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Le mille cose che ogni giorno ci capitano (Benedetto da Canfield e la volontà di Dio)

RegolaDiPerfezione Ho poi cominciato a leggere la Règle de Perfection del cappuccino Benedetto da Canfield1, e già nelle prime pagine, com’era prevedibile, data la struttura dell’opera, mi sono imbattuto in un argomento che, per così dire, mi sta a cuore: la definizione e la conoscenza della «volontà di Dio», alla quale generazioni di monaci e di monache, tra gli altri, hanno cercato di corrispondere.

Anzitutto, «per la migliore comprensione di questa materia», occorre distinguere tale volontà, ma non come fa la Scolastica, bensì con una «divisione mistica» in esteriore, interiore ed essenziale. Va da sé che quella che mi interessa di più è la prima, che così viene definita: «La volontà esteriore di Dio è il beneplacito divino, conosciuto attraverso la legge e attraverso la ragione, regola di tutti i nostri pensieri, parole e opere nella vita attiva». Qui il beneplacito è il compiacimento di Dio «quando facciamo del bene e osserviamo i suoi comandamenti»; la legge è un concetto assai capiente, nelle nove precisazioni di Benedetto, che vanno dai comandamenti alle norme ecclesiastiche, dalle Regole degli Ordini religiosi alle disposizioni vescovili, dagli «ordini dei padri e delle madri» alla «legge dei Magistrati»; la ragione interviene in tutte quelle cose non sancite dalla legge (gli esempi sono curiosi, «sposarsi o mantenersi celibi, intraprendere un viaggio o non uscire di casa, sedere o restare in piedi, parlare o tacere, e mille altre cose che ogni giorno ci capitano»), e la sua azione si può riassumere in discrezione, pietà, consiglio.

La definizione va bene, ma il discernimento è tutta un’altra storia, Benedetto ne è consapevole e dedica un capitolo (il VI: «Regola per conoscere e praticare la volontà di Dio in ogni cosa») per esporre «qualche regola più specifica». Dunque, tutte le cose da fare o non fare, ammettere o resistere, ecc., sono o comandate, o vietate, o indifferenti («e non può capitare nulla che non sia compreso in uno di questi tre tipi»). Le prime due categorie sono facili, c’è la legge, per la terza bisogna procedere a un’ulteriore distinzione in cose piacevoli per la natura umana, contrarie o indifferenti. Nel primo caso si deve resistere, mentre nel secondo accettare, perché la mortificazione è sempre gradita. Nelle situazioni dubbie – gradevole o sgradevole? – l’importante è decidere prontamente per il sì o per il no, «piuttosto che discutervi a lungo, con distrazioni, rompimento di testa e perdita di tempo». Nel terzo caso è l’intenzione che fa la differenza: «In tutte le cose indifferenti [Dio] vuole che conosciamo e facciamo la sua volontà non dando altro mezzo se non l’applicazione della nostra intenzione». Tanto che sarà più gradita una passeggiata, fatta con la sola intenzione di piacergli, che tre ore di orazioni, fatte per dimostrarsi più pii degli altri2.

Nel capitolo VII Benedetto, oltre a rispondere ad alcuni dubbi e a segnalare alcune eccezioni, aggiunge un’interessante digressione sugli appartenenti a un Ordine. I religiosi, quando considerano la vastità della volontà di Dio («La volontà di Dio è un mare spirituale sul quale ciascuno può navigare secondo la dimensione della sua nave» – molto bello), pensando di essere impegnati in altissime vicende, non devono tralasciare le piccole cose, «per piccole che siano», che preservano la condizione monastica e la circondano «come un giardino la sua siepe». Infatti, «le buone abitudini e le costituzioni del proprio ordine religioso, anche se non ne costituiscono la vera essenza, sono comunque la muraglia e la controscarpa a sua difesa».

E questa, conclude provvisoriamente Benedetto da Canfield, è la vera vita attiva e contemplativa, non separata («come molti la considerano»), bensì unita, perché nella pratica e nella costanza le mille cose che ogni giorno ci capitano si trasformano da opere esteriori in interiori, da materiali in spirituali, da oscure in luminose: la contemplazione e l’azione si saldano, «senza pregiudizio né impedimento dell’una sull’altra». Soltanto per i monaci?

A questo punto non sarebbe male approfondire cosa succede se alla «purezza interiore d’intenzione» si toglie il riferimento alla volontà di Dio, se legge e ragione non hanno come obiettivo il «beneplacito divino», ma io di certo non posso farlo.

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  1. Benedetto da Canfield, Regola di perfezione, a cura di M. Vannini, Edizioni Biblioteca Francescana 2022.
  2. «Come una piccola quantità d’oro supera di valore una gran massa di piombo, così la purezza interiore d’intenzione supera di molto l’opera esteriore in valore di fronte a Dio.»

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«Prattico, non speculativo» (la «devota sobrietà» dei cappuccini)

DevotaSobrietàLe Edizioni Dehoniane hanno giustamente ristampato in un volumetto a se stante Devota sobrietà, un magnifico testo del p. Giovanni Pozzi dedicato ad alcuni tratti caratteristici dei cappuccini, ordine di cui il filologo faceva parte. Non lo conoscevo, com’è ovvio, ed è stato per me una grande sorpresa.

In primo luogo sono stato messo in riga ancora una volta dall’erudizione del p. Pozzi, soprattutto nei capitoli sulla lingua degli scrittori cappuccini – questo non è tanto sorprendente, ma è comunque salutare.

In secondo luogo il testo mi ha aperto uno spiraglio su una spiritualità di cui, a parte le nozioni più comuni, non so quasi nulla, ma che mi affascina per il titanico tentativo di trasferire l’estremismo mite di Francesco da un singolo (o da un piccolo gruppo) a un vero istituto collettivo, a un ordine, e senza deformarlo. «Io da voi altro non vorria solamente giongessimo a questo stato del niente, ma prattico, non speculativo», scrive Gregorio da Napoli (morto nel 1601), chiedendo al frate cappuccino di annullare se stesso per vivere in Dio, ma con una nota, appunto, di concretezza spinta. Così, ad esempio, la precarietà, la provvisorietà, la povertà si traducono in una grande macchina normativa di prevenzione. Le comunità non possono essere proprietarie dei conventi in cui abitano, al punto che nelle prime costituzioni viene stabilito che ogni anno si faccia formale offerta di restituzione dell’immobile al proprietario che ne ha concesso l’uso.

Ogni elemento esteriore è accompagnato da una qualificazione che spinge verso il basso, o al massimo verso un’uniforme mediocrità. Gli abiti saranno «li più vili, abiecti, austeri, grossi e sprezzati panni»; le scarpe «sole… simplici, pure, vile e povere senza alcuna curiosità»; il cibo «carne, ova, caso, né pesci né altri cibi preciosi»; gli edifici «picole casipule, tuguri e umbraculi» e i materiali con i quali sono costruiti siano «vimini, luto, canne, matoni, crudi e vil materiale»; l’orazione sia «senza code o biscanto, cum voce non tropo alta o bassa, ma mediocre». Ogni cosa in vista di un’accettazione integrale del Vangelo, «con l’ochio puro, semplice, columbino e mundo de la fede». L’occhio columbino e mundo. Mi è venuta un gran voglia di approfondire.

C’è poi un tratto che circola in queste pagine e che mi ha colpito, se così si può dire, più da vicino. È un elemento evocato dallo stesso p. Pozzi, che così conclude il capitolo dedicato all’architettura cappuccina: «Nel contesto delle teorie architettoniche, un simile orientamento prende il nome di razionalismo. Tolti i richiami di ordine storico, lo si può riferire a una così rigorosa pratica architettonica a lungo applicata senza cedimenti o ridondanze». Sì, è come se nel ritratto tracciato dal p. Pozzi dell’identità cappuccina si respirasse, tra le altre, un’aria di solida razionalità: dato un obiettivo preciso, seguire il Vangelo integralmente e nient’altro, come ha detto e fatto Francesco, cosa dobbiamo fare?

Tra i tanti testi disponibili, lo studioso cita un’opera di Bartolomeo Vecchi (morto nel 1628), «riscontro eccezionale allo stile delle prime costituzioni». Si intitola, mirabilmente, Modo di incamminare i novizzi della nostra provincia di Bologna con santa uniformità di cerimonie e riti e non trascura un solo particolare della vita del frate, fino al modo di chiudere la finestra («accompagnando la merletta sul cappucciuolo con la mano»), fino ai vari «cesti e cestelli e canestri per raccogliere separatamente pane, vivande avanzate e frutta», fino a un codice completo per gli arredi e i vestimenti sacri («per ogni capo si descrive il modo di esporlo all’uso, ritirarlo, lavarlo, stirarlo, inamidarlo e riporlo»).

Oltre a seguire il Vangelo, qui si tenta di contrastare il disordine, e comprendo bene questo immane sforzo che si coagula intorno ai principi di nettezza e devozione (chiarezza e distinzione?): «Una nettezza cui non basta levar lo sporco, poiché trova il suo appagamento nel collocare ogni cosa con ordine ed eseguire ogni atto con proprietà».

Giovanni Pozzi, Devota sobrietà. L’identità cappuccina e i suoi simboli (2002), Edizioni Dehoniane 2015.

 

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