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«Mai fissi, mai stabili» (Circoncellioni, pt. 1)

La gioia (be’, sì) di aver trovato un testo dedicato interamente ai circoncellioni è stata pari al rammarico di non essere all’altezza del suddetto testo.

Il primo contatto con questa misteriosa setta eretica, comparsa sulla scena della storia del cristianesimo nella prima metà del IV secolo, in Africa, l’ho avuto leggendo la splendida Piccola enciclopedia delle eresie cristiane di Michel Théron: «Il loro nome viene dal latino circumcellio, composto da circum, “intorno”, e cella, “abitazione”, dal momento che questi eretici andavano di casa in casa predicando la loro dottrina», scrive brevemente Théron, e li classifica come «donatisti intransigenti», poiché non ammettevano che per paura della persecuzione e del martirio si potesse rinnegare la propria fede, chi lo faceva era dannato. Punto.

Poi li ho incrociati nel De opere monachorum di sant’Agostino, che peraltro, ho scoperto in seguito, è considerato la fonte più importante di notizie sui circoncellioni. Nel capitolo 28, 36, senza nominarli direttamente (come fa invece nelle opere antidonatiste), Agostino attribuisce al «nemico infernale» la responsabilità di aver sparso dappertutto, allo scopo di infangare il nome dei veri monaci, «tanta gente ipocrita ricoperta del saio monacale: gente che gironzola [circumeuntes] per le province senza che si sappia chi li abbia mandati, gente in perpetuo movimento, mai fermi, mai stabili. E ce ne sono di quelli che fan commercio con le reliquie dei martiri (seppure sono dei martiri!)… E tutti chiedono, tutti pretendono: incassi d’una mendicità redditizia, prezzo d’una santità simulata». Quando poi vengono catturati, si lamenta Agostino, sono definiti genericamente monaci (sub generali nomine monachorum) e quelli autentici ne soffrono un grave danno d’immagine.

Infine son saltati fuori nel libro di Cardini su Cassiodoro. Eccoli lì, tra i vari fenomeni che lo studioso ricorda per smentire l’immagine tradizionale di un passaggio dell’Impero romano dal paganesimo al cristianesimo senza sussulti: «L’Alto Egitto era letteralmente pattugliato dai monaci, guidati da Scenuda di Atripo, che perquisivano le case dei pagani alla ricerca di idoli da distruggere. Nell’Africa settentrionale bande di monaci itineranti detti circumcelliones battevano le campagne alla ricerca dei nemici della fede al grido di “Dio sia lodato!”, armati di pesanti bastoni chiamati Israel».

Si può immaginare dunque la mia soddisfazione quando sono entrato in possesso di Furiosa turba. I fondamenti religiosi dell’eversione, della dissidenza politica e della contestazione ecclesiale dei Circoncellioni d’Africa di Remo Cacitti. Altrettale è stato, come dicevo, il mio cruccio nel momento in cui mi sono reso conto – non ci è voluto molto – che il prezioso volume non era alla mia portata. Perché è dotto, fitto di riferimenti e tutte le citazioni, parecchie, sono in originale, lingue classiche e moderne – e non sto dicendo che siano difetti, niente affatto. Scorro sconsolato le poche sottolineature che ho fatto, con la vaga consapevolezza del rilievo storico del fenomeno («il rapporto – evidenziato ma non giustificato dai testimoni antichi del movimento – tra la loro facies religiosa e la loro indole eversiva») e poco di più.

Vediamo cosa.

(1-continua)

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Semplicemente

Fondatori del monachesimo di Umberto Neri è un libro eccezionale per vastità di erudizione, partecipazione al soggetto, capacità di scelta delle citazioni, onestà intellettuale, profondità e chiarezza dell’esposizione. Il volume si basa sulle conferenze tenute dall’autore (monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata) a Gerusalemme nel 1982 e dedicate ai cinque «momenti» cruciali del monachesimo pre-benedettino: Pacomio (ne ho fatto cenno qui), Basilio, Agostino, Cassiano e la Regula Magistri. Non ci sarebbe molto altro da aggiungere, ma ripassando le ripetute sottolineature (come se un tratto di matita servisse a partecipare alla sapienza), mi accorgo che c’è un paragrafo sul quale mi sono fermato di più: il quinto del capitolo su Agostino, intitolato «Essenza del monachesimo cenobitico».

Il quale paragrafo prende le mosse da tre citazioni bibliche che definiscono il «proprio» della vita monastica secondo Agostino: il famoso passo degli Atti degli Apostoli (4,32), quello del tanto dibattuto «comunismo» dei discepoli di Gesù, e due versi dai Salmi 68 (67) e 133 (132), che rimandano alla convivenza armoniosa nella stessa casa. Ed è proprio commentando l’ultimo Salmo citato («Quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme [in unum]»), e analizzando la risposta che si dà al suo richiamo, che Agostino distingue tra «tutti i cristiani» e i monaci, poiché «queste parole del salterio, questa dolce armonia, questa melodia tanto soave a cantarsi quanto a considerarsi con la mente, questo ha effettivamente generato i monasteri. Da questa armonia sono stati destati quei fratelli che maturarono il desiderio di vivere nell’unità».

Ecco i monaci, continua Agostino, ecco il monaco, cioè l’«uno solo», non nel senso di «solitario» bensì di «unito»: «Uno, infatti, si può dire anche di chi è immerso fra la folla, di chi si trova tra i molti. Di lui non si può dire, però, che è monos, cioè solo. Eccovi ora della gente che vive nell’unità, fino al punto di costituire un solo uomo». La comunità che così si forma (la Chiesa stessa, di cui il monastero rappresenta la «frontiera avanzata») va al di là di qualsiasi rapporto naturale e si eleva a simbolo di un’unità senza limiti, all’interno della quale nessuno persegue i propri scopi o il proprio esclusivo bene, nessuno possiede alcunché, nessuno afferma la propria volontà, tutti vivono in perfetta carità.

«Potrebbe sembrare che questa descrizione stupenda sia un po’ utopistica», concede Neri, introducendo numerosi passi che testimoniano del realismo agostiniano. Il monastero, infatti, è anche la scuola della tolleranza, della sopportazione di sé e degli altri, della prova continua delle tentazioni («ognuno ricordi che porta con sé una parte cattiva, che altri devono sopportare»). Il monastero è un torchio: «Finché pendono dagli alberi che li portano come frutti, finché godono dell’aria libera, né l’uva è vino, né le olive sono olio… Così sono anche gli uomini… Tutti quelli che accedono al servizio di Dio, sappiano di essere venuti ai torchi: saranno schiacciati, spremuti, lacerati, non per morire in questo mondo, ma per fluire nella cantine di Dio». (Mi colpisce, tra l’altro, come il tema dell’oliva scivoli fino a Lutero, monaco agostiniano, che – in una citazione che purtroppo non riesco a ritrovare – dice che l’uomo è come un’oliva, dà il meglio quando lo spremi. Una prospettiva inquietante, dalla «scuola della sofferenza» al lavoro, che vorrei saper confutare con parole definitive.)

Superare quelle prove, ottenere quella divina unità è possibile dunque soltanto a partire da un esercizio indefesso dell’umiltà e confidando nella grazia del Signore, che è la chiave per il passaggio a un livello superiore. Tale comunità, infatti, precisa Neri, «non è semplicemente uno stare insieme, volendosi bene, umanamente, in modo più o meno facile, più o meno felice, ma comunque ancora umano, cioè come un vincolo di unità ancora essenzialmente di natura psicologico-morale».

Ecco, a conclusione del paragrafo, e al di fuori della trattazione storica, alzo timidamente la mano: come sarebbe a dire semplicemente? Perché lo stare insieme, il volersi bene umanamente dovrebbero essere relegati nella categoria del «semplicemente»? Perché quei frettolosi «più o meno facile» e «più o meno felice», in cui invece si srotola la parte più grande, più bella dolorosa tragica della nostra storia di individui? Perché quell’«ancora» applicato a sancire l’imperfezione del vincolo «di natura psicologico-morale» che ci spingerebbe alla fratellanza? La mano l’abbasso subito, perché qui si confrontano i giganti; ma, proprio grazie a coloro che l’hanno tenuta ben alzata in passato, lo faccio senza sensi di inferiorità.

Umberto Neri, Fondatori del monachesimo, Piemme 1998.

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