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«Il sole nella notte», di Bernardo Olivera

SoleNellaNotte Considero salutare, per il mio modesto impegno di comprensione, misurarmi con testi come Il sole nella notte di Bernardo Olivera1. Un testo impegnativo e istruttivo, il cui argomento si estende molto oltre la mia capacità di riferirne (e in fondo anche di accoglierne le premesse). Come infatti recita il sottotitolo, il libro del monaco argentino, abate generale dei Trappisti dal 1990 al 2008, parla di «mistica cristiana ed esperienza monastica», con particolare riferimento alla tradizione di autori e autrici cisterciensi.

Cinque tappe. Anzitutto una ricognizione del «contesto culturale» moderno e post moderno – che si può condividere o no – nel quale si situa il «fatto mistico», poiché se la sua sorgente è eterna e fuori del tempo, la sua esperienza è attuale e costantemente presente, vissuta da persone che non sono estranee al proprio tempo («Tutti gli uomini – ed i monaci e le monache non fanno eccezione – vivono, decidono ed agiscono a partire da un determinato mondo culturale»). Un tempo, questo, caratterizzato dall’autonomia dell’individuo e dal razionalismo «in opposizione ad ogni forma di religione o di fede»; un tempo di relativismo, assolutismo scientifico, «deificazione» dell’io e rifiuto di Dio, che nondimeno manifesta una potente ricomparsa della sete di mistero.

A fronte di questa «sete», secondariamente, emerge in tutta la sua efficacia la lezione della tradizione monastica: «Se noi, dopo oltre nove secoli di storia, ancora ci siamo, è perché i nostri primi Padri e Madri avevano, in gradi diversi»: una capacità di trascendenza sperimentata pienamente; «un notevole dono di riflessione dell’esperienza vissuta»; «una grande abilità nel fissare l’esperienza per iscritto e dare vita a comunità e gruppi depositari dello stesso patrimonio trascendente, teologale e mistico».

In terzo luogo sono necessari alcuni «chiarimenti preliminari». Il mistero, cioè il disegno divino, è una dimensione ineludibile dell’esistenza («Lo stesso essere umano è mistero ed è stato creato per il mistero»). In realtà, da un punto di vista cristiano, è una circostanza multidimensionale, infatti è: eterno, libero, intelligente, amoroso, storico, personale, comunitario, attuale, liturgico, irrevocabile, trascendente, e si illumina nel Cristo. La mistica rappresenta «l’apice di incontro tra l’Essere assoluto e l’uomo». I grandi mistici e le grandi mistiche fanno esperienza del mistero in modo permanente, ma «in forma passeggera e in grado minore» le esperienze mistiche «sono assai più comuni di quanto si possa immaginare»: ogni battezzato vi accede, più o meno consapevolmente. Questa esperienza mistica è «un modo particolare di vivere la fede» e può declinarsi in molte forme: essenziale, sponsale, contemplativa, apostolica, cosmica, interpersonale, ordinaria, casuale.

La quarta tappa (dedicata a Gesù Cristo, «il mistico per eccellenza») e la quinta (che affronta nel dettaglio i vari aspetti dell’esperienza mistica come è stata tramandata dai monaci e dalle monache cisterciensi: Bernardo, Aelredo, Baldovino di Ford, Guglielmo di Saint-Thierry, Beatrice di Nazareth, Hadewijch di Anversa) sono le più lunghe e complesse: è saggio che non ne dica nulla.

Salutare, dicevo. Perché è qui che posso in qualche modo misurare l’efficacia della mia posizione, che sicuramente mi è già capitato di esporre. Io non credo, infatti, nel mistero, e questa affermazione renderebbe del tutto priva di senso la lettura delle pagine di Bernardo Olivera. Sì, d’altra parte questo non significa che io non creda a chi dice di credervi, o di farne esperienza. Cosa sono queste persone: illuse, suggestionate, paralizzate dall’idea del nulla, allucinate, folli? Tutte categorie da usare con estrema cautela, anzi, da non usare affatto (anche senza considerare la finezza di pensiero che si può facilmente rintracciare negli scritti citati).

È lo stesso p. Olivera che mi invita a riflettere, quando dice: «Sarà necessario anche ascoltare la voce degli uomini e delle donne del nostro mondo laico e secolarizzato. È un dato di fatto che molti, che si dichiarano atei o agnostici, cercano Dio, sia pure senza esserne coscienti, nelle esperienze umane più profonde. Ed è precisamente l’esperienza dell’amore [fra l’uomo e la donna] (le parentesi quadre a questa specificazione che l’autore fa dell’amore le ho messe io, che sono laico e secolarizzato) ad avvicinarli all’esperienza religiosa. […] Un’esperienza profondamente umana è potenzialmente un’esperienza religiosa». Mi perdonerà il p. Olivera se gli chiedo di non interpretare il mio rispettoso silenzio davanti a quel sia pure senza esserne coscienti e a quel potenzialmente come un silenzio-assenso.

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  1. Bernardo Olivera, Il sole nella notte. Mistica cristiana ed esperienza monastica, presentazione di S.F. Ordóñez, traduzione a cura delle Trappiste di Valserena, Àncora 2003 (ediz. orig. Sol en la noche, 2001).

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Movente, metodo e fine, origine, senso e scopo

VitaNostra 23 Di grande interesse il numero più recente di «Vita Nostra», il periodico dell’Associazione «Nuova Citeaux», che dedica ampio spazio alla prima parte del capitolo generale dei Cisterciensi della Stretta Osservanza, tenutasi ad Assisi lo scorso febbraio e che ha visto l’elezione del nuovo Abate Generale, nella persona di d. Bernardus Peeters, già abate della comunità brabantina di Tilburg.

Tra le righe dei vari testi sono disseminate osservazioni che, pur nella necessità della sintesi e con la consueta discrezione, rimandano alla ferma e talvolta dolorosa riflessione su se stessi che i monaci e le monache del secolo presente sentono in vari modi premere sulle proprie coscienze, una pressione che viene dal contesto culturale e religioso in cui vivono e che, come dice l’abate di Citeaux d. Burton, «ci presenta, per la Chiesa e per il futuro del nostro Ordine, delle sfide immense!» Cosa ci si aspetta dai monaci, si chiede ancora d. Burton, in questo mondo «disincantato dal suo stesso disincanto»? E la sua risposta affianca quattro virtù, quattro volti noti ma non per questo facili né immediati: «Nel nostro [non passi inosservato l’uso del possessivo “nostro”] mondo secolarizzato, questo è ciò che ci si aspetta da noi: la profondità della sapienza e l’ampiezza della tenerezza, raddoppiata dalla lunghezza della pazienza, ed essa stessa a spirale verso le altezze della speranza!»

Nel testo di d. Mauro-Giuseppe Lepori, abate generale dei «cugini» della Comune Osservanza, che prende spunto da un passo di Matteo, si può leggere d’altra parte, che «la comunione fraterna in Cristo è la sostanza della missione, di tutta la missione della Chiesa, anche della missione dei monasteri. La comunione è il movente, il metodo e il fine, l’origine, il senso e lo scopo della missione della Chiesa». Insieme bisogna vivere, camminare, mangiare, fare, parlarsi, vedersi e ascoltarsi, e decidere – e da abate di lunga esperienza d. Lepori aggiunge: «Il problema non è tanto di prendere sempre le decisioni giuste, ma di far crescere il consenso, il sentire insieme della comunità» (e quanto mi piacerebbe chiedergli fin dove crede si possa spingere questa impostazione al crescere meramente numerico della «comunità» in questione).

Ancora più esplicite e fitte le considerazioni della Sintesi dello stato dell’Ordine di m. Maria Francesca Righi e d. Godefroy Raguenet de Saint Albin. Un testo breve e calibrato nel quale a tratti mi è parso di percepire un antagonismo più marcato col mondo della «secolarizzazione globale» e che vuole riaffermare il senso dell’«inalterata attualità del nostro carisma», pur muovendo dalle ombre circostanti prodotte dalla crisi (ecologica, sanitaria, economica e legata agli abusi), dalla riduzione della comunità, dalla «fragilità delle nostre strutture», dai «sentimenti di isolamento». Anzitutto il carisma, appunto, che trova, tra le altre, un’inattesa declinazione resistenziale: «I fondamenti della vita monastica, i pilastri del nostro carisma, ci permettono di resistere alla mondanità manageriale e alla preponderanza della tecnoscienza». Poi la fraternità, e poi ancora la formazione, «questione cruciale, evidenziata in vari modi» che rimanda anche al problema assai complesso tra i monasteri delle giovani Chiese e quelli del vecchio mondo («Siamo ancora (troppo?) in gran parte non toccati dall’interculturalità che segna la vita religiosa apostolica oggi»).

Molti anche gli spunti «tecnici», come ad esempio l’osservazione che «le conferenze regionali sembrano essere una risorsa sottoutilizzata»; oppure il suggerimento che «la mancanza di padri immediati non potrebbe aprire la strada alle “madri immediate”?»; o ancora l’invito a esplorare gli aspetti migliori della «comunicazione», ad esempio con «una piattaforma interattiva, un blog moderato da un membro della Casa Generalizia, ecc.»); o infine la velatissima e sorprendente (e quindi espressa in latino…) proposta di valutazione di nuove forme di professione di fronte alla «sete esistenziale dei candidati» (non sempre e non più soltanto giovani – «dovremmo rivedere il nostro vocabolario, quando sono spesso ultracinquantenni»): «Proprio come la richiesta dei laici cistercensi è stata un segno dei tempi, così una proposta di vita monastica ad tempus è forse un percorso da esplorare».

«Il vecchio mondo se n’è andato», concludono m. Righi e d. Raguenet, e occorre che l’Ordine si apra, al proprio interno e all’esterno, dialogando, condividendo, testimoniando, accogliendo. È necessario, «se non vogliamo essere i guardiani o le reliquie di un mondo passato».

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Assetati e dissetati (un sermone di Guerrico d’Igny)

Guerrico IgnySi prenda un sermone abbaziale del XII secolo, uno dei tanti, su un argomento particolarmente ostico per un «non credente», la discesa dello Spirito Santo, di un un autore non di primissimo piano, Guerrico d’Igny, che pure è stato inserito tra «i quattro evangelisti di Cîteaux, al fianco dei sommi Bernardo di Chiaravalle, Guglielmo di Saint-Thierry e Aelredo di Rievaulx. Si prenda e si legga, come se fosse pronunciato oggi1.

Va detto anzitutto che mi è impossibile cogliere la fittissima rete di citazioni bibliche (evangeliche, paoline, ma anche dai Salmi, dai Profeti e dai libri sapienziali) se non con l’aiuto delle note. Scorro in ogni caso le non nuove (anche per me) affermazioni sull’infinita misericordia di Dio e sulla profusione della Sua grazia, anche sui peccatori: grazia come luce che splende su tutti, senza distinzione di condizione o merito. «Né Dio ha tralasciato di dare testimonianza di sé nella coscienza degli uomini», precisa Guerrico; guai, quindi, a coloro che sono «ribelli alla luce» (apparentemente impossibile, no?), perché per loro la luce diventa il calore che secca il fango, lo indurisce e lo crepa.

«Ma cosa ci importa», prosegue Guerrico, «di coloro che sono al di fuori», il sermone è per chi accetta e riconosce lo Spirito. Eccomi quindi «al di fuori», e tuttavia oggetto di speranza da parte di chi è dentro, il quale comunque è bene che non stia tranquillo («Come infatti è crudele perdere ogni speranza nei loro confronti, così è temerario essere troppo sicuri di noi»). A nessuno infatti è lecito giudicare prima del Giudice, e chi è dentro non deve dimenticare che anche lui una volta era fuori: «Siamo dunque, noi per loro, un esempio di speranza per la penitenza, essi per noi di timore per la perseveranza».

Il timore è una disposizione cruciale, perché «mette ordine» e affranca dalla frivolezza e dalla falsa gioia. Chi è dentro può accedere alla vera gioia, come l’assetato all’acqua, e questa è l’unica condizione: «Voglia venire solo chi sa di avere sete». I (falsamente) dissetati dalle cose terrene, i sazi di mondo saranno respinti.

Il punto è delicato. La sazietà, da qualsiasi cosa sia provocata, è male, perché spinge a disprezzare il «dono del cielo» (cioè la luce): «Quale peste infatti è tanto perniciosa, quale morbo tanto letale da far così avvicinare l’uomo dimentico della sua salvezza, ridente e senza preoccupazioni, fino alle porte della morte?» Mah… chi è che si avvicina alla fine ridente e senza preoccupazioni? Assai pochi. E perché colpevolizzare il ridente e senza preoccupazioni, se non nuoce al prossimo? E ancora: le sazietà sono tutte uguali?

È san Paolo che parla per bocca di Guerrico, il quale tuttavia pare ora rivolgersi più direttamente ai suoi confratelli: perché non perseverate, avete dimenticato la promessa di Dio? Prima cantavano inni al Signore, «ora invece partecipano alle lodi divine e continuano a dormire o indugiano con la mente in pensieri oziosi e anche dannosi; siedono davanti a un libro e sbadigliano, ascoltano la parola di esortazione e perfino nell’ascoltarla si affaticano; passano di pascolo in pascolo e provano fastidio sia di questi sia di quelli, di continuo si trovano fra gli alimenti che danno vita e muoiono di fame».

Non si facciano ingannare dai demoni, è un attimo farsi trascinare dalla libidine, dall’ira, anche dalla semplice impazienza, che inebriano e non dissetano. E per carità non parlino contro i fratelli, è «commensale» dei demoni chi lo fa e anche colui che, «anche se non sparla, ascolta volentieri chi lo fa [o] che con la scurrilità del suo parlare finisce per ridurre al nulla coloro che ne ridono a crepapelle» (qui etiamsi non detrahit, detrahentem libenter audit; qui scurilitate stultiloquii cachinnantes dissolvit).

Ma no, conclude l’abate Guerrico, con un piccolo colpo di scena finale, non sto parlando di voi, «non voglia il cielo che io, facendo queste considerazioni, accusi voi che invece, essendo innocenti, mi date una grandissima gioia», no, lo dico soltanto per mettervi in guardia.

E noi, che intanto siamo rimasti fuori, qualche barzellettina possiamo dirla?

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  1. Guerrico d’Igny, Sermone I per la Pentecoste, in: Bianca Betto, Guerrico d’Igny e i suoi sermoni, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 1988, pp. 309-16.

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Un tratto pianeggiante (Isacco della Stella, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

«Tutta la nostra vita è un punto o un momento», ribadisce Isacco della Stella nel Sermone 281, invitando i suoi confratelli ad avanzare con umiltà nella tenebra del mondo, con l’unico conforto, se così lo si può chiamare, che il peccato, l’errore, non è difinitivo. «Tutto quello che facciamo in modi così diversi e variegati è una sola opera», che verrà giudicata alla fine, ed è per questo che durante siamo assaliti di continuo dal dubbio. Mentre, appunto, camminiamo nel buio, o ci fermiamo del tutto disorientati, vediamo e al tempo stesso non vediamo, dobbiamo riconoscere che «siamo una combinazione gemellare» di cecità e visione, figli della terra e figli del Cielo.

Da tale condizione deriva una tensione estrema e insanabile, in particolare per coloro che come lui hanno scelto la vita monastica. Se la grazia della fede, o più esattamente la discesa in terra del Figlio di Dio, ha «dimostrato» la nostra origine divina, «io confesso», dice Isacco, «di ritrovarmi ora come straniero e pellegrino quaggiù, vale a dire in tutto questo mondo, come se non provenissi per niente dal mondo né fossi figlio dell’uomo, ma figlio di Dio, nascosto sotto l’immagine e la somiglianza di un uomo» (il corsivo è mio). Se anche i suoi genitori, i suoi fratelli, portassero dei testimoni, o mostrassero persino «i segni nella pelle e nella carne», Isacco si opporrebbe: «Io sono cosciente della mia origine, e nego ostinatamente e contesto decisamente, dimostrando che io non sono quello che essi pensano, e che essi sono ingannati dall’immagine».

Quale «potenziale dissociativo» c’è in questo rifiuto! Tanto che si sarebbe quasi tentati di evocare il richiamo all’umiltà, se non fosse che lo stesso Isacco non può tralasciare di menzionare un grande, inaggirabile «però»: «Noi non siamo affatto terreni in quanto originari della terra, ma celesti perché originari del cielo, vestiti però di un sacco terreno». E il caro, vecchio sacco terreno è il «punto» dove si manifesta la nostra duplicità, in cui sperimentiamo con evidenza immediata2 la «combinazione gemellare»; è il sacco terreno che si sveglia, si addormenta, mangia, digiuna, soffre, gioisce, corre, si piega, spera e si dispera, ecc.: non si va mai da nessuna parte «senza questa compagnia».

Nelle frasi, mirabili, di Isacco la duplicità pare quasi assumere i tratti modernissimi della sindrome maniaco-depressiva: «Sono visitato all’alba e subito sono messo alla prova, vengo accolto e subito abbandonato; mi esalto e subito mi abbatto, come uno che sale su un sentiero di montagna e non trova un tratto piano». Letizia, dolcezza, luce, troppa luce, assenza di qualsiasi dubbio; e subito dopo paura, pianto e amarezza: «Mi consumo in una tale confusione di tedio e di accidia che tutto mi scoraggia dallo sperare un miglioramento e sono costretto a tacere». In tale alternanza, come dice il Salmista (106), «la mia anima si dissolve. Sono turbato e barcollo come un ubriaco, e tutta la mia saggezza è divorata».

«Io, lo confesso [ancora], non riesco mai a basarmi su me stesso, e sono sempre stramacinato [permolor] tra la speranza e il timore.» Isacco, nostro fratello.

(2-fine)

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  1. Isacco della Stella, Sermoni 27, 28 e 29, in I sermoni, vol. I, dalla Settuagesima alla Pentecoste, a cura di D. Pezzini, Paoline 2006, pp. 204-26.
  2. «Sono cose che proviamo con maggiore certezza nel libro dell’esperienza più che non impararle dalla voce del predicatore» (29, 13).

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Un due tre, Stella (Isacco della)! (pt. 1/2)

Sollecitato da un dotto articolo di Domenico Pezzini1, mi sono deciso ad avvicinarmi a Isacco della Stella, «il grande mistero di Cîteaux», come lo chiama Louis Bouyer, «unico tra i primi cistercensi per la libertà e l’arditezza con cui introduce nei suoi sermoni le discussioni metafisiche più tecniche» e al tempo stesso prodigo di «impreviste espressioni di un’umanità gustosa e di una familiarità inattesa». Sarà un percorso lungo, e l’ho cominiciato proprio con i tre sermoni analizzati da d. Pezzini, pronunciati da Isacco per la domenica di Quinquagesima, ossia la domenica precedente l’inizio della Quaresima (50 giorni prima di Pasqua), e dedicati alla dialettica tra terra e cielo, tra esteriorità e interiorità, tra figlio dell’uomo e Figlio di Dio, quindi a quella che sarebbe la dualità costitutiva della nostra condizione2.

Va da sé che questa dialettica è, dovrebbe essere, «ascensionale»: dalla terra dovremmo staccarci per ambire al cielo, e subito alla rete di citazioni dalla Scrittura, e all’argomentazione che ne consegue, si mescolano osservazioni «dal vero» e considerazioni personali, in un intreccio che restituisce il sapore di un discorso effettivamente pronunciato davanti a un gruppo di confratelli; confratelli nella fattispecie riuniti nel capitolo di un’abbazia su «un’isola piccola e perduta nel mare immenso»: l’abbazia di Notre-Dame des Châteliers sull’isola di Ré, di fronte a La Rochelle, dove Isacco volontariamente o no (non si sa con precisione) passò un periodo di ritiro o di esilio (non si sa quanto lungo) qualche anno dopo il 1150.

Dovremmo fare come gli uccelli, che, «per lanciarsi con le ali nell’aria, si appoggiano a fondo con tutto il corpo sul suolo dove si trovano»; dovremmo retrocedere «come fanno gli arieti per prendere la rincorsa, e lanciarci con ancora più forza verso ciò che ci sta davanti!» Sempre davanti, sempre verso l’alto, dimenticando il mondo e lasciando a terra, nella terra, tutto quello che crediamo di essere e di essere stati: «Cosa resta infatti di noi nel mondo, non dico in termini di stima, ma anche solo di memoria?» Giudichiamoci noi per primi, con durezza, in modo da non dover temere altro giudice: facciamolo qui, dice Isacco, in questo «inferno» che è il monastero, dopo aver abbandonato il mondo, laggiù, per giungere alla gloria, lassù, e aggiunge una chiosa abbastanza sorprendente: «E se l’abate, dilettissimi, fosse negligente nei nostri confronti, dobbiamo fare da abati a noi stessi».

Duro, preciso, mesto e disilluso, Isacco. Ma ecco che il giorno dopo (Sermone 28) il discorso prende una piega inattesa: «Io pure, fratelli, delle cose che ho detto ieri in tanti modi e in un mare di parole [finissima ripresa marina] sul come crocifiggere in me il figlio dell’uomo, a dire il vero non capisco niente». Come niente? E non è finita. «Confesso», prosegue Isacco, «che fatico a capire cosa davvero faccia in tutto ciò che faccio, e dopo aver fatto tutto il bene e sopportato tutto il male, non so se alla fine merito amore oppure odio.» Con un balzo di quasi novecento anni Isacco è improvvisamente al nostro fianco, incerto, dubbioso, e ci invita a non presumere di aver fatto, capito, definito tutto, di rimanere per così dire all’erta fino alla fine, perché «il senso di ciò che affermiamo dipende dalla fine del discorso. Ogni discorso resta sospeso sino alla fine, alla fine è applaudito, alla fine si risponde, alla fine si valuta; prima della fine tutte le cose oscillano.» Prima della fine tutte le cose oscillano: si può correggere, si può tagliare, si può sbagliare di nuovo, si può aggiungere inutilmente; «nel mezzo» le cose sono mobili, non hanno «un luogo fisso», sono incerte, forse saranno compiute, forse saranno tralasciate e resteranno incompiute: solo «la fine conclude tutto, sistema tutto, perfeziona tutto, al punto che prima della fine si corre un grosso rischio nel definire un qualcosa»3.

Accidenti, Isacco!

(1-segue)

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  1. Isacco della Stella su come comporre in unità la dualità della natura umana: un tema con sette variazioni, in «Vita Nostra» XI (2021), 2, pp. 65-92.
  2. Isacco della Stella, Sermoni 27, 28 e 29, in I sermoni, vol. I, dalla Settuagesima alla Pentecoste, a cura di D. Pezzini, Paoline 2006, pp. 204-26.
  3. Si può segnalare una interessante consonanza con le considerazioni svolte da Pasolini nel breve saggio Osservazioni sul piano-sequenza, del 1967, raccolto in Empirismo eretico. «L’uomo cioè si esprime soprattutto con la sua azione – non intesa in una mera accezione pragmatica – perché è con essa che modifica la raltà e incide nello spirito. Ma questa sua azione manca di unità, ossia di senso, finché essa non è compiuta. […] Finché ha futuro, cioè un’incognita, un uomo è inespresso. […] Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. È dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita

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La libertà che talvolta altri si prendono (Voci, 27)

CnstitutionsPortRoyalVIII. Svelamento dell’interiorità

Occorre che [la novizia] nutra un’apertura del cuore che vinca la ripugnanza che può avere nel far conoscere le sue debolezze, di modo che in lei non accada alcunché di sì poco rilevante che non ne metta a conoscenza chi cura la sua condotta ancor prima che venga interrogata. Deve perseverare in questa pratica nella speranza che Dio la libererà da tutte le cose cattive che avrà messo in luce nel suo cuore con un umile svelamento di se stessa, invece di nasconderle per paura di essere umiliata, consentendo che mettano radici tanto forti da non poter essere strappate via da un’altra zappa. E deve anche scoprire il bene che si manifesta in lei, così come i buoni movimenti dell’anima che Dio le susciterà, o la grazia che le farà di praticare qualche virtù; non per vantarsene, o per compiacersi vanamente dei doni che Dio le avrà fatto, bensì semplicemente per non nascondere alcunché a coloro che la guidano, in modo che, conoscendo il bene e il male in cui si troverà, la possano aiutare a superare le sue colpe e a trarre maggior profitto dal bene, praticandolo nel modo che Dio avrà stabilito per lei.

IX. Umiltà

Deve manifestarsi in lei un sincero amore dell’umiltà, quale continuazione dello spirito di penitenza che deve avere per essere veramente Religiosa, e che deve essere tanto forte da soffocare nel suo cuore il desiderio di stima, di modo che si giustifichi con difficoltà, e solo quando è costretta a farlo. Non si arrabbi se viene umiliata; non giudichi sbagliato se viene rimproverata un paio di volte più severamente di quanto creda di meritare, o anche quando è accusata ingiustamente, se Dio così vuole; si umili come dice la Regola, inginocchiandosi non appena sarà ripresa, senza esaminare se a ragione o no; abbia rispetto e cortesia per tutti, in particolar modo per le anziane, perché è conseguenza necessaria dell’umiltà, ma anche perché la gentilezza interiore produce quella esteriore: una persona veramente umile si considera nel suo cuore l’ultima di tutti, per un gran numero di ragioni che la grazia le rivelerà, e in virtù di questo sentimento porterà rispetto a tutti. Questa medesima virtù impedisce all’anima che ne è riempita di immischiarsi in cose che non la riguardano, perché ha una buona opinione di coloro che vi sono preposti e sa di non doversene preoccupare; d’altra parte sa accettare la libertà che altri talvolta si prendono di immischiarsi nelle cose che la riguardano, perché si stima incapace in tutto e vuole che anche gli altri lo credano; condizione essenziale, questa, in una Religiosa, e che deve estendersi in genere a qualsiasi cosa, senza eccezioni.

♦ m. Agnès Arnauld [1593-1672], Les constitutions du monastere de Port Royal du Saint Sacrement, 1675; Avis à la Maistresse des Novices.

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Bernardo esistenzialista

Per molti mesi, a lettura ultimata, ho tenuto sul banco il volume di Charles Dumont su Bernardo di Chiaravalle1, nella speranza di riuscire a farne una sintesi adeguata al valore e alla ricchezza del libro. Senza successo. E d’altra parte, perché puntare a un’ulteriore sintesi di quello che già si propone come un «saggio di sintesi sull’insegnamento spirituale monastico di san Bernardo»? Maturato in oltre vent’anni di letture, riflessioni, articoli e conferenze – e in quarantacinque di vita monastica –, il libro di Dumont (belga, cisterciense a Scourmont, nato nel 1918 e morto nel 2009) è una piana, distesa, impegnativa e gratificante esposizione del pensiero teologico-antropologico-filosofico-monastico di Bernardo, derivata da una lettura integrale delle sue opere, da cui sono tratte innumerevoli citazioni, una più bella e interessante dell’altra. Non è, tuttavia, un florilegio: «Nello scegliere le citazioni e nel presentarle», dice Dumont, «talvolta mi è sembrato di ritrovare il mestiere che avevo imparato prima di entrare in monastero. Si trattava di tracciare con il gesso sul tessuto dei segni calcolati per tagliare dei pezzi di quella stoffa, di riunirli e cucirli insieme per farne un vestito».

Niente sintesi, dunque. C’è però almeno una parola, un concetto, che ho visto riapparire costantemente nel testo e intorno al quale si sono raggruppate molte delle cose che credo di aver appreso da questa lettura. La parola è: conversione, quella conversio-conversatio cruciale in ogni esperienza monastica che l’uso corrente dell’espressione (specialmente nel verbo convertirsi) non restituisce più: «Tutta la vita monastica è una vita spirituale», commenta Dumont, «ed ogni vita spirituale è una vita di conversione», e ricostruisce con bella evidenza il dinanismo, la concretezza di tale movimento.

Accecati dal peccato originale, avvelenati dalla menzogna che rappresenta e sempre più incapaci di vedere ciò che realmente siamo («Trovatemi dunque un figlio di Adamo che non dico desideri, ma sopporti di apparire quello che è», ci sfida Bernardo), ci allontaniamo progressivamente da Dio, dimenticando di essere stati da Lui creati a immagine e somiglianza e quindi deformandoci; la vaga memoria di quella forma ci spinge tuttavia a cercare qualcosa di analogo nelle cose sensibili, e siamo così consegnati alla curiosità (per lo meno a quella cattiva), alla sua tipica ricerca, sempre insoddisfatta. E qui, con una mossa – diciamolo – a sorpresa e assai efficace, Dumont affianca all’abate di Chiaravalle i grandi esistenzialisti: Kierkegaard, Heidegger e Sartre: «La perdita della somiglianza, nella dottrina dell’immagine, corrisponde abbastanza bene all’esistenza non autentica di cui parlano i pensatori contemporanei»2.

Mentre ci addentriamo immemori nella «regione straniera della dissimiglianza», dobbiamo dunque fermarci – ecco l’inizio del nuovo movimento, «che ritrova il suo orientamento» –, guardarci e considerarci, e quindi voltarci e intraprendere il percorso inverso di riavvicinamento alla nostra forma originale, passando dalla tristezza della visione autentica di sé alla gioia della prospettiva del ritorno a Dio; cominciare la ricerca di quel Dio che ci sta a sua volta cercando: «In questo duplice atteggiamento», dice Bernardo, «si riassume tutta la nostra vita spirituale: uno sguardo su noi stessi che deve riempirci di un rammarico e di una tristezza salutari; uno sguardo su Dio che ci permette di respirare in lui [scelta terminologica, questa, molto interessante del «respiro», contrapposto al progressivo soffocamento nella propria palude] e di trovare la nostra consolazione nella gioia dello Spirito Santo. Così, lasciamo nascere in noi da una parte il timore e l’umiltà, dall’altra la speranza e l’amore» («Un’esposizione tra le più chiare e concise dello spirito della nostra vocazione», la definisce Dumont).

E in questa conversione, che comincia ora per concludersi soltanto alla fine dei tempi, scopriamo di non essere soli, bensì fratelli di tutti gli altri esseri che insieme si stavando allontanando dalla comune Origine e che insieme, voltandosi, si possono ritrovare sul medesimo cammino di ritorno. Bello, non facile, forse soltanto ideale e simbolico (non creduto, da me), ma indubbiamente bello.

(E a me viene in mente quando stiamo guidando un’auto, la nostra auto, e la voce del navigatore ci avvisa che abbiamo sbagliato strada, completamente, e che, se possibile, dovremmo fare inversione «a U», e allora gettiamo uno sguardo allo specchietto retrovisore e poi guardiamo il passeggero che ci è accanto e che dici, torniamo indietro?)

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  1. Charles Dumont, Sulla via della pace. La sapienza cisterciense secondo san Bernardo, introduzione di B. Olivera, traduzione a cura delle monache trappiste di Vitorchiano, Jaca Book 2000 (ediz. orig. Au chemin de la paix. La sagesse cistercienne selon saint Bernard, 1998).
  2. Oltre che sui concetti di «condanna alla libertà» e «coscienza infelice» di Sartre, Dumont richiama l’attenzione sulla famosa trattazione di Heidegger della curiosità e della chiacchiera: «[La curiosità] cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente la possibilità di abbandonarsi al mondo. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa quindi non cerca nemmeno la calma della contemplazione serena [cioè proprio quella «pace» di Bernardo che intitola il saggio di Dumont], dominata com’è dall’irrequietezza e dall’eccitazione che la spingono verso la costante novità e il cambiamento» (Essere e tempo, paragrafo 36).

 

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Comunità di emozione, comunità di convinzione

«Cosa possiamo fare perché le nostre comunità non assomiglino a raduni di vecchi scapoli amareggiati senza né feste né lacrime?» Oltre al mio interesse, le analisi che molti monaci e monache di oggi dedicano alla loro venerabile istituzione, destano sempre anche la mia ammirazione: per la determinazione a «dire le cose come stanno». Certo, spesso lo fanno nell’ambito di incontri e occasioni a loro riservate, ma i cui documenti sono poi facilmente accessibili a tutti gli interessati.

Le parole sopra citate appartengono a Marc de Pothuau, abate cinquantenne dell’abbazia cisterciense di Hauterive, e alla sua relazione dedicata al carisma cenobitico e pronunciata all’incontro dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza, tenutosi in Francia nel novembre del 20181.

Nell’affrontare il tema, d. de Pothuau fa riferimento alla sua esperienza di visitatore che tante situazioni gli ha fatto conoscere di assenza di fraternità: giudizi severi tra confratelli, formazione di «clan», incomprensioni e assenza di comunicazione: «In effetti, il disprezzo e la sfiducia nella nostra vita comunitaria sono come polvere in una stanza», se nessuno si preoccupa di rimuoverla, si deposita, dando vita a fenomeni paradossali, come la distorsione degli stessi valori monastici, che diventano «pietre per lapidare quelli del partito opposto». Ecco allora che in nome dell’assoluto rispetto della liturgia si critica l’accoglienza degli ospiti; o che per celebrare il valore del silenzio non si ascolta più nessuno; o ancora che in nome del senso di uguaglianza si ridicolizza chi vuole digiunare, e così via. «La comunità diventa allora un campo di battaglia, o meglio una trincea, perché le linee si congelano abbastanza velocemente e raramente escono allo scoperto al di fuori di momenti di decisioni importanti che diventano crisi serie». La comunità si sfalda, anche materialmente, e soprattutto la disarticolazione delle virtù, mancando il cuore della carità fraterna, fa sì che esse si trasformano in vizi.

Ci vuole un certo coraggio a evocare con questa evidenza tali situazioni, a denunciare così lucidamente le proprie mancanze e la propria preoccupante deriva. E tuttavia la riflessione di d. de Pothuau mi è parsa uscire improvvisamente dal monastero grazie a una semplice domanda di raccordo nel suo discorso: «Cosa pensa Gesù di una vita comunitaria che non è altro che un lento e triste processo nel diventare reciprocamente insensibili?» Anche senza «scomodare» il Figlio di Dio, come non sentire quell’inesorabile processo in atto (non foss’altro che nella propria vita). La risposta dell’abate cisterciense del XXI secolo è quella di san Benedetto, cioè la conversatio morum, la conversione dei costumi, un processo ininterrotto che potremmo chiamare in onore degli anni Settanta di «formazione permanente»: incontro e correzione reciproca, che corrisponde alla vera maturità. Maturità che, avverte d. de Pothuau, «è la capacità di diventare sempre più vulnerabili e sensibili agli altri. Una forza molto paradossale, quindi, perché sentita interiormente come una debolezza».

Bello, molto bello, ma non posso esimermi dal considerarla una formula efficace per una comunità piccola, ristretta, governabile, quale quella delineata da san Benedetto (o al limite perseguibile in una coppia), ma ridotta a petizione di principio di fronte a comunità ampie e complesse. Tutta la valorizzazione del carisma cenobitico, al cuore del discorso dell’abate, sfugge secondo me con fatica al problema della «dimensione», ad esempio là dove d. de Pothuau si sofferma ancora su «incontro, scambio, condivisione e circolazione della vita». Le visite regolari, tra l’altro, servono anche a questo, a «riannodare lo strumento dell’ascolto comunitario», per giungere a una narrazione comune che premetta di «dirsi insieme, nel doppio senso dell’espressione: insieme dire e dirsi che stiamo bene insieme» (sembrano quasi le parole di un terapista di coppia, no?).

Ed è molto bello anche l’approdo del suo ragionamento, cioè la necessita di combinare una comunità di emozione con una comunità di convinzione, poiché da sole – emozione e convinzione – non bastano, anzi «separatamente hanno presto difficoltà a preservare le libertà individuali». Mi pare un programma esaltante, anche e proprio se proviamo a guardarci timidamente in giro, ma può essere esportato fuori del monastero, magari con un bel marchio «made in claustro»? O forse questa idea di esportazione è sbagliata a priori?

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  1. Marc de Pothuau, La comunità di conversione, in «Vita Nostra» 19, X (2020), n. 2, pp. 72-91.

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«Piante d’appartamento» (i «Capitoli» di Mauro-Giuseppe Lepori, pt. 2)

(la prima parte è qui)

Secondo Mauro-Giuseppe Lepori, abate generale dei Cisterciensi, tutte le «tradizioni veramente autentiche» del monachesimo possono prosperare ed essere trasmesse, possono parlare all’oggi, soltanto se mantengono il loro legame originario con la vita e la missione di salvezza di Gesù. L’obbedienza, ad esempio, che non è tanto un «valore» o una «virtù» in sé, bensì un riflesso, l’eco di quella di Gesù, venuto a fare la volontà «di colui che mi ha mandato»; o anche la stabilità, che è anzitutto permanenza presso Gesù in nome di tutti, ed echeggia lo stare di Maria presso la Croce, idealmente e fisicamente; o ancora la fraternità, la «vita in comune», in cui si incorpora il rapporto d’amore delle tre Persone che si allarga ben al di là della singola comunità1. «Questo valore profondo e vivo delle nostre tradizioni e osservanze», sottolinea d. Lepori, «vale per tutto, per ogni aspetto della nostra vita e della nostra vocazione. Questo vale per la povertà, vale per la vita fraterna, vale per la preghiera, vale per il silenzio, vale per il lavoro e per il modo in cui siamo invitati a vivere nel monastero ogni aspetto della nostra umanità.» Mi pare un punto fondamentale per evitare di svuotare di contenuto, o attribuirgliene altro, proprio quei tratti che sono alla base dell’attuale «fascino» della vita monastica.

È facile, tuttavia, e forse comprensibile, che siano quei tratti a essere selezionati e appropriati, quando l’abate stesso riconosce come ciò che spinge anzitutto verso i monasteri sia il grande bisogno di consolazione dell’«uomo contemporaneo». È l’instablità di giovani e meno giovani, il loro essere «fluttuanti e sballottati sulla superficie delle acque»2, che «rende la proposta di san Benedetto ancora più attuale, ancora più urgente, ancora più necessaria per consolare davvero l’uomo di oggi».

«Oggi», si domanda l’abate generale al centro della sua riflessione, «dobbiamo chiederci se abbiamo e se formiamo “anziani” che sappiano accompagnare le persone dissipate e dissipatrici che il mondo attuale produce in massa e che sono spesso gettate verso di noi dai flutti della società liquida, come naufraghi su una spiaggia sconosciuta. Siamo questi “anziani”, ci formiamo attraverso tutta la nostra tradizione monastica a questa maturità umana, stabile, pacifica, benevola, che può davvero trasmettere una vera consolazione all’uomo di oggi?»

Pur riconoscendomi dissipato, non credo che ciò che mi spinge verso i monaci e le monache sia il bisogno di consolazione (un terreno complicato, sul quale s’intrecciano aspetti, diciamo così, esistenzialistici e sociali), bensì l’aver intravisto un’alternativa e la nostalgia di tale alternativa: le precisazioni da fare qui sarebbero molte, alcune le ho fatte nel corso di questi appunti, altre le farò, ma, semplificando con un’immagine, è un po’ come camminare speditamente per strada, vedere oltre una recinzione qualcosa di inatteso, rallentare, lanciando un’altra occhiata, e infine fermarsi a osservare con sempre maggiore attenzione, dicendo tra sé: Ah, guarda, fanno così, bello, non immaginavo… Eh, sì, sarebbe l’ideale… Credo nondimeno di capire quello che vuol dire l’abate e penso che l’equilibrio tra ricerca di consolazione (di silenzio, di pace, di mistero) e comprensione di ciò che avviene realmente tra le mura di un monastero sia difficile e fragile: l’una rischia per così dire di infrangersi sull’altra: un «fatto» tipicamente umano come la consolazione contro un’aspirazione sovrumana come l’«inerenza totale a Cristo».

È d’altra parte lo stesso abate Lepori a ribadire, con una frase semplice e definitiva, che senza questo nesso tra monachesimo e adesione integrale a Gesù la fedeltà alla vocazione, il suo senso medesimo, sbiadisce: «Si è lì, si resiste, ma come quelle piante di appartamento che sono forse belle da vedere, ma che non hanno alcuna funzione o fecondità».

(2-fine)

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  1. «Senza la coscienza di queste dimensioni del nostro “vivere insieme”, la comunità si riduce a un rifugio intimistico, sempre più “borghese”, che non sarà mai abbastanza confortevole, nel quale ci garantiamo comunque degli spazi individualistici. […] Gesù ha legato la nostra responsabilità verso il mondo intero alla nostra responsabilità verso la nostra comunità. La dimensione della nostra responsabilità è il mondo intero, ma il campo in cui assumiamo questa responsabilità universale è il piccolo e quotidiano ambito della nostra comunità.»
  2. L’abate Lepori ha sviluppato questa immagine nel suo ultimo libro, Pecore pesanti e fratelli fluttuanti. La via di san Benedetto alla cura dell’altro, San Paolo 2018, sul quale ho preso qualche nota qui.

 

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«Una cassaforte sempre più arrugginita» (i «Capitoli» di Mauro-Giuseppe Lepori, pt. 1)

È molto bello che sia stato reso disponibile a tutti gli interessati il testo dei «Capitoli» pronunciati da Mauro-Giuseppe Lepori nell’ambito del «Corso di formazione monastica»1 tenutosi lo scorso settembre 2019 presso il Collegio Internazionale San Bernardo di Roma2. È molto interessante, infatti, poter leggere direttamente i documenti della riflessione che i monaci di oggi conducono su se stessi, la propria condizione, il proprio futuro, e, d’altra parte, difficilmente, per non dire mai, un testo dell’abate generale dei Cisterciensi scivola sulla superficie dell’argomento o ricicla il già detto: quello che di lui ho letto mi è sempre sembrato molto personale e frutto di una speciale urgenza.

I problemi e le difficoltà della scelta di vita monastica trovano spazio in queste «conferenze», sono ricordati con precisione e discrezione, soprattutto grazie all’attività dell’abate generale di visitatore informale delle comunità sparse nel mondo («Quando vedo che, molto spesso, nelle comunità o nei singoli monaci e monache che visito…», «Qualche anno fa, visitando una comunità…», «Noto spesso che le comunità…», ecc.), ma i testi, com’è naturale che sia data l’occasione per la quale sono stati pensati, danno il massimo risalto alle prospettive future, cioè a cosa possono e devono trasmettere oggi le comunità monastiche ai giovani e alle persone in genere che le scelgono o semplicemente le avvicinano. Trasmissione, prima parola chiave isolata da d. Lepori, di qualcosa che si è ricevuto da qualcuno a qualcun altro: «Abbiamo l’impressione che stiamo finendo», si chiede, un po’ dolorosamente l’abate, «che la nostra missione è giunta alla fine, che si stia esaurendo, che nessuno la raccoglierà. Ma siamo preoccupati di trasmetterla? Abbiamo un’idea esatta della trasmissione? Detto in modo ancor più radicale: abbiamo semplicemente un’idea della trasmissione?»

In estrema sintesi ciò che le comunità devono sapere, o imparare a, ricevere e ridare è la «trasmissione del Cristo vivente, inviato dal Padre a salvare il mondo», formula che l’abate Lepori provvede a colmare di contenuti – così che anch’io, pur da lontano, posso provare a comprendere. In discussione qui, in primo luogo, non è un complesso di esperienze, di osservanze, un’insieme di tradizioni, un patrimonio di edifici3, bensì – credo si possa dire – una forma di umiltà e di apertura: «Viviamo nel monastero al servizio della trasmissione di Gesù Cristo?» si chiede ancora d. Lepori. «Viviamo la nostra fedeltà monastica al servizio della trasmissione di Gesù? [Dovremmo rifletterci] quando consideriamo il nostro modo di vivere la vita monastica, la nostra tradizione monastica, per vedere se, sì o no, rimaniamo in una trasmissione umile e aperta di un dono, o se ci riduciamo a essere solo guardie giurate di antichità rinchiuse nella cassaforte della nostra osservanza, una cassaforte, peraltro, sempre più arrugginita.»

È curioso, tra l’altro, osservare come l’insieme dei beni (antichità) che sarebbero custoditi in quella cassaforte – la pace, il silenzio, l’ordine quotidiano, il «minimalismo» degli ambienti, l’assenza di distrazioni, e mettiamoci anche il canto suggestivo, la bellezza di certi chiostri e, più sottilmente, l’escamotage dell’obbedienza – sia proprio ciò che attira le cosiddette folle verso i monasteri: spesso leggo interventi che osservano come ciò vada comunque letto come il sintomo di «un bisogno diffuso di spiritualità e di senso», e poi leggo l’abate che invita confratelli e consorelle a non dimenticare il «nocciolo del problema».

«Questo fondamento della nostra vocazione sulla missione salvifica di Cristo ci aiuta a cogliere il valore profondo e vivo delle nostre tradizioni», ribadisce con chiarezza l’abate, «delle nostre tradizioni veramente autentiche, non di quelle che, in definitiva, sono solo ornamenti esteriori.» E non è questo forse un invito rivolto anche ai laici che si avvicinano alle comunità, ai fedeli che partecipano alla liturgia, ai miscredenti come me che vanno a visitare i monasteri? Meno cd di gregoriano e più Gesù Cristo?

(1-segue)

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  1. Dom Mauro-Giuseppe Lepori, Capitoli sulla Regola, Corso di formazione monastica, 26 agosto – 20 settembre 2019: lo si può trovare qui; oppure qui, insieme ad altre testimonianze sul corso.
  2. «Alla scuola della spiritualità cistercense, voi siete spronati a orientare alla contemplazione di Dio l’intera vostra esistenza, secondo il consiglio di san Benedetto: “Non anteporre nulla all’amore di Cristo”. L’esperienza monastica vi stimola, altresì, a praticare la Lectio divina, a celebrare insieme la Liturgia delle Ore, soprattutto l’Eucaristia ogni giorno, e a prolungare nell’adorazione eucaristica la vostra intimità con il Signore. L’assillo dello studio non vi distolga da questa immersione quotidiana in Dio. Solo da Lui, infatti, potrete attingere la forza indispensabile per l’apostolato che vi sarà affidato dai vostri superiori quando tornerete nelle vostre rispettive nazioni e diocesi», Giovanni Paolo II, Discorso alla comunità del Collegio Internazionale San Bernardo in Urbe, Roma, 3 maggio 2001.
  3. «I più anziani sono spesso ansiosi e inquieti per la trasmissione delle osservanze, delle tradizioni, degli edifici. Vogliono che tutto ciò “sopravviva”. È come se volessero trasmettere la vita monastica senza trasmettere Cristo, che è l’unico significato della vita monastica cristiana.»

 

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