno dei fedeli possa dubitarne».

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  1. Gregorio di Tours, Paterikon delle Gallie. Tra foreste e monasteri nella Francia dei primi secoli, a cura di A.M. Osenga [che nell’introduzione non rinuncia, ancora, a una frecciata contro la Francia «dei Lumi»], Monasterium 2024.

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Pericolo: caduta stiliti («Al di sopra del mondo», di Laura Franco)

AlDiSopraDelMondo «Costoro, abbandonato il suolo terrestre, che tutti, senza eccezione, calpestiamo, in quanto dimora poco spirituale, e rifiutatisi di vivere sulla terra, si innalzarono, con tutto loro stessi, su colonne turrite o su pilastri elevati a un’altezza vertiginosa, vi piantarono il loro nido come uccelli amanti della quiete, e risiedettero a mezz’aria, senza tetto e senza suppellettili, a guisa di volatili, e praticando, nel corpo, una condotta di vita pari a quella degli angeli, e seguendo un comportamento al di là dell’umano, trascorsero moltissimi anni in modo soprannaturale». Così riassume perfettamente e introduce il suo argomento l’anonimo autore della Vita di san Luca stilita, citato da Laura Franco nel suo ottimo Al di sopra del mondo, ampia ricognizione del per certi versi misterioso fenomeno degli stiliti1.

In realtà, una delle cose che emergono con piena evidenza dalla lettura del libro è che di sicuro la vita degli stiliti non era quieta. Già la localizzazione delle colonne, nella maggior parte dei casi, rappresentava un ostacolo a tale quiete. Spesso infatti le colonne si trovavano in luoghi per così dire assai frequentati: crocevia, piccoli agglomerati non distanti da grandi centri, luoghi già in precedenza oggetto di pellegrinaggio, vicinanze di mercati, e così via. Lo stilita poi, con la sua semplice esistenza, richiamava persone di ogni tipo (e di ogni credo) e spesso intorno alla sua colonna sorgevano in breve piccoli edifici, monasteri, ma anche taverne, botteghe, alloggi per i viandanti, vere o presunte corti dei miracoli che erano assai criticate dai denigratori. Dallo stilita ci andavano i devoti, i malati, gli oppressi, i dubbiosi, chi cercava giustizia, ma ci andavano anche i vescovi, i governatori, financo gli imperatori, e un sacco di curiosi, perché lo stilita, si direbbe, a differenza degli anacoreti che si seppellivano in una grotta nel deserto, era anzitutto uno spettacolo cui assistere, una «cosa» da vedere e da ascoltare

Al di là di qualche vaga analogia con precedenti culti pagani, lo stilitismo cristiano è stato variamente interpretato, ad esempio come derivazione dall’«uso antico di collocare sulla sommità delle colonne busti o statue di dèi, o ritratti di imperatori» o di generali vittoriosi, quindi in chiave sia religiosa sia politica, sia anche giuridica; o ancora come evoluzione della disciplina ascetica della statio, lo stare immobili in preghiera, incuranti della situazione circostante; e naturalmente come variante, praticabile e prolungabile a tempo indeterminato, dell’essere inchiodati come Cristo in croce, patendone le medesime sofferenze. Lunga storia, quella degli stiliti, la cui diffusione l’autrice colloca al massimo grado tra il V e il VII secolo, in Siria, con varie propaggini soprattutto in Cappadocia, fino a Costantinopoli e in zone più periferiche dell’impero, e ampia documentazione (di area greco-bizantina), ovviamente agiografica, ma anche storiografica e archeologica (che si siano conservati alcuni dei basamenti su cui sorgevano le famose colonne abitate è un fatto che trovo emozionante).

Stabilite le coordinate storiche e geografiche, e inquadrato il fenomeno, l’autrice dedica un capitolo ciascuno ai sei stiliti più importanti (stiliti maschi, pochissime infatti le donne stilite, le stilitisse) e dei quali si sono conservate le biografie: Simeone il Vecchio, Daniele2, Simeone il Giovane, Alipio, Luca e Lazzaro di Galesio. Sei vite in cima a una colonna (o a più di una) che vanno dal 390 circa, nascita del primo Simeone, siriano, al 1053, morte di Lazzaro, originario di Magnesia al Meandro (nell’attuale Turchia). Di ognuno si raccontano le tappe di avvicinamento alla colonna, le particolarità, le forme di ascesi (aspetto che produce le pagine più sconvolgenti e piene di digiuni sovrumani, odori disgustosi, deformazioni, piaghe e vermi), le testimonianze non «inquinate» dall’agiografia, i rapporti (talvolta burrascosi, talaltre idilliaci) con le autorità laiche ed ecclesiastiche, il coinvolgimento con le comunità («[Simeone il Vecchio] si preoccupava della condotta morale delle piccole realtà rurali nei pressi»), la società e il mondo ai piedi delle colonne (che, data appunto la localizzazione delle colonne, poteva essere sorprendentemente animato), gli aspetti che li rendono simili e le differenze. Si dà conto di come presumibilmente erano fatte in concreto le colonne che li ospitavano (alte fino a 18 metri, alcune cave con scala interna, altre con scala esterna, dotate di piattaforma con balaustra ed eventualmente piccolo riparo o del tutto esposte al sole e agli elementi, corredate di grondaie e canaline di scolo), di come si organizzavano le comunità di discepoli intorno alla colonna (semplici recinti o veri e propri monasteri), degli «attendenti» che provvedevano alle (scarse) necessità dell’asceta, della routine quotidiana (pregare, anzitutto, ma poi anche dare udienza, dirimere controversie, distribuire insegnamenti, accogliere richieste e, naturalmente, procurare guarigioni – «un numero esorbitante di guarigioni», anche a distanza e per interposta persona o strumento –, conversioni e miracoli di varia natura), delle visite illustri e di quelle di tutti i giorni, delle occasioni eccezionali in cui si assistette alla discesa temporanea dello stilita e infine delle modalità, anch’esse spettacolari, della sua morte e della calata a terra del santo corpo.

Dopo una rapida carrellata su alcune altre figure di stiliti, e su una categoria di asceti simile e non meno curiosa, i dendriti, cioè coloro che sceglievano di fare penitenza vivendo su un albero o dentro di esso, il volume si chiude con un capitolo assai interessante sulla «fortuna» degli stiliti, dai quasi contemporanei storici bizantini a Edward Gibbon, da poeti come Tennyson, Kavafis e Rilke, a registi come Buñuel e Monicelli.

È pressoché inevitabile provare stupore davanti alla singolarissima eccentricità di questi personaggi, stupore che si condivide, oggi, con quello dei loro biografi («persino i biografi di Simeone [il Vecchio] sentirono il bisogno  di giustificare l’eccentricità della scelta di vita dello stilita agli occhi del loro pubblico») e quello dei loro contemporanei, che non di rado andavano «a vedere lo stilita» quasi fosse un’attrazione del luogo da non perdere, una stranezza che «vaut le détour», come dicevano le guide Michelin («Teodoreto [di Cirro] racconta che uno spettatore [corsivo mio], intento a osservare Simeone [il Vecchio] in preghiera sul pilastro si mise a contare le genuflessioni effettuate dall’asceta in una sola giornata, e dopo essere arrivato a contarne milleduecentoquarantaquattro, rinunciò a continuare»); ed è inevitabile porsi delle domande, come se le ponevano i contemporanei e le ponevano direttamente agli asceti – l’immagine del mite vegliardo va senz’altro corretta: tanto per dire, Simeone il Giovane sale sul suo primo pilastro a sette anni e Lazzaro di Galesio dall’alto della sua colonna non perde occasione «di esercitare le sue funzioni di superiore [del monastero sottostante] nel segno di un marcato autoritarismo».

Domande che di certo si è posta anche l’autrice che, dopo oltre duecento pagine ineccepibili per precisione ed equilibrio, si riserva per sé giusto tre righe, proprio le ultime tre: «Gli stiliti di ogni tempo sono personaggi complessi, che ci possono affascinare per mille motivi, ma forse, soprattutto, come metafora della condizione umana, perché anche noi, come loro, rischiamo costantemente di cadere».

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  1. Laura Franco, Al di sopra del mondo. Vite di santi stiliti, Einaudi 2023.
  2. Della vita di Daniele, Laura Franco ha da non molto curato una bella edizione italiana: Fra terra e cielo. Vita di Daniele stilita, a cura di L. Franco, SE 2020.

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«Un po’ come Dio» (La «Vita di san Bernardo» di Robert Thomas)

VitadiSanBernardo02 Così come tendo a leggere le opere di autori monastici senza troppo riguardo alla cronologia, come se fossero il frutto di un eterno presente del fatto monastico, allo steso modo mi comporto con la relativa letteratura critica e storiografica. Non è molto giusto, lo so, ma ugualmente non rinuncio a leggere libri che potrebbero dirsi «superati», in particolare le biografie, per il piacere di «stare in compagnia» dei loro soggetti. E quindi ben venga aver trovato questa Vita di san Bernardo, scritta dal trappista Robert Thomas1, monaco del 1928 al 2002 di Sept-Fons (di cui fu anche priore) e fondatore dell’iniziativa editoriale «Pain de Cîteaux», dedicata alla divulgazione delle opere dei padri cistercensi. Quanto poi sia «superata» non saprei nemmeno dire, mentre di sicuro è caratterizzata da un abbondante, e per l’epoca relativamente nuovo, uso di citazioni, sia dalle opere di san Bernardo, sia da quelle dei suoi primi biografi. Ne risulta una bella camminata al suo fianco, dal noviziato a Cîteaux («i pochi mesi in cui sarà un semplice monaco») alla fondazione e all’abbaziato a Clairvaux, e poi in giro per la cristianità, ascoltando la «voce» dei suoi trattati, dei sermoni e delle lettere.

Al di là dei suoi mirabili scritti, ampiamente esposti dal Thomas, sono tanti i particolari che, come ogni ben disposto lettore di agiografie, un po’ mi inquietano e un po’ mi affascinano. Nel 1112, quando bussa a Cîteaux, per chiedere di esservi ammesso, si presenta con trenta compagni: tutti i fratelli, meno uno, troppo giovane, uno zio, un po’ di cugini e diversi amici. Quando alcuni parenti lo vanno a trovare a Cîteaux, ancora novizio, per non ascoltare i loro discorsi frivoli e «mondani» si mette della stoppa nelle orecchie e fa finta di ascoltare. Quando i suoi confratelli, tra le vigilie e le lodi, si ritirano per riposare, lui esce nelle campagne circostanti l’abbazia e continua a pregare, da solo. Se mangia «è per evitare di cadere, di avere un mancamento. Ancor prima di incominciare, al solo pensiero che deve mangiare, è già sazio». Non si dà pace finché tutti i membri della sua famiglia, a parte la madre Aleth, «volata in cielo», non sono entrati in un monastero, compresa Umbelina, l’unica sorella, «sposata e che non pensava affatto alla vita monastica». La sua cella a Clairvaux è un bugigattolo, «somigliava a una prigione; la scala ne prendeva un angolo, il tetto, con un piano inclinato, ne mozzava ancora un lembo». «Egli aveva l’abitudine di muoversi dal proprio stallo per risvegliare un monaco che vedeva un po’ addormentato in coro.» Solo nel 1133 visita il paese di Vaud e le abbazie di Alps e Hautecombe; raggiunge papa Innocenzo II a Pisa, poi va in missione a Genova, quindi ritorna dal papa a Grosseto; in aprile è a Roma, a giugno a Blois, poi a Bèze e in autunno a Jouarre… Quando sta tornando «a casa», i suoi confratelli gli vanno incontro, «si precipitano ai suoi piedi, si rimettono in piedi per abbracciarlo, poi lo conducono con gioia a Clairvaux intrattenendosi con lui… La gioia era calma, e senza dissipazioni…» Quando muore il suo amato fratello Gerardo non versa una lacrima, ma il giorno dopo, durante il sermone, non resiste: «Perché mi sei stato strappato? Come sei stato strappato bruscamente dalle mie mani, tu, che facevi con me un’anima sola, tu, l’uomo secondo il mio cuore!» E così via.

Unico e inconfondibile Bernardo: ispirato, incendiario, talvolta sbrigativo e tagliente, avversario da temere e amico da amare senza riserve. È un po’ sciocco dirlo, ma come mi sarebbe piaciuto poterlo incontrare: «È gracile, non ha salute, ma il suo viso, i suoi occhi soprattutto impressionano, attirano, soggiogano. Ha l’aria timida e non ha paura di nessuno. Ha uno strano potere di affascinare. Qualcosa di divino emana dalla sua persona, incute soggezione e attira: è un po’ come Dio, al tempo stesso temibile e affascinante». Oggi come allora.

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  1. Robert Thomas, Vita di san Bernardo, traduzione del Monastero di San Giacomo di Veglia, Borla 1991 (trad. di Vie de Saint Bernard, O.E.I.L. 1984).

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Edificazione domenicana: sei storie dalle «Vitae Fratrum»

  1. A san Domenico che stava guadando l’Ariège, nei pressi di Tolosa, «nell’arrotolarsi la tonaca alla cintura gli caddero nel fiume i libri che aveva in seno». Non se ne lamentò, anzi, lodò il Signore per l’accaduto, come faceva per ogni cosa. Tre giorni dopo un pescatore li ripescò, «asciutti come se fossero stati custoditi con somma cura in qualche armadio: cosa oltremodo meravigliosa, perché quei libri non avevano alcuna protezione, né di panno né di pelle». (90)
  2. Una notte san Domenico scorse il diavolo che si aggirava per il convento. Che ci fai qui, maledetto?Ne approfitto, rispose quello. Nel dormitorio «li [i frati] faccio dormire troppo ed alzarsi tardi… E poi, quando posso eccito in loro stimoli carnali e fantasie»; in chiesa li faccio arrivare in ritardo e «li faccio distrarre mentre pregano»; chi c’è poi in refettorio «che non mangia troppo o troppo poco»; e il parlatorio infine «è tutto mio: è qui che si ride, si schiamazza e si fanno discorsi al vento». Allora il santo lo trascinò nella sala capitolare. Ah, no! Disse il diavolo. Qui i frati confessano le loro colpe, qui vengono accusati, qui fanno penitenza e vengono assolti, «questo luogo è per me un inferno». (101)
  3. In viaggio nei dintorni di Besançon, un giorno, il beato Giordano di Sassonia cadde ammalato. Era a letto, tormentato dalla febbre e dalla sete, quando gli si presentò un giovane, «con una salvietta al braccio, come se fosse un cameriere», che gli offrì da bere: Bevi, è buono, ti farà bene. – Non ci penso nemmeno, rispose il beato, e il Maligno si dissolse. (148)
  4. Fatta la confessione, in vista della Comunione del giorno successivo, un novizio del convento di Losanna se ne andò a dormire sereno. Appena addormentato gli si presentò il diavolo: Sì sì, dormi, dormi, ma io c’ho qui un foglietto con le colpe che non hai confessato… Dai, fammi vedere, disse il novizio. See, buonanotte, replicò il diavolo, e scomparve. «Ma inciampò nel vaso dell’acqua santa ch’era lì e il foglio gli cadde. Il frate allora lo raccolse in fretta e…» Al risveglio, supplemento di confessione, e tutto fu sistemato. (216)
  5. Salamanca, 1252. Un professore di filosofia va sentir messa dai domenicani. Alla fine, scoppiato un temporale della m…, il sottopriore lo invita a pranzo. Poi, visto che la pioggia non cessa, gli presta una cappa da frate per tornare a casa: Ah ah, maestro Nicola, vi siete fatto frate! – Eh sì, proprio così, come no! ridacchia il professore, e per tutto il resto della domenica ci scherza su con studenti e conoscenti. Di notte, però, lo prende una febbre tremenda e ode una voce: «Credi forse che io esiga rispetto ed onore solo per le persone dei Frati Predicatori e non anche per il loro abito?» Il mattino dopo il professor Nicola diventa fra Nicola. (238)
  6. «Dotato di bella voce per il canto, adatto all’insegnamento, capace di scrivere e di dettare, buon predicatore, di bell’aspetto e di fascino», c’era un frate che volle lasciare l’Ordine per fare carriera, «come si sussurrava», presso un’abbazia di canonici regolari. Esattamente un anno dopo che, pieno di sé, ebbe svestito l’abito avvenne che, proprio in uno degli ambienti di quell’abbazia, «alcuni si esercitassero al tiro a segno con l’arco». Una freccia andò fuori bersaglio, rimbalzò contro una parete e si conficcò in un occhio dell’ex frate. «Nessun rimedio gli valse.» (403)

Le cinque storie sono tratte da: Storie e leggende medievali. Le «Vitae Fratrum» di Geraldo di Frachet o.p., traduzione e note di p. Pietro Lippini o.p., Edizioni Studio Domenicano 1988. Composta tra il 1257 e il 1260, e successivamente ampliata, l’opera fu realizzata su iniziativa di Umberto di Romans (che l’approvò nel capitolo generale di Strasburgo del 1260), «prima che l’oblio, che già molte cose ha cancellato dalla mente dei frati, non finisca per seppellire ogni cosa». Così Geraldo, il compilatore incaricato da Umberto, conclude la sua prefazione: se il lettore troverà qualcosa di buono in questo libro, il merito ovviamente sarà del Signore; se invece non gradirà, ricordi che non tutti hanno gli stessi gusti, e «non stronchi il mio lavoro con rabbia e disprezzo. Il disprezzo è proprio di chi crede impossibili le cose meravigliose e spregevoli quelle edificanti».

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In fondo al loro chiostro (le domenicane di San Sisto, pt. 1/2)

CronacheFioretti«Sovente la si vedeva camminare, compiere i suoi uffici, recarsi al coro, così presa dalla contemplazione che, interrogata, non rispondeva; non si accorgeva di quelli che incontrava; spesso restava immobile nel coro.» Poche righe di una delle oltre 670 notizie biografiche di sorelle domenicane che si possono leggere nel corposo volume dedicato alle cronache del monastero di San Sisto, poi dei Santi Domenico e Sisto, a Roma1. Tali Cronache sono conservate in dodici volumi manoscritti, coprono un incredibile arco temporale (dalla fondazione del 1221, dovuta allo stesso san Domenico, al 1993, quando la comunità da tempo si è trasferita nel monastero del SS. Rosario a Montemario) e il volume ne ha presentato per la prima volta in lingua italiana un’amplissima scelta. Sono l’opera paziente e commossa principalmente di quattro monache – s. Pulcheria Carducci (dotata «di scrittura mirabile per nitore e costante grandezza dei caratteri», 1599-1647; la prima data è quella dell’ingresso in comunità), s. Domenica Salomonia («piena di razionalità e di buon senso», 1612-1672), s. Anna Vittoria Dolara («pittrice, musicista e poetessa», †1827) e s. Tommasa Angelica Pannilini («artista, poetessa e parlatrice», †1918) – che hanno scavato nei documenti d’archivio, selezionato, riassunto, collazionato e trascritto, aggiungendovi il tratto della loro personalità. Una parte cospicua è occupata, come accennavo, dai necrologi delle monache, a volte brevissimi («Se ne conosce solo il nome»), a volte distesi su cinque o sei pagine (origine famigliare, dote, tratti fisici e del carattere, devozioni, opere, incarichi). Li ho letti tutti.

Scrive s. Pannilini, introducendo uno dei suoi volumi: «Non si vorrà obiettare che una tale storia non offra alcun interesse: tutto dipende dal punto di vista da cui ci si mette». Già, da quale punto di vista mi metto io nel leggere con inattesa partecipazione le memorie di queste «anime che vivono in fondo al loro chiostro»? «Io so bene», prosegue s. Pannilini, «che se un profano leggesse queste pagine, non vi troverebbe grandi cose da lodare, ignaro com’è dei sentimenti più sacri della vita religiosa, dei bisogni del cuore di chi sa di appartenere a una Famiglia eletta, avviata verso grandi destini; incapace com’è di apprezzare l’eccellenza e il merito di questo genere di vita, di cui non considera che l’aspetto esteriore». Il curatore dell’edizione, il p. Raimondo Spiazzi, sembra poi farle eco quando raccomanda al lettore moderno l’umiltà «dinanzi a chi ha studiato, scritto, riflettuto, vissuto prima di noi», mettendo da parte sia il fideismo acritico sia l’esasperato razionalismo. Queste testimonianze possono anche «fiorire in leggende», e occorre discernimento, «ma senza diventare ipercritici, irragionevoli, fanatici della dissacrazione». Ecco il mio punto di vista.

Un punto di vista non privo, anzi, anche in questo caso inaspettamente, di una certa «nostalgia del sacro»; sentimento sterile, poiché mi dico convinto della irreversibilità della secolarizzazione, e tuttavia presente e, si potrebbe forse dire, retrospettivo. Cosa proverebbe una di quelle religiose se le venisse imposto di riguardare da questo XXI secolo, e con la di lui consapevolezza, la propria devozione del XVI?

Chissà cosa proverebbe ad esempio la venerabile madre suor Filippa Caputi, che, «essendo di intelligenza poco felice», aveva accettato «solo di prendersi cura del pollaio del monastero, e in questo incarico viveva solitaria, a guisa di anacoreta, con la sola compagnia degli animali a lei affidati, contenta della sua sincera umiltà». L’unica sua tristezza era di non poter recitare l’ufficio con le consorelle, e «un giorno che si sentiva afficata, dopo aver svolto il suo umile lavoro», udendo le altre in coro fu presa da «santa invidia» e corse a piangere davanti a una santa immagine della Madonna col Bambino (la statua di Nostra Signora delle Grotte, oggetto di molte peripezie nei vari trasferimenti). Si dice che la Madonna si staccò il Bambino dal seno e lo depose tra le braccia di s. Filippa, che poi glielo restituì collocandolo dalla parte opposta a dove si trovava in origine (questa la prova del miracolo). Fu così che «la fortunata Suor Filippa, rientrata in sé, cominciò a leggere perfettamente, tra lo stupore di tutte le sue consorelle e con sua grande felicità, l’Ufficio corale». Con sua grande felicità.

(1-segue)

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  1. «La venerabile Suor Eugenia de’ Rossi», novizia nel 1540, «salita alla gioia eterna nel 1575», in Cronache e fioretti del monastero di San Sisto all’Appia, a cura di p. Raimondo Spiazzi, o.p., Edizioni Studio Domenicano 1993, p. 333.

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Capre, asini e mosche (Voci, 28)

Dalla vita di Camilla Battista da Varano (1458-1524). Cap. VIII. Fervore e Zelo nel Divin Servitio

VitaBattistaVaraniQuando Dio comandò che nel Tabernacolo si conservasse il fuoco, e che vi fusse mai sempre materia per mantenerlo, volle con tal cerimonia dare ad intendere che il fuoco, che dovea mandare esso in terra, non si debba estinguere nel Tabernacolo del Cuore, ma bensì aggiungervi in ogni tempo motivi per fomentarlo, al che sì come sono tenuti tutti i fedeli, così pare che molto più lo debbano fare coloro che astretti co’ voti s’impegnarono ne’ ministeri Divini: la mente loro appunto sembrar deve il Roveto di Mosè sempre circondato da fiamme, che non consuma, ma perfettiona, che non in cenere, ma in partecipata Divinità trasforma.

Di questo fuoco celeste bramò Battista ch’ardessero i Religiosi, cioè che con un fervor vehemente s’alzassero al Cielo e che scotessero ogni stupidezza e tracotanza dal Cuore, assomigliando il zelo dell’anime infervorate all’oro di cui si dice nell’Apocalissi: Suadeo tibi emere aurum ignitum ut locuples fias [Suadeo tibi emere a me aurum ignitum probatum ut locuples fias, «Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco», Ap, 3, 18] Con questo mistero gl’ornamenti del Tempio e del Tabernacolo erano vestiti & ornati d’oro, all’istessa guisa ogni attione del Claustrale dovrebbe con quest’oro e zelo infocato risplendere, onde è che andava ricordando ad un suo Discepolo che havesse l’occhio dell’intelletto vigilante in maniera: «Ne unquam obdormiat in somno pigritiae et negligentiae. E sappi – li va inculcando – che regnum Coelorum vim patitur et violenti rapiunt illud. Questa parola Evangelica dice quella tua Madre che gl’è stata posta nel cuore dallo Spirito Santo in guisa tale che, e dormendo e vigilando, l’ha fatta sollecita, havendo sempre fisse nella memoria le sopranotate parole: Regnum Coelorum etc.

«Quello che dir voglio è questo, che non ti addormenti nella Santa Religione del sonno che occupa molti, i quali entrati che sono nella Religione, si scordano del primo fervore e tutto il ben che fanno è da essi operato senza una minima mental consideratione. Seguitano gl’ordini, le cerimonie e gl’instituti della Santa Religione appunto come fanno le Capre, le quali quando vedono che una salta le altre la seguitano e non sanno il perché. Così l’addormentato Religioso seguita l’osservanza che ha presa e non considera che sia di ciò ragione; interviene a questi come all’Asino, che porta il vino e beve l’acqua: così questi tali durano estrema fatica con poco, poco, poco frutto, perché sì come la materia senza la forma non è bella, né men utile, così l’opera fatta senza intentione non piace a Dio, né à voi apporta utilità, perché se bene l’opera virtuosa è in se stessa lodevole, è nondimeno a guisa di materia, alla quale se la forma, che è la buona intentione non s’accompagna, è senza pro l’operatione, e stolto vien tenuto chi la fece.

«Tu fa da sapiente e prudente, né volere imitare le vestigie de’ pazzi, ma in ogn’opera tanto picciola come grande (mentre spirito di vita havrai) leva l’occhio della mente a Dio, colà santificando la sua intentione, sopportando per amor di Dio ogni cosa avversa, e per amor dell’istesso Signore fa oratione, leggi, canta l’officio, lava pentole, scopa la Casa & essercitati in tutte l’opere della Carità, così verso i sani, come verso gl’infermi, e credimi, che se ti habituarai nel dir con la mente, mentre fai le sudette cose: Signore Dio, io le faccio per vostro amore, lo dirai anche non pensandoci. Così ha fatto la tua diletta Madre, benché in simili essercitij poco s’habbi potuto adoperare per la lunga sua infermità e debolezza di Corpo, e nondimeno (e sia detto a tuo essempio) s’è portata in modo, che ben con verità si può dire, che ella habbi più fatto che non poteva. Questo lo sa Dio, e la di lei conscienza.

«Ti do dunque per consiglio che procuri d’havere il desiderio sempre acceso di far penitenza, e non ti curare di regolarti a tuo modo nell’esteriore, ma serva mandata Patrum tuorum, perché in tal guisa non poco meritarai appresso la Santissima Trinità, la quale solamente risguarda il cuore e però studia che questo sia di continuo infervorato di carità, perché alla pignatta che bolle non s’approssimano le mosche, ma bensì in quella che è tepida, nella quale anche s’annegano. Dall’anima che bolle a forza di fuoco del Divino amore fugge e s’allontana il Demonio e tutti li pensieri immondi, ma nell’anima intepidita nella carità e fredda nell’amore s’ingolfano solamente, e vi si annegano le mosche della vanità e dell’inutili cogitationi, dal che ne deriva il pestifero sonno dell’anima negligente. E quindi avviene che molti dormono nella Santa Religione, e dormendo si sognano d’acquistare la perfettione; ma nel tempo della morte vedranno la falsità de loro sogni e chimere, perché si trovaranno le mani piene di mosche di Diaboliche illusioni.

«Però Reverendo mio figlio in Christo apri gl’occhi e procura di non giuocarti questi pochi giorni che ti restano di vita. Sta’ vigilante e fervente.»

Vita della Beata Battista Varani, Principessa di Camerino e Fondatrice del Monastero di S. Chiara. Ordinata, ampliata & illustrata con varie riflessioni spirituali & eruditioni da Matteo Pascucci, Prete della Congregatione dell’Hospitio di Camerino, con l’aggiunta di alcune Operette Spirituali della medesima nel fine del Libro, Macerata 1680, presso Giuseppe Piccini, pp. 164-65 (che si può consultare qui).

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Arrabbiato Satanasso (Voci, 25)

AnnoBenedettino3

Dalla Vita di S. Ludgarde [Lutgarda di Tongres (di Aywères)]

I Demonj fecero sovente tutti gli sforzi per travagliare la Santa. Le apparivano in figure orribili, e le annunziavano sempre alcun accidente funesto per metterla in terrore: ma ella mostrava loro di sprezzarli, sputando contro loro e non prendendosi pena di udirli. Pres’ella tal impero sopra questi superbi spiriti, che fuggivano da lei ed avevano in orrore il luogo dov’ella faceva orazione. Questo è l’effetto delle promesse del Salvadore, e della vittoria che riportano i Fedeli sopra i maligni spiriti: voi vi metterete sotto i piedi (dice la Scrittura) l’Aspide, e il Basilisco, e calpesterete il Lione, e il Dragone. Quantunque questa mirabile figliuola non intendesse i Salmi, de’ quali avea rinunziata la intelligenza con una modestia che a mio credere non ha esempio, ella ne cavava alcuni versetti per porre in fuga i Demonj: per l’ordinario servivasi di quello col quale noi cominciamo tutte le ore dell’Offizio Canonico «Deus in adjutorium meum intende», col quale si liberava anche da cattivi pensieri. […]

Un giorno, che cantava il Vespero con fervore impareggiabile, una monaca vide uscire una fiamma di fuoco dalla di lei bocca, che dinotava visibilmente il fuoco della di lei carica e divozione. Ma la cosa più mirabile in lei era la profonda umiltà che conservava in mezzo di queste cose rare e sublimi che Dio in lei operava, considerandosi sempre piccola innanzi a suoi occhi, quanto era grande agli occhi altrui. Questo è il carattere del Figliuolo di Dio: questo è il sigillo che imprime sopra le opere sue, e quando un’anima non porta questa marca, la di lei santità non è che una illusione ed un inganno. […]

Eccovi un nuovo favore del suo diletto, una grazia che non concedesi che a persone fedeli e che conoscono la virtù della Croce. Essendo una sera tutta rapita nella passione di Nostro Signore concepì una sete intollerabile di patire per lui, morendo di dolore per non essere stata in quel secolo nel quale i tiranni perseguitavano la Chiesa. Le venne allora in memoria S. Agnese, la di cui felicità accese in lei una sì santa invidia, che le si ruppe alla fine una vena dal cuore: martirizzata in questa maniera, per mano d’amore versò in tal copia il sangue, che ne restarono inzuppati i suoi abiti, e talmente diminuita la sua forza ch’era quasi in agonia. Apparvele in questo stato Nostro Signore, con viso assai lieto, e le promise che per l’ardentissimo desiderio che avea avuto del martirio otterrebbe in Cielo il medesimo premio di S. Agnese. Fu vedut’altre volte tutta di sangue coperta mentre meditava questo istesso mistero, ed avvenne che avendola un prete ritrovata nella violenza del suo dolore le tagliò secretamente parte de’ di lei capelli che distillavano sangue; ma si disseccarono nelle sue mani, quando cessò la effusione della Santa.

Le straordinarie sue grazie mossero una Religiosa di Euvière a indrizzarle suo padre nobil uomo di condizione, e ricchissimo, ma schiavo del Demonio. La Santa posesi di buona voglia ad affaticarsi per la di lui salute, cominciando dal fare per lui fervorose orazioni. Arrabiato Satanasso contro lei, apparve ad un’altra Monaca e dissele: Donna Ludgarde si sforza di rapirmi il Cavaliere Reniero, che mi serve da tanti anni: impieghi pur ella la sua autorità: l’affare anderà in lungo, e quando io non facessi altro che ridurre questo uomo alla ultima miseria, sono sicuro di riuscirvi. Infatti questo Cavaliere dopo la sua conversione non avea un pezzo di pane da mangiare, ma in ricompensa diventò ricco per il possesso di una eroica pazienza, e mori finalmente ottimo Religioso di San Benedetto, nel Monastero di Afflighen.

♦ Jacqueline Bouette de Blémur (Mère de Saint-Benoît), La vita di S. Ludgarde, in Anno benedettino, ovvero Vite de’ Santi dell’Ordine di S. Benedetto distribuite per ciaschedun giorno dell’anno, opera tradotta dal Franzese nello Idioma Italiano, tomo terzo, che contiene li Mesi di Maggio e di Giugno, Venezia 1727, presso Francesco Storti, pp. 380-81.

 

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Biagia e Giovanni (in margine ai Gesuati)

La piccola e innocua libertà di questa serie di appunti mi consente di recuperare su una bancarella («Tutto a 2 euro») la Vita del Beato Giovanni Colombini di Feo Belcari, in un’edizione a scopo edificante delle Paoline1, e di decidere di cominciare proprio da qui ad apprendere qualcosa dei Gesuati: compagnia, «brigata», congregazione fondata, per così dire, dal suddetto beato senese dopo la sua conversione avvenuta nel 1355 e talvolta presa per un refuso della ben più famosa Compagnia. Scritta all’incirca ottant’anni dopo la morte del Colombini, avvenuta nel 1367, l’opera del Belcari, noto per le sue sacre rappresentazioni, è stata spesso ristampata, ha il suo posto preciso nella storia della letteratura italiana: «Il [Pietro] Giordani, scrivendo al Cesari il 24 febbraio 1827, la paragonò ad “un arancio in gennaio, un frutto del Trecento nel Quattrocento”, e ne definì l’autore, scrivendo al Leopardi nel giorno dell’Ascensione del 1817, “scrittor purissimo e di utilissima semplicità”» (Mario Marti), e racconta con brio agiografico non privo di rispetto per le fonti i dodici anni cruciali dell’esperienza d’ispirazione francescana del Colombini.

Ma prima di procedere (ci sono da leggere soprattutto le lettere del beato), la mia attenzione si è fermata sulla figura della moglie di Giovanni, Biagia de’ Cerretani, «venerabile e onesta donna, e ben composta di tutti gli approvati costumi», poiché è a lei che in fondo si deve la memorabile conversione. Memorabile perché avviene in un uomo di 51 anni, uomo affermato nella sua attività di mercante di panni, chiamato più volte a ricoprire incarichi pubblici, «prudente e circonspetto in tutte le cose del secolo».

Ebbene, un giorno Giovanni torna a casa prima del solito dal negozio e si irrita perché non è pronto da mangiare e gli affari premono. Biagia non si scompone «e disse: “Intantoché io ordino le vivande, prendi questo libro e leggi un poco”, e posegli innanzi un volume che conteneva alquante vite di sante». Giovanni si irrita ancora di più – tu hai sempre in testa queste storie – e butta il libro in un angolo. Poi, però… lo raccoglie, comincia a leggere (la storia di Maria Egiziaca) e quando la moglie lo chiama a tavola, le risponde: «Aspetta tu ora un poco, per infino che questa leggenda io abbia letta».

Da lì, si direbbe un po’ prosaicamente, è tutta discesa: Giovanni continua a meditare quello che ha letto e, tanto per cominciare, dopo qualche giorno propone a Biagia il voto di castità, che la donna accetta. Qualche tempo dopo Giovanni si confida con un amico, Francesco de’ Vincenti (che resterà con lui fino alla fine), e la compagnia prende corpo. Poi si ammala e, invece di farsi curare in casa (ne avrebbe i mezzi), va «occultamente al più povero ospedale che in Siena fosse». Una volta guarito, comincia a donare i suoi averi ai poveri e mosso a compassione si porta a casa un lebbroso, lo cura e lo fa accomodare nel letto della moglie. Biagia non è contentissima, chiede un po’ di misura, e Giovanni si stupisce: prima volevi che diventasssi caritatevole e adesso mi ostacoli?

«La donna a questo rispondeva: “Io pregava che piovesse, ma non che venisse il diluvio”.»

E diluvio sarà, di santità, e Biagia sembra scomparire dalla storia del marito, delle sue peregrinazioni toscane, delle sue penitenze e disavventure, dell’ingrossamento dei seguaci e dei suoi miracoli. Ma quando infine il corpo senza vita del beato viene portato al monastero senese di Santa Bonda per esservi interrato, eccola ricomparire e gettarsi al volto del suo «dilettissimo Giovanni» e scoppiare in una dichiarazione d’amore non spento cui lascio ammirato la parola:

«O castisstima e santa faccia che per amore di Cristo è dodici anni che non ti toccai! O occhi santissimi, quante lagrime per Cristo Crocifisso avete sparse? O dolcissima bocca, che con tanto fervore l’onore di Dio e la salute dell’anime predicavi, e con tanta carità confortavi i tribolati, conforta me tribulata più che femmina Sanese. Io piango la morte mia, non la tua, che sono privata di te, mia vita.»

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  1. Feo Belcari, Vita del Beato Giovanni Colombini, introduzione e note di P. [Giuseppina] Romagnoli Robuschi, V edizione, Edizioni Paoline 1962.

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«C’era grande preoccupazione su come portarlo giù» (La «Vita di Daniele stilita», pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Il passaggio dalla seconda alla terza colonna è spettacolare, perché avviene senza che il santo tocchi terra: Daniele, infatti, «ordinò che fosse posta un’asse, da scala a scala, a guisa di ponte. Fatto ciò, il santo si trasferì sulla colonna doppia»; la cui costruzione peraltro era stata assai travagliata, tanto che l’imperatore, dopo un clamoroso episodio di tempesta notturna che mette a rischio la vita di Daniele1, condanna a morte l’architetto negligente, ma lo stilita intercede, e Leone, naturalmente, concede il perdono dopo aver ordinato – e qui non posso fare a meno di pensare che la curatrice si sia concessa una punta di ironia moderna – «che la colonna fosse messa in sicurezza».

Di scene spettacolari, va detto, la Vita di Daniele stilita è piena. Come quando un’ondata di gelo si abbatte sul Bosforo e Daniele finisce «per assomigliare a una statua di sale». Il passaggio della tempesta merita una citazione estesa: «Quando, per misericordia divina, tornò il sereno, portarono la scala, e videro che i capelli e i peli della barba2, diventati ghiaccioli, si erano incollati al corpo e il viso, coperto di ghiaccio a guisa di una lastra di vetro, non era più visibile, ed era assolutamente incapace di parlare e di muoversi. Allora portarono di corsa recipienti di acqua tiepida e grosse spugne, lo riscaldarono a pezzo a pezzo, e con fatica lo misero in condizione di parlare» (e Daniele rivelerà di essere entrato in una specie di trance a battito cardiaco ridotto e completa di visioni). O come quando l’imperatore Leone conduce alla colonna il re dei Lazi Gubazo, «e il santo si fece mediatore di accordi soddisfacenti per entrambi». O ancora come quando, durante la prima fase del regno di Zenone, in occasione della vicenda dell’usurpatore Basilisco (475), Daniele scende a terra per la prima e unica volta: lo spostamento del santo dalla colonna alla Grande Chiesa (di Santa Sofia) è una sequenza di scene di massa sempre più clamorose: codazzi di religiosi, acclamazioni di popolo, sollevazioni, interventi vescovili, richieste pressanti di reliquie (le garze che avvolgono i piedi martoriati del santo), miracoli, altre guarigioni, proclami, fino alla gloriosa conclusione che vede l’usurpatore pentirsi, perlomeno pubblicamente: «E mentre il popolo continuava a gridare con tali esclamazioni e innumeri altre simili, essi giacevano ai piedi del santo, l’imperatore e l’arcivescovo»…

Ma l’evento più eclatante di tutti, quasi da far sospettare la presenza di un’attenta regia, non poteva essere che la morte del santo, «una delle più spettacolari dell’antichità dai tempi di Antonio e Cleopatra», dice la curatrice citando lo storico inglese Robert Lane Fox. Le cose cominciano non meno di tre mesi prima, per poter stabilire con agio i modi della sepoltura, compresa la costruzione di «un’impalcatura a forma di spirale» lungo la quale sarebbe stato calato il cadavere disteso su una tavola, e la verifica del luogo dove fare la veglia in modo che il corpo non fosse smembrato dalla folla a caccia di reliquie. Sette giorni prima Daniele si congeda dai suoi discepoli, benedicendoli e invitandoli all’amore fraterno. Da quel momento la folla non fa che aumentare. Ogni tanto l’arcivescovo Eufemio, che presiede alle operazioni, sale sulla scala, dà un’occhiata e si rivolge ai presenti: «Il santo è ancora vivo ed è con noi, non perdetevi d’animo». Prima che Daniele completi la sua ascesa al cielo, infatti devono arrivare tutti, ma proprio tutti.

Dopo il trapasso, l’ispezione del corpo, che si presenta rattrappito, con le ginocchia piegate al petto, le cosce unite ai talloni e i piedi in uno stato inimmaginabile… «e dopo che il suo corpo venne disteso a forza, ci fu uno scricchiolio d’ossa sì da pensare che fosse andato in pezzi; ma una volta disteso, non mancava assolutamente nulla». Una volta fissato alla tavola, il corpo viene mostrato alla folla, in verticale. La tensione sale, c’è «grande preoccupazione su come portarlo giù», l’arcivescovo chiede una teca di piombo e, insieme ad altri, scende lungo «la scala a chiocciola»; la folla preme; i portatori si dirigono all’oratorio, ma le assi dell’ingresso, «non reggendo la spinta, si separarono l’una dall’altra, e tutti quelli che portavano in spalla la bara furono buttati a terra insieme alle sante spoglie…» Solo la grazia del Signore evita la tragedia, e il corpo di Daniele viene deposto nella terra.

«Lo spettacolo era infatti ben strano», dice l’anonimo autore, commentando lo sbalordimento di coloro che per primi videro Daniele sulla colonna, all’inizio della sua avventura, e al di là delle ironie moderne, dell’eccesso, delle risonanze storiche di una pratica non del tutto esclusiva del monachesimo cristiano delle origini (puntualmente passate in rassegna nell’Introduzione), è in effetti difficile pensare a un’immagine di collegamento, di raccordo, di «cerniera», fra terra e cielo di maggiore potenza ed efficacia visiva: un simbolo vivente, un’aspirazione incarnata, una sospensione incredibile, la contraddizione in cui molti sentono di vivere cristallizzata in un gesto unico e ininterrotto, di eterno presente – eterno quanto può esserlo una «impresa umana».

(2-fine)

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  1. «E poiché tutti avevano davvero perso ogni speranza, stavano lì attoniti e pieni di paura, volgendo il capo da un lato all’altro insieme all’oscillazione della colonna, per osservare in quale direzione il cadavere del giusto sarebbe stato scagliato insieme alla colonna» (§ 47).
  2. Che alla morte misureranno, rispettivamente, circa 1 metro e 80 (divisi in dodici trecce) e circa 1 metro e 40 (divisa in due trecce).

 

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Come le pecore (La «Vita di Daniele stilita», pt. 1/2)

Campione ante litteram di distanziamento sociale, primatista assoluto di perseveranza, esorcista e guaritore di prima categoria, Daniele è forse meno noto di san Simeone, del quale condivide l’origine siriana, ma come lui siede a pieno diritto nel pantheon degli stiliti. E lo fa grazie a un’agiografia di autore anonimo, di poco successiva alla morte avvenuta nel 493, che senza uscire dai canoni del genere ce ne tramanda le imprese e che possiamo leggere in traduzione italiana nella pregevole edizione curata da Laura Franco1. In verità si potrebbe dire l’impresa, al singolare, con riferimento ai trentatré anni che Daniele ha vissuto issato su una colonna in località Sostenio, l’attuale Istynie, distretto di Istanbul sulle rive del Bosforo.

Trentatré anni, dal 460 (all’età di 51anni) al 493, di «distacco» fisico dal mondo, peraltro preceduti da una non tanto differente preparazione, ma non di isolamento dal consesso umano, anzi. Intorno alla colonna del sant’uomo si raccoglie rapidamente una comunità (mandra, nel senso fisico di «recinto») di discepoli, che provvede ai suoi limitatissimi bisogni alimentari e che funge anche da filtro di accesso per la massa crescente di individui che preme, letteralemente, ai piedi di Daniele per ottenerne una benedizione, un consiglio, una guarigione. Quanto ai primi, i bisogni alimentari, è lo stesso Daniele a rispondere nel dettaglio a un uomo che lo aveva interrogato a riguardo. È una risposta notevole, che ci ricorda il senso pratico di questi individui apparentemente così privi del medesimo. Non facendo moto che possa «aiutare la mia digestione» – dice Daniele –, è meglio che mangi il meno possibile, e comunque «credimi, fratello, io mangio e bevo in misura sufficiente alle mie necessità. Non sono infatti uno spirito, né un essere incorporeo, ma un uomo, rivestito di carne. E quanto all’altra necessità, quella di evacuare, la faccio come le pecore, per via dell’estrema secchezza»2.

Quanto alla seconda, la folla che si recava dal santo, va ricordato che ai piedi della colonna nel corso degli anni si presenta tutta la società del tempo, dall’ultimo dei lebbrosi al vescovo, dal truffatore, all’ex soldato, all’imperatore Leone I il Grande (457-474). Quest’ultimo, anzi, stabilisce un rapporto privilegiato con lo stilita, che diventerà a tutti gli effetti un specie di consigliere, non soltanto in materie religiose, ma anche e soprattutto politiche. Ed è curioso notare la trasformazione dell’atteggiamento dell’uomo politico: quando Daniele sale sulla colonna, il proprietario del terreno va subito a lamentarsi dall’arcivescovo Gennadio e da Leone, ma «l’imperatore non gli rispose nulla»; passano gli anni e Leone continua a sentire racconti su Daniele, tanto che a un certo punto gli fa chiedere un’intercessione: prontamente esaudita; poi è la volta della dignità sacerdotale, che l’imperatore concede a Daniele, forzando la mano allo stesso arcivescovo, e in fondo allo stesso monaco; infine giunge il momento dell’incontro: Leone «si recò nel luogo… dove si trovava il santo, e chiese si appoggiasse la scala per salire e ricevere la benedizione. Accostata la scala, l’imperatore salì dal servo di Dio e gli chiese il permesso di toccare i suoi piedi. Avvicinatosi e vedendo come erano ulcerati e gonfi, fu preso da stupore e, ammirando la capacità di sopportazione del giusto, e glorificando Dio, pregò il santo di potergli erigere una colonna doppia».

Già, perché tre sono le colonne nel corso della carriera da stilita di Daniele, via via una più alta della precedente, la prima essendo pari «all’altezza di due uomini» dotata di un semplice parapetto di legno, ricavato probabilmente da una botte, l’ultima essendo appunto «doppia» e completa di una vera balaustra e successivamente di un riparo.

(1-segue)

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  1.  Fra terra e cielo. Vita di Daniele stilita, a cura di L. Franco, SE 2020.
  2. Che sono più o meno le stesse parole che Luis Buñuel fa dire al suo Simon del deserto, nell’omonimo film del 1964.

 

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