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Inemarginabile (Augustine Roberts pt. 1)

LibroDellaTrappa Come nella migliore tradizione la vicenda è cominciata con un libro adocchiato su una bancarella. Figuriamoci: Il libro della trappa, di un tale Agustín Roberts1, comprato all’istante, anche con lo stupore che esistesse un libro con un titolo del genere – che infatti si rivelerà essere un «titolo editoriale» di un originale ben diverso, Hacia Cristo. Apertolo all’impiedi davanti alla bancarella medesima, si è presentato con un’avvertenza dal tono e soprattutto dal contenuto assai singolari, che hanno acceso immediatamente il mio interesse. Nella «Nota di edizione» a pagina 9 ho letto infatti che le suore trappiste di Vitorchiano avevano contattato l’editore circa la possibilità di pubblicare in italiano il libretto, assai utile per le postulanti, che loro lo «avrebbero anche semplicemente ciclostilato in un numero limitato di copie»; l’editore aveva letto e valutato, e scoperto che il testo «forse più di ogni altro poteva far conoscere in cosa consiste lo svolgersi quotidiano della vita contemplativa».

E qui la nota prendeva una piega inattesa. L’editore infatti riteneva che il testo potesse essere di grande utilità a «tutti coloro che con onestà vogliono fare un passo nella comprensione di un avvenimento che questa società vorrebbe emarginare, ma che di fatto è inemarginabile. L’inemarginabile dall’ideologia di questo mondo è in fondo il contenuto di questo libro». Perbacco! Anche se penso che oggi, passati altri cinquant’anni da quelle parole, «questo mondo» (ammesso che esista una concreta entità corrispondente a tale concetto) in realtà non voglia «emarginare» il monachesimo, ma sia in sostanza indifferente al suo destino (a patto che si possano visitare i monasteri e i relativi gift shop abbiano un orario decente), l’affermazione non poteva non colpirmi.

La prefazione dell’autore, che seguiva la nota dell’editore, affermava che si trattava di «uno studio sul significato dei voti monastici, precisamente come espressione della dinamica benedettino-cistercense. Poiché questa dinamica contemplativa è nel cuore di ogni uomo, speriamo che esse siano di profitto generale». La prefazione era datata «Azul, 1970», cioè, come ho appreso in seguito, dal monastero trappista di Nuestra Señora de Los Ángeles di Azul, a circa 300 chilometri a sud di Buenos Aires, del quale p. Roberts era stato abate dal 2000 al 2008, dopo essere stato per quattro anni procuratore generale dei cistercensi della stretta osservanza presso la Santa Sede.

Insomma, Agustín Roberts, nato Bruce nel 1932, quindi John nel 1953, novizio presso l’abbazia di Spencer, nel Massachussetts, e infine Augustine (poiché c’era un altro John nel monastero) monaco professo nel 1958 «è stato una delle figure più significative e influenti del monachesimo cistercense della seconda metà del XX secolo, quasi sconosciuto al di fuori del suo Ordine». E qualche mese dopo avevo in mano Configurati a Cristo, il corposo volume di 450 pagine2 che rappresenta il punto di arrivo di numerose edizioni e revisioni di quel primo testo, nato in forma di appunti nel 1967, e la cui lettura è stata di estremo interesse e utilità per cogliere dall’interno gli aspetti più importanti di quella che ancora e sempre pare una scelta di difficile comprensione.

Ma a questo punto è lecito domandarsi: Augustine Roberts, chi era costui?

(1-segue)

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  1. Agustín Roberts, Il libro della trappa. Orientamenti pratico-dottrinali sulla professione monastica, traduzione di F. Mazzariol, Jaca Book 1976.
  2. Augustine Roberts, Configurati a Cristo. Una guida alla professione monastica, Nerbini, «Quaderni di Valserena», 2018.

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Inter nos

I saggi densi e dotti, e un po’ accidentati, di Guido Cariboni sui cistercensi dei secoli XII e XIII1 hanno suscitato di nuovo in me alcune considerazioni, un po’ naïf e confuse, che rimandano al sottotitolo di questi appunti, quegli «occhi laici sul pianeta monaci» che, con altra accuratezza, sono poi lo sguardo che gli storici depongono sul monachesimo, osservandolo come «fatto» in mezzo ad altri «fatti». E già qui si potrebbe discutere sulla legittimità, o quanto meno sulla significatività, di tale sguardo quando prescinde dal «contenuto» religioso. A questa domanda rispondo nel modo seguente. Meno male che ci sono gli storici! Che proprio in virtù di quell’«in mezzo» studiano e ricostruiscono il fenomeno del monachesimo in rapporto agli altri fenomeni, giacché tale rapporto è sempre esistito, in forme più o meno estese e intense (con la parziale eccezione forse dei certosini); al lettore laico non professionista, invece e d’altra parte, è consentito avvicinarsi al monachesimo come se fosse un fenomeno per certi versi astorico e imprescindibile dal contenuto di fede.

E poi. Le vicende istituzionali dei cistercensi dimostrerebbero ancora che, per semplificare, la quantità uccide la qualità. L’estensione numerica e territoriale dell’Ordine porta infatti tensioni, allontanamenti dall’ideale, impulsi ricorrenti di riforma e di «ritorno alle origini» (e anche qui non può non venire in mente il detto certosino: «Cartusia numquam reformata quia umquam deformata» – bella forza, potrebbe persino pensare il cluniacense spazientito, siete quattro gatti). Dunque nella realizzazione pratica dell’aspirazione a Dio, di una forma di vita ispirata alla carità, esiste un punto di equilibrio che starebbe tra il singolo (l’eremita, perennemente esposto alle illusioni) e la massa, che porta con sé inevitabilmente deformazioni, divisioni e conflitti? Forse non soltanto nell’aspirazione a Dio, ma nella vita in comune in generale? Il piccolo gruppo, i cui membri si scelgono liberamente, essendo l’unica via possibile? La chiave del suo «funzionamento» essendo l’accordo delle volontà che può nascere solo dall’esiguità della compagine (l’unanimitas che era uno dei cardini dell’ideale cistercense)? Si può estendere questo concetto, e come, quando si è in tanti? C’è qui una lezione sul numero? (E già, arriva lui, dopo secoli di pensiero politico al riguardo…)

E quale può essere il rapporto tra piccoli gruppi? O tra il piccolo gruppo e il «grande gruppo»? Mi ha sempre colpito rispetto a ciò il trattamento della segretezza presso i cistercensi delle origini: come era percepita e come la vivevano loro stessi (in questo sovente aiutati dalla collocazione reclusa dei loro «nuovi monasteri»). Scrive ad esempio nella prima metà del XII secolo il cistercense Idungo, nel suo Dialogo di due monaci, rivolgendosi a un «collega» cluniacense: «L’elezione e la deposizione degli abati del vostro ordine, insieme ad alcune cause ancor più difficili, sono trattate dai vescovi, quasi in pubblico, contro il decoro della religione monastica; presso di noi, invece, questi problemi sono risolti tra di noi e da noi di nascosto [apud nos, inter nos, et a nobis in secreto], con convenienza per l’ordine». Sembra quasi che Idungo stia evocando gli arcana imperii… E d’altra parte, Oderico Vitale nella sua Storia ecclesiastica, completata sempre nella prima metà del XII secolo, scrive: «[I cistercensi] serrano le loro porte e nascondono i loro luoghi appartati con massima cura [secreta sua summopere celant]. Non ammettono nei loro penetrali un monaco di un’altra chiesa, né gli permettono di entrare con loro nel luogo della preghiera per la messa o per altri servizi liturgici». Ma quali tratti può avere, oggi, un’idea, se non un’applicazione, «sana» della segretezza?

La storia dei cistercensi, soprattutto nei primi secoli di vita dell’Ordine, e in particolare dopo la morte di Bernardo, è quasi un laboratorio in cui si può osservare con estremo interesse, tra le altre cose, il rapporto di tensione – quasi istantanea, verrebbe da dire – che si crea tra ideali e realtà, e anche tra legge e prassi. Come dimostrano con attenzione minuziosa i saggi di Guidi Cariboni, di almeno uno dei quali proverò a dare conto in seguito.

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  1. Guido Cariboni, Il nostro ordine è la Carità. Cistercensi nei secoli XII e XIII, Vita e Pensiero 2011.

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Una buca nel terreno

C’è una breve nota posta tra parentesi, quasi di sfuggita, nel testo di Georges Duby dedicato a san Bernardo che mi ha colpito particolarmente: un dettaglio biografico che non conoscevo, assai crudo, dato senza fonte, ma di non difficile reperibilità. Deriva infatti dal capitolo VIII della Vita di san Bernardo di Chiaravalle di Guglielmo di Saint-Thierry, un capitolo di estremo interesse intitolato Della grande severità della sua vita, e della sua indefessa applicazione in mezzo ai continui intralci dovuti alla sua salute compromessa (De magna vitae ejus severitate, et indefesso inter continua fractae valetudinis incommoda laborandi studio). Ecco il passo in questione:

«Alcuni medici lo visitarono e trovarono ammirevole il suo modo di vivere, dicendo che imponeva alla sua natura sforzi simili a quelli di un agnello attaccato a un aratro e forzato a lavorare. Il suo stomaco distrutto gli faceva vomitare frequentemente il cibo crudo che non aveva potuto digerire, cosa che cominciò a mettere a disagio gli altri, in particolar modo durante l’ufficio nel coro; nondimeno non abbandonò del tutto il consesso dei fratelli, ma, avendo fatto scavare una buca nel terreno, vicino al suo posto, soddisfò in tal modo finché poté quella penosa necessità.»1

In quella «buca nel terreno» («in terra receptaculo») si raccoglie anche, se così si può dire, simbolicamente, la mia complicata «ammirazione» per san Bernardo (e sarebbe necessario definire con accuratezza cosa significa provare ammirazione per una figura lontana nel tempo, il cui profilo ho composto mettendo assieme frammenti di una conoscenza approssimativa). Al di là, infatti, della banale osservazione che non sono acceso dalla medesima fede, molti sono gli aspetti che mi dovrebbero allontanare da lui: e invece. E invece l’attrazione è lì, innegabile, per un essere umano perennemente in rivolta contro se stesso e il mondo («contro tutto», dice Duby), e tuttavia instancabilmente attivo proprio in quel mondo, feroce e dolcissimo, comprensivo ed esigentissimo, umile e consapevole della propria autorità, negligente di sé fino all’autodistruzione e preoccupato della propria traccia lasciata ai posteri – e forse non immune dal desiderio di essere «il migliore».

E mi conforta che lo stesso Guglielmo spenda buona parte del capitolo per una strana «giustificazione» degli eccessi di rigore nel comportamento di san Bernardo; strana perché, mentre ne dichiara più volte l’inutilità, a fronte di quello che Bernardo ha compiuto («nessuno oserebbe condannare colui che Dio giustificò operando con lui e tramite lui tante cose sublimi»), continua a svolgerla, a volte con eleganti giochi di parole: «Se gli imputiamo un eccesso di santo fervore, questo eccesso certamente susciterà il rispetto delle anime pie, e coloro che sono guidati dallo spirito di Dio temeranno di imputare eccessivamente questo eccesso al suo servo».

Ricordando gli anni passati da Bernardo a Cîteaux, Guglielmo ha già fatto un’altra osservazione che mi pare riveli il suo pensiero. Prima di ributtarsi nelle rinunce forsennate, a Cîteaux, infatti, piacque a Dio che Bernardo si sia abituato un po’, uomo lui stesso, a vivere con gli uomini e abbia imparato a comprendere le debolezze umane; che in latino, più concisamente, suona così: «Postquam didicit aliquatenus et consuevit homo cum hominibus esse».

Cioè dopo aver imparato in qualche modo ed essersi abituato a essere un uomo con gli uomini.

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  1. Cito, traducendo come posso, da La Vie de saint Bernard, par Guillaume de Saint-Thierry, continuée par Arnauld de Bonneval et Geoffroi de Clairvaux, traduit du latin par F. Guizot, nouvelle édition préparée par N. Desgrugillers, Editions Paleo 2010, pp. 55-60.

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Un sogno di perfezione morale (Georges Duby e l’arte cistercense, pt. 2/2)

SanBernardoArteCistercense (la prima parte è qui)

«Per capire Fontenay», scrive Duby1, citando l’abbazia «figlia» di Clairvaux, fondata nel 1119 e uno degli esempi più alti dell’architettura cistercense, «in quello che ne forma il significato e il colmo della bellezza, bisogna avvicinarvisi passo passo, per i sentieri della foresta, nella pioggia d’ottobre attraverso i rovi e i pantani, faticosamente.» Occorre quindi raggiungere la radura, che rappresenta il nucleo, la prima conquista del drappello di monaci che si lasciano tutto alle spalle per cercare un luogo, sottratto a forza di braccia alla selva primordiale, dove rintracciare, ricostituire la regolarità dello spirito, la «somiglianza» a Dio smarrita nella «regione della dissomiglianza» che è il mondo con le sue irregolarità.

In realtà non proprio tutto si sono lasciati alle spalle questi monaci: il «soffio dei tempi nuovi» li segue, insieme ad esempio ai progressi tecnici, a una nuova considerazione del lavoro (compreso quello salariato, che viene impiegato) e persino a un diverso rapporto con il denaro come strumento che non viene disdegnato (si produce e si vende, e il ricavato si usa), tutte cose che produrranno una «espansione tumultuosa» e risultati economici ragguardevoli. Li segue, senza che quasi se ne accorgano, il «movimento di rinascita dell’individuo»: le nuove abbazie che sorgono a un ritmo impressionante non sono abitate da una massa indistinta di religiosi salmodianti, bensì da gruppi compatti di individui non ignari della società da cui provengono e non privi di personalità. Nei reparti di uomini che disboscano, bonificano, arano sopravvive quello spirito di cavalleria (lealtà, coraggio, amore), quel gusto per la conquista e in fondo anche per l’avventura che è lo stesso Bernardo ad aver portato a Clairvaux: «San Bernardo non ha mai rivolto il suo sguardo su altri uomini, se non cavalieri, su antichi cavalieri, i monaci di coro, e su gli altri che ha sognato di attirare a sé», dice Duby, e continua: «Bernardo sarebbe stato un cavaliere magnifico. Ma non imparò mai il maneggio delle armi. Se l’avesse fatto forse non si sarebbe mai stornato dal mondo».

Molto si portano dietro anche del monachesimo «vigente»: la scelta cenobitica, l’ascetismo, il rispetto del passato; l’idea è quella di rimettere il monachesimo al suo giusto posto, cioè ai margini: «L’ideologia cistercense, costruita sulla trama del disprezzo del mondo, non vuole aggiungere nulla, taglia, monda, epura, ed è per questa ragione che la costruzione di Cîteaux altra non è che quella di Cluny ripulita». E nei nuovi monasteri, specchio e scuola dove l’uomo giunge alla migliore conoscenza di sé, in nome della misura e dell’equilibrio esteriore ed interiore si distrugge il vecchio uomo e si fa emergere quello che, come si diceva, conserva la somiglianza. Si bonifica l’anima, allo stesso modo in cui si bonifica il luogo: «Una vittoria dell’ordine sul caos, sforzo dell’uomo per spogliarsi della primitiva rozzezza della selva, per ritrovare il posto da lui occupato prima della caduta, prima di smarrirsi nelle regioni di dissomiglianza, dominando le belve e la vegetazione selvaggia.»

Semplificando molto la parte dedicata al declino, in questo progetto di salvezza dell’anima e di edificazione della «città perfetta» c’era secondo Duby una falla, la falla dei fratelli conversi: «Senza accorgersene, i monaci erano sulla via di diventare quello che i fondatori dell’ordine avevano loro prescritto di non essere mai: dei signori» – e fu proprio la popolazione contadina ad allontanarsi per prima dai cistercensi. La vitalità di Cîteaux si raccolse altrove e la loro capacità di interpretare l’evoluzione dei tempi si trasferì ad altri «protagonisti» più in sintonia con tale evoluzione: gli stessi ordini cavallereschi, la Cattedrale, le confraternite, e poi gli ordini, mendicanti.

«La costruzione cistercense è la proiezione di un sogno di perfezione morale», riassume in una formula Duby, e al centro di questa costruzione c’è il chiostro, «crocicchio dell’universo» dove tutto è luce e chiarezza, raffigurazione di un paradiso ricostruito: «Un’area in cui giunge al suo termine l’addomesticamento del caos silvestre, in cui tutto il cosmico ridiventa collezione ordinata, accordo musicale». E non è forse per questo che i chiostri cistercensi piacciono tanto anche oggi, «oggi che ne rimane solo il guscio, che tanto più ci commuove in quanto è perfettamente vuoto»2? Perché quell’ideale, quell’immagine seppur fuggevole allo sguardo del turista, l’hanno conservato?

Ah, dunque esisteva un posto dove… esiste ancora…

(2-fine)

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  1. Georges Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, traduzione di M. Zini, Einaudi 1982 (ediz. orig. Saint Bernard. L’art cistercien, 1976).
  2. Forse non tutti sarebbero d’accordo su questo «vuoto».

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Un sogno di perfezione morale (Georges Duby e l’arte cistercense, pt. 1)

SanBernardoArteCistercense Nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla sua pubblicazione, o forse proprio per questo motivo, il libro che Georges Duby ha dedicato all’arte cistercense (e a san Bernardo) si legge con grande piacere, e direi anche con grande profitto1. Il piacere è dovuto in gran parte al testo vero e proprio, steso in uno stile storiografico sempre meno frequentato che non rinuncia, in nome della precisione e del rigore, a un evidente impulso narrativo, sfrondato dagli apparati, che lo rende «appassionante»; mentre il profitto deriva dal fatto che la lettura di Duby del fenomeno artistico cistercense, eminentemente architettonico, potrà anche essere datata e da aggiornare (io però non lo so), ma non può essere di certo del tutto fuori fuoco.

Il «racconto» di Duby prende le mosse, e non poteva essere diversamente, da Cluny, dal suo splendore, in cui si sacrificava a gloria di Dio, e dei signori, il frutto del lavoro altrui, in cui si «conservavano» i morti, e si pregava per loro («le abbaziali del XII secolo sorgevano pertanto su uno spesso basamento di tombe»), in cui lo spazio si allargava e si ornava per dare risonanza al canto liturgico della comunità, per accogliere le processioni e per predicare attraverso la scultura figurata e la decorazione, in cui la società tripartita dava spettacolo di se stessa, con un posto assegnato a ogni «personaggio», compreso il «povero».

Questo modello apparentemente immutabile non regge allo «slancio del XII secolo», che partendo dal mondo agricolo investe tutto («l’arte cistercense nasce e fiorisce nella fase di maggior vivacità di un lunghissimo movimento di crescita agricola… si sprigiona da questa stessa fertilità») ed esige e produce nuove forme in ogni campo. Nella luce della crescita economica, tutto, se così si può dire, appare nuovo, persino la povertà, o perlomeno da rinnovare, e il monachesimo non sfugge a questa spinta: ci vuole un «nuovo monastero», Cîteaux. Spoglio, essenziale, funzionale, «ripulito» e «nudo», costruito in radure remote sottratte a forza alla foresta («l’arte cistercense incomincia con il creare la radura»), eremo e chiostro al tempo stesso: un luogo dove pregare e lavorare, e tornare alla lettera della Regola benedettina, e seguire più da vicino Gesù sulla strada indicata da Vangelo.

Da lì, dopo un apprendistato, un «riscaldamento», nemmeno troppo lungo fa irruzione Bernardo, facendo risuonare la sua parola «irresistibile e riecheggiata sino ai confini del mondo». Una «incessante, pungolante aggressione», la chiama Duby, contro gli altri monaci rilassati, contro i signori, contro i vescovi, contro la scuola e i suoi «pensatori», contro i crociati tiepidi, contro i rivoltosi, contro la curia, contro «un papa malamente eletto»: «Contro tutto».

Bernardo parla (scrive) di tutto, perché tutto conosce delle cose terrene e di quelle divine, ma non parla praticamente mai di arte, di quello che noi intendiamo per opera d’arte, non gli interessa. L’odiata «decorazione» va eliminata, per fare chiarezza, per tornare a concentrarsi sull’essenza, cioè sull’anima (la propria anima) dove si svolge la vicenda fondamentale dell’essere umano. Non ne ha mai parlato esplicitamente e tuttavia l’arte cistercense gli deve tutto: «San Bernardo è veramente il patrono di quel vasto cantiere e, come si dice, il maestro dell’opera. La sua parola ha governato, come il resto l’arte di Cîteaux. Perché quest’arte è inseparabile da una morale, ch’egli incarnava, che voleva a ogni costo imporre all’universo, e in primo luogo ai monaci del suo ordine».

All’universo.

(1-segue)

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  1. Georges Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, traduzione di M. Zini, Einaudi 1982 (ediz. orig. Saint Bernard. L’art cistercien, 1976).

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Il Panegirico di San Bernardo di Bossuet (pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Ci pare troppo duro il lungo «silenzio monastico»? Be’, commenta Bossuet, se considerassimo l’esame rigoroso al quale il sommo Giudice sottometterà le nostre parole, non sarebbe poi una gran fatica tacere. Nel Panegirico di San Bernardo1 Bossuet non perde occasione per edificare ed esortare: si tratta pur sempre di una predica, costellata infatti di vocativi e appelli – «cristiani!», «fedeli!» –, e declinata in prevalenza con il «voi», salvo quando il «noi» s’impone affinché nessuno possa esimersi dal riconoscersi peccatore. E forse è proprio in tali passaggi che brilla la sua lingua.

La vita e la figura di san Bernardo ci danno l’opportunità di guardare come in uno specchio la nostra vita e considerare quanto ci illudiamo e ci inganniamo a tenere gli occhi fissi sulle cose terrene. Ogni cosiddetto piacere non è forse pagato con assai più dispiaceri? «E se dovessimo espungere tutti i giorni che ci hanno recato dolore, pure secondo i valori del mondo, ce ne resterebbero in tutta la nostra vita abbastanza da riempire tre o quattro mesi?» La felicità? «Fugge, fugge come un fantasma che, dopo averci dato una specie di contentezza fintantoché è con noi, non ci lascia altro che guai.» I progetti per il futuro? «La vita ci verrà a mancare [leggerei così il terribile e ricco di sfumature «la vie nous manquera»], come un amico falso, in mezzo alle nostre imprese.» «Ahimè!», dice Bossuet alzando la voce. «Non parliamo d’altro che di come passare il tempo. Il tempo comunque passa, e noi con esso2; e ciò che passa nello scorrere del tempo entra nell’eternità che non passa.»

Tutto questo Bernardo lo aveva compreso, presto e bene, nel silenzio di Cîteaux, e quando lo ebbe compreso volle che tutti come lui lo comprendessero. Dio, infatti, aveva scelto Bernardo «per mostrarci il trionfo della croce sulle vanità, nelle circostanze più straordinarie che abbiamo mai visto in tutta la storia».

E «tutti» per Bernardo sono proprio tutti. A cominciare dalla sua famiglia che conquistò alla verità tutta intera, fino all’ultima sorella, che pure si era sposata e indossava «la pompa del Diavolo» e che, toccata dalle parole del fratello, «corre anch’essa ai digiuni, al ritiro, al sacco, al monastero, alla penitenza». E anche il padre che, rimasto vedovo e solo, ritrova infine i suoi figli a Clairvaux dove «muore nella santa speranza e, se posso dirlo, nella pace e nell’abbraccio del Salvatore». Lo slancio apostolico di Bernardo, cui Bossuet dedica il secondo «punto» del panegirico, si estende fino ai principi, ai vescovi, ai re, al papa: armato di verità e semplicità («Cosa c’era di più solido e penetrante della semplicità di Bernardo?») si rivolge all’umanità intera, senza distinzioni né esclusioni, comprensivo con i deboli, inesorabile con i potenti: «Quale regione del mondo non è stata rischiarata dalla predicazione di Bernardo?»

E risplende, quello slancio, soprattutto nei confronti dei suoi amati confratelli, dei settecento angeli – «chiamo così gli uomini celesti che insieme a lui servivano Dio» – che popolavano «di norma» Clairvaux. Con i suoi sermoni quotidiani Bernardo li abituava alle dolcezze della Croce e «li faceva vivere in modo che nulla più sapessero delle cose del mondo, come se un immenso oceano li separasse ormai da esso».

Les faisait vivre de sorte qu’ils ne savaient non plus de nouvelles du monde que si un’océan immense les en eût séparés de bien loin. Oggi nessuno più direbbe così, e i monaci, come tutti, sono assai consapevoli delle «nouvelles du monde», ma forse l’«océan immense» è quello che talvolta vorrebbero, e non solo loro, li distanziasse dalle suddette.

(2-fine)

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  1. Jacques-Bénigne Bossuet, Panégyrique de St. Bernard, in Oraisons funèbres. Panégyriques, texte établi et annoté par l’abbé Bernard Velat, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 19512, pp. 287-314.
  2. Scrive Omar Khayyam: «È la Vita, la Vita che passa come tu sai passarla».

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Il Panegirico di San Bernardo di Bossuet (pt. 1/2)

Mi sono deciso a leggere, a provare a leggere, giacché si tratta pur sempre di lingua francese del Seicento, il Panegirico di San Bernardo di Jacques-Bénigne Bossuet1, anzitutto per via di Bernardo, del quale tutto vorrei sapere, e poi perché Bossuet occupa un posto di riguardo nella mia penosa enciclopedia mentale, come se il suo nome fosse evidenziato, senza che ne sappia spiegare il motivo, dacché di lui non so praticamente nulla.

Il Panegirico, di cui si conserva il manoscritto autografo con correzioni e varianti, fu effettivamente predicato il 20 agosto 1653 nella Cattedrale di Santo Stefano di Metz, di cui Bossuet era diventato canonico nel 1642, a tredici anni, e che è considerata «la culla del suo talento letterario». È piuttosto lungo (27 pagine a fitta stampa), è diviso in quattro momenti – un esordio, due «punti» e una perorazione –, ed è stato definito «ammirevole», acceso «dalla felice temerità della giovinezza e dal fuoco dell’ispirazione»: «Bossuet non si esprimerà mai in maniera così elevata e più penetrante» (Eugène Gandar).

L’esordio è dedicato alla Vergine, di cui s’invoca l’«assistenza» e di cui Bernardo fu massimamente devoto, e a un «ripasso» dell’azione salvifica dell’incarnazione di Gesù, «divino precettore» e «santo e misterioso compendio» della sapienza divina: «il libro nel quale Dio ha scritto la nostra istruzione». Questo «libro» si è aperto a noi nel modo più chiaro sulla Croce, ai piedi della quale Bernardo si è sempre tenuto (baciandone «i sacri caratteri» – proprio quelli di stampa, intenderei).

Nel primo «punto» Bossuet affronta proprio la «scienza della croce» come è stata interpretata e vissuta da Bernardo, ponendo l’accento soprattutto sulla penitenza e sul disprezzo del mondo. Consideriamo anzitutto il fatto che Bernardo ha fuggito il mondo, abbracciando la religione, a 22 anni, non prima, quando del mondo non avrebbe ancora avuto reale esperienza, né dopo, quando il disgusto, la fatica, la noia e le inquietudini del mondo avrebbero potuto già disilluderlo; e consideriamo poi proprio quell’età, il pieno della giovinezza, il vigore fisico, il calore delle passioni non ancora indirizzate e, nel caso di Bernardo, i nobili natali, la famiglia prestigiosa, il bell’aspetto, la buona educazione, la naturale cortesia e i possibili futuri – «tutto sorride alla giovinezza», e «la speranza gonfia le sue vele». Ebbene, Bernardo rifiuta tutto ciò, per grazia sa già che la vera speranza è quella che si ripone in Gesù, seguendo la sua via. Una via che non passa dai ricchi e famosi monasteri benedettini del tempo, bensì da un’abbazia «ora celeberrima, ma allora sconosciuta e senza nome», Cîteaux, dove «un piccolo numero di religiosi viveva sotto l’abate Stefano». Qui, Bernardo si mortifica senza pietà, «cancellava il gusto, mangiava quello che capitava, beveva acqua o olio indifferentemente», veglia, non parla, prega, «sceglieva per la sua cella un ambiente umido e malsano, non tanto per ammalarsi ma per sentirsi debole – ritenendo che un religioso fosse sano fintantoché potesse pregare e salmodiare».

«Certo, non aveva un corpo di ferro o di ottone: pativa i dolori ed era di debole costituzione», ma ci ha mostrato come non sia il corpo che ci manca, per sostenere la penitenza, bensì il coraggio e la fede. Io so, diceva Bernardo, di non meritare il regno dei cieli, Gesù invece lo possiede per due ragioni: per la sua natura e per i suoi travagli, cioè per eredità, poiché è il Figlio, e per conquista, perché tutto il peggio ha sofferto. Ora, se il Salvatore «si accontenta del primo titolo», mi ha ceduto liberamente il secondo.

«Forse voi mi direte», si avvia Bossuet a concludere il primo punto, «che non è necessario che tutti vivano come lui». Vero, nemmeno tuttavia si può fare il contrario, come accade a noi, che «ci diamo anima e corpo alle folli gioie del mondo; noi, che amiamo la dissolutezza e la buona cucina, una vita comoda e voluttuosa e, dopodiché, vogliamo ancora essere chiamati cristiani». Eh, «se pure non aspiriamo a quella eminente perfezione, nondimeno dovremmo imitare almeno qualche cosa della sua penitenza». Quelque chose.

(1-segue)

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  1. Jacques-Bénigne Bossuet, Panégyrique de St. Bernard, in Oraisons funèbres. Panégyriques, texte établi et annoté par l’abbé Bernard Velat, Gallimard, Bibliotheque de la Pléiade, 19512, pp. 287-314.

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Gloria o confusione

SapienzaDelCuore La sapienza del cuore1 rappresenta uno degli esempi più tipici di quei libri di «cose monastiche» che non leggo per motivi di conoscenza storica e inquadramento di un fenomeno culturale bensì per… per cosa? Come definire lo scopo di una lettura del genere senza ipocrisia né autocompiacimento? Forse la formulazione più onesta è quella di «conoscenza personale»; forse si può persino rispolverare il concetto di «edificazione». Poi, con una punta – in questo caso sì – di condiscendenza verso le mie fantasie, posso immaginare di essere seduto tra gli uditori dei sermoni di san Bernardo ed esserne chiamato direttamente in causa. Oggi.

Il volume infatti antologizza – sapientemente, è il caso di dire – alcuni mirabili sermoni dell’abate di Clairvaux sul tema della coscienza e vi unisce due testi anonimi sul medesimo argomento, sempre di ambiente cisterciense, il Tractatus de conscientia ad religiosum quemdam ordinis cisterciensis e il Tractatus de interiori domo seu de conscientia aedificanda. Ben preparati dall’introduzione di Riccardo Larini, che ricostruisce lo sviluppo del concetto di coscienza, dalle origini greche ed ebraiche a Filone alessandrino, da san Paolo a Origene e ad Agostino, fino alle sintesi cisterciense e della scuola di San Vittore, siamo pronti ad ascoltare. E «cosa ci suggeriscono allora i testi degli autori medievali sulla coscienza che abbiamo proposto in questa raccolta?» si chiede Larini, concludendo la sua introduzione. «Forse qualche spunto prezioso sono in grado di offrirlo pure a noi.» Ecco, appunto.

Ad esempio è proprio san Bernardo, campione di ascesi e di rinunce, a ricordare come Dio abbia dato all’anima una «dimora sublime»: «Parlo di questo corpo, che egli ha ideato, disposto, ornato e ordinato in tal maniera che tu puoi abitare in esso gloriosamente e con compiacimento». Nessuna condanna a priori, quindi, semmai l’invito a fare altrettanto, cioè a costruire una casa degna di accogliere a nostra volta Dio che desidera riunirsi a noi. In realtà non occorre costruirla, perché è già lì, l’anima, e in essa la coscienza, e si tratta piuttosto di pulirla, svuotarla del brutto e del superfluo, renderla accogliente. Ciò è possibile perché la coscienza è la sede dell’immagine di Dio, che è indistruttibile («La coscienza è poi eterna, non ha fine, così come non ha fine l’anima»), e a noi è data la possibilità di ricomporne la somiglianza, che invece assai facilmente possiamo dissipare. Gli strumenti che alternativamente possono dare adito allo smarrimento e alla dissipazione, o al discernimento e alla ricomposizione sono la memoria, la ragione e la volontà.

Tre facoltà che non devono separarsi, bensì cooperare: «La ragione sia quindi senza errore, per potersi ben conformare alla volontà: così la predilige, infatti, la stessa volontà. La volontà sia senza iniquità, poiché così l’approva la ragione. Altrimenti, se l’anima accusa se stessa di avere una volontà depravata, riguardo a una cosa che la ragione approva, si avrà guerra intestina e discordia pericolosa. […] Anche la memoria sia senza macchia; non rimanga in lei alcun peccato che non sia cancellato grazie alla confessione e a convenienti frutti di conversione. Altrimenti la coscienza, nella quale il peccato resta nascosto, sarà odiata dalla volontà e maledetta dalla ragione». Non è difficile vedere come anche un non credente possa addentrarsi in queste distinzioni, traendo ispirazione, se così si può dire, dal concetto dell’immagine come «nucleo di bene» che possiamo rintracciare in noi, anche ignorandone l’origine; oppure ritrovare il senso di quella «guerra intestina».

E come non riconoscere, per fare un altro esempio, l’efficacia della descrizione dei quattro generi di coscienza: buona e tranquilla, buona e turbata, cattiva e tranquilla, cattiva e turbata. La prima è quella dei santi, o comunque di chi «è dolce con tutti e non è di peso a nessuno», di chi «si serve dell’amico per la grazia, del nemico per la pazienza, di tutti per volere il bene». Una coscienza siffatta, commenta l’Anonimo, «è come un uccello raro sulla terra». La seconda è quella di coloro che «sono preda delle tribolazioni del corpo e dell’anima, ma non cedono né recedono nella tribolazione», che guardano con apprensione al futuro e ripensano – aggiunge Bernardo – «con amarezza agli anni passati». La terza è quella di chi «non teme Dio e non rispetta l’uomo», quella «di coloro che peccano sperando in bene» («è la coscienza, soprattutto, degli adolescenti», commenta Bernardo). La quarta infine è quella dei disperati (che disperano della salvezza) e di chi è tormentato dal senso di colpa: «Per esempio», dice l’Anonimo, «qualcuno desidera per il godimento l’adulterio, ma in questo è colto dall’ansia; e quest’ansia è ben più grande del godimento, a tutta vergogna e angoscia dell’uomo che vive e sa [sapit] secondo l’uomo».

Sono soltanto un paio di spunti da un libro che ne dispensa a iosa, e che offre soprattutto l’occasione di rinnovare l’attenzione su di un «luogo» in cui «accade» gran parte di ciò che ci riguarda, o che ci dovrebbe riguardare, e in cui forse è possibile anche agire, e non soltanto sentire: «La coscienza infatti è la gloria o la confusione inseparabile di ciascuno, secondo la qualità di ciò che vi è stato depositato».

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  1. La sapienza del cuore. La coscienza al cuore della vita spirituale in alcuni testi monastici del XII secolo, a cura di R. Larini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 1997.

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«Il sole nella notte», di Bernardo Olivera

SoleNellaNotte Considero salutare, per il mio modesto impegno di comprensione, misurarmi con testi come Il sole nella notte di Bernardo Olivera1. Un testo impegnativo e istruttivo, il cui argomento si estende molto oltre la mia capacità di riferirne (e in fondo anche di accoglierne le premesse). Come infatti recita il sottotitolo, il libro del monaco argentino, abate generale dei Trappisti dal 1990 al 2008, parla di «mistica cristiana ed esperienza monastica», con particolare riferimento alla tradizione di autori e autrici cisterciensi.

Cinque tappe. Anzitutto una ricognizione del «contesto culturale» moderno e post moderno – che si può condividere o no – nel quale si situa il «fatto mistico», poiché se la sua sorgente è eterna e fuori del tempo, la sua esperienza è attuale e costantemente presente, vissuta da persone che non sono estranee al proprio tempo («Tutti gli uomini – ed i monaci e le monache non fanno eccezione – vivono, decidono ed agiscono a partire da un determinato mondo culturale»). Un tempo, questo, caratterizzato dall’autonomia dell’individuo e dal razionalismo «in opposizione ad ogni forma di religione o di fede»; un tempo di relativismo, assolutismo scientifico, «deificazione» dell’io e rifiuto di Dio, che nondimeno manifesta una potente ricomparsa della sete di mistero.

A fronte di questa «sete», secondariamente, emerge in tutta la sua efficacia la lezione della tradizione monastica: «Se noi, dopo oltre nove secoli di storia, ancora ci siamo, è perché i nostri primi Padri e Madri avevano, in gradi diversi»: una capacità di trascendenza sperimentata pienamente; «un notevole dono di riflessione dell’esperienza vissuta»; «una grande abilità nel fissare l’esperienza per iscritto e dare vita a comunità e gruppi depositari dello stesso patrimonio trascendente, teologale e mistico».

In terzo luogo sono necessari alcuni «chiarimenti preliminari». Il mistero, cioè il disegno divino, è una dimensione ineludibile dell’esistenza («Lo stesso essere umano è mistero ed è stato creato per il mistero»). In realtà, da un punto di vista cristiano, è una circostanza multidimensionale, infatti è: eterno, libero, intelligente, amoroso, storico, personale, comunitario, attuale, liturgico, irrevocabile, trascendente, e si illumina nel Cristo. La mistica rappresenta «l’apice di incontro tra l’Essere assoluto e l’uomo». I grandi mistici e le grandi mistiche fanno esperienza del mistero in modo permanente, ma «in forma passeggera e in grado minore» le esperienze mistiche «sono assai più comuni di quanto si possa immaginare»: ogni battezzato vi accede, più o meno consapevolmente. Questa esperienza mistica è «un modo particolare di vivere la fede» e può declinarsi in molte forme: essenziale, sponsale, contemplativa, apostolica, cosmica, interpersonale, ordinaria, casuale.

La quarta tappa (dedicata a Gesù Cristo, «il mistico per eccellenza») e la quinta (che affronta nel dettaglio i vari aspetti dell’esperienza mistica come è stata tramandata dai monaci e dalle monache cisterciensi: Bernardo, Aelredo, Baldovino di Ford, Guglielmo di Saint-Thierry, Beatrice di Nazareth, Hadewijch di Anversa) sono le più lunghe e complesse: è saggio che non ne dica nulla.

Salutare, dicevo. Perché è qui che posso in qualche modo misurare l’efficacia della mia posizione, che sicuramente mi è già capitato di esporre. Io non credo, infatti, nel mistero, e questa affermazione renderebbe del tutto priva di senso la lettura delle pagine di Bernardo Olivera. Sì, d’altra parte questo non significa che io non creda a chi dice di credervi, o di farne esperienza. Cosa sono queste persone: illuse, suggestionate, paralizzate dall’idea del nulla, allucinate, folli? Tutte categorie da usare con estrema cautela, anzi, da non usare affatto (anche senza considerare la finezza di pensiero che si può facilmente rintracciare negli scritti citati).

È lo stesso p. Olivera che mi invita a riflettere, quando dice: «Sarà necessario anche ascoltare la voce degli uomini e delle donne del nostro mondo laico e secolarizzato. È un dato di fatto che molti, che si dichiarano atei o agnostici, cercano Dio, sia pure senza esserne coscienti, nelle esperienze umane più profonde. Ed è precisamente l’esperienza dell’amore [fra l’uomo e la donna] (le parentesi quadre a questa specificazione che l’autore fa dell’amore le ho messe io, che sono laico e secolarizzato) ad avvicinarli all’esperienza religiosa. […] Un’esperienza profondamente umana è potenzialmente un’esperienza religiosa». Mi perdonerà il p. Olivera se gli chiedo di non interpretare il mio rispettoso silenzio davanti a quel sia pure senza esserne coscienti e a quel potenzialmente come un silenzio-assenso.

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  1. Bernardo Olivera, Il sole nella notte. Mistica cristiana ed esperienza monastica, presentazione di S.F. Ordóñez, traduzione a cura delle Trappiste di Valserena, Àncora 2003 (ediz. orig. Sol en la noche, 2001).

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Movente, metodo e fine, origine, senso e scopo

VitaNostra 23 Di grande interesse il numero più recente di «Vita Nostra», il periodico dell’Associazione «Nuova Citeaux», che dedica ampio spazio alla prima parte del capitolo generale dei Cisterciensi della Stretta Osservanza, tenutasi ad Assisi lo scorso febbraio e che ha visto l’elezione del nuovo Abate Generale, nella persona di d. Bernardus Peeters, già abate della comunità brabantina di Tilburg.

Tra le righe dei vari testi sono disseminate osservazioni che, pur nella necessità della sintesi e con la consueta discrezione, rimandano alla ferma e talvolta dolorosa riflessione su se stessi che i monaci e le monache del secolo presente sentono in vari modi premere sulle proprie coscienze, una pressione che viene dal contesto culturale e religioso in cui vivono e che, come dice l’abate di Citeaux d. Burton, «ci presenta, per la Chiesa e per il futuro del nostro Ordine, delle sfide immense!» Cosa ci si aspetta dai monaci, si chiede ancora d. Burton, in questo mondo «disincantato dal suo stesso disincanto»? E la sua risposta affianca quattro virtù, quattro volti noti ma non per questo facili né immediati: «Nel nostro [non passi inosservato l’uso del possessivo “nostro”] mondo secolarizzato, questo è ciò che ci si aspetta da noi: la profondità della sapienza e l’ampiezza della tenerezza, raddoppiata dalla lunghezza della pazienza, ed essa stessa a spirale verso le altezze della speranza!»

Nel testo di d. Mauro-Giuseppe Lepori, abate generale dei «cugini» della Comune Osservanza, che prende spunto da un passo di Matteo, si può leggere d’altra parte, che «la comunione fraterna in Cristo è la sostanza della missione, di tutta la missione della Chiesa, anche della missione dei monasteri. La comunione è il movente, il metodo e il fine, l’origine, il senso e lo scopo della missione della Chiesa». Insieme bisogna vivere, camminare, mangiare, fare, parlarsi, vedersi e ascoltarsi, e decidere – e da abate di lunga esperienza d. Lepori aggiunge: «Il problema non è tanto di prendere sempre le decisioni giuste, ma di far crescere il consenso, il sentire insieme della comunità» (e quanto mi piacerebbe chiedergli fin dove crede si possa spingere questa impostazione al crescere meramente numerico della «comunità» in questione).

Ancora più esplicite e fitte le considerazioni della Sintesi dello stato dell’Ordine di m. Maria Francesca Righi e d. Godefroy Raguenet de Saint Albin. Un testo breve e calibrato nel quale a tratti mi è parso di percepire un antagonismo più marcato col mondo della «secolarizzazione globale» e che vuole riaffermare il senso dell’«inalterata attualità del nostro carisma», pur muovendo dalle ombre circostanti prodotte dalla crisi (ecologica, sanitaria, economica e legata agli abusi), dalla riduzione della comunità, dalla «fragilità delle nostre strutture», dai «sentimenti di isolamento». Anzitutto il carisma, appunto, che trova, tra le altre, un’inattesa declinazione resistenziale: «I fondamenti della vita monastica, i pilastri del nostro carisma, ci permettono di resistere alla mondanità manageriale e alla preponderanza della tecnoscienza». Poi la fraternità, e poi ancora la formazione, «questione cruciale, evidenziata in vari modi» che rimanda anche al problema assai complesso tra i monasteri delle giovani Chiese e quelli del vecchio mondo («Siamo ancora (troppo?) in gran parte non toccati dall’interculturalità che segna la vita religiosa apostolica oggi»).

Molti anche gli spunti «tecnici», come ad esempio l’osservazione che «le conferenze regionali sembrano essere una risorsa sottoutilizzata»; oppure il suggerimento che «la mancanza di padri immediati non potrebbe aprire la strada alle “madri immediate”?»; o ancora l’invito a esplorare gli aspetti migliori della «comunicazione», ad esempio con «una piattaforma interattiva, un blog moderato da un membro della Casa Generalizia, ecc.»); o infine la velatissima e sorprendente (e quindi espressa in latino…) proposta di valutazione di nuove forme di professione di fronte alla «sete esistenziale dei candidati» (non sempre e non più soltanto giovani – «dovremmo rivedere il nostro vocabolario, quando sono spesso ultracinquantenni»): «Proprio come la richiesta dei laici cistercensi è stata un segno dei tempi, così una proposta di vita monastica ad tempus è forse un percorso da esplorare».

«Il vecchio mondo se n’è andato», concludono m. Righi e d. Raguenet, e occorre che l’Ordine si apra, al proprio interno e all’esterno, dialogando, condividendo, testimoniando, accogliendo. È necessario, «se non vogliamo essere i guardiani o le reliquie di un mondo passato».

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