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Sciuscià, arlecchino e chef (la Vita di san Benedetto di Aniane, pt. 3)

Aniane(la prima parte è qui, la seconda qui)

Oltre che di informazioni storiche, la Vita di san Benedetto di Aniane di Ardone Smaragdo è ricca di quelle che si possono definire «fotografie» di vita quotidiana, o comunque di episodi che spiccano o si discostano per qualche particolare dalla normalità del canone agiografico.

Osserviamo ad esempio Benedetto che, agli inizi della sua vita monastica (cominciata nel 774, dopo diversi anni passati alla corte di Pipino il Breve, dove raggiunse la carica di coppiere, e poi di Carlo), si sottopone a un duro regime di penitenze e umiliazioni, e «si accaniva contro la sua carne come una bestia feroce». Nel monastero (di Saint-Seine, vicino a Digione) si mette al servizio di tutti, e di notte, mentre gli altri dormono, «egli puliva detergendoli con l’acqua i calzari e li restituiva puliti al posto giusto», come il servizio negli alberghi. Alcuni confratelli lo irridono per questo, e di giorno, «quasi prendendosi gioco di uno completamente pazzo, lanciavano le scarpe contro di lui che era posto un po’ in disparte»: Toh, capo, pulisci anche queste! Ah ah ah! E Benedetto? «Sopportava tranquillo».

Non presta neanche molta attenzione alla veste monacale: quando il tessuto si lacera perché troppo vecchio, «con un panno occasionale di un colore molto diverso rappezzava il buco che si era venuto a creare, cosa che lo rendeva abbastanza goffo [deformem]». Un arlecchino, anche in questo caso sbeffeggiato (e sputato) da molti .

Guardiamolo adesso mentre si trova ad Aniane, alla guida della sua piccola, nuova comunità, povera di tutto, tranne che di fede e di amore fraterno. Benedetto si prodiga in ogni attività, aiuta tutti e non disdegna di preparare il cibo per i confratelli; già che c’è, «contemporaneamente trovava il tempo di scrivere un libro di cucina [librum etiam pariter circa coquinam occupatus scribere satagebat]». Peccato che il ricettario di chef D’Aniane non si sia conservato…

Benedetto non si sottrae a nulla, «arava con coloro che aravano, zappava con coloro che zappavano, mieteva con i mietitori»; non si lascia mai andare a bere un goccio di più e «più volte l’abbiamo visto misurare ciò che gli era posto davanti nella ciotola»; si raccomanda sempre di non aggiungere formaggio grattugiato (ne exigua particola casei triti) alle sue vivande e non ammette che si sprechi un solo legume («subito avrebbe pronunciato una sentenza degna di una scomunica, come si fosse trattato di un delitto»). Più di ogni altra cosa, Benedetto è singolarmente capace di operare il bene, in ogni forma, tanto che «chi era angustiato dalla malattia della tristezza, avvicinandosi a lui, immediatamente se ne andava contento». Un diffusore di serenità.

La scena che ho trovato più divertente riguarda un’improvvisa invasione di cavallette (locustarum), «così numerose da nascondere i raggi del sole». I monaci sono preoccupatissimi per la vigna, e Benedetto fa la cosa più semplice: va in chiesa a invocare l’aiuto di Dio. E cosa accade? «Dopo poco le cavallette, trovandosi male, se ne andarono»: Ehi, non trovate anche voi che qui non si stia affatto bene? Sì, vero, stavo per dirlo anch’io. Sì, dai, andiamo via. Giusto, andiamocene…

Così, tra l’altro, nessun animale è stato maltrattato per la realizzazione di questa scena.

(3-fine)

Benedetto di Aniane. Vita e riforma monastica, a cura di G. Andenna e C. Bonetti, Edizioni Paoline 1993. (Assai utile per approfondire il saggio di Fabio Cusimano, La biografia di Benedetto di Aniane tra storia e topoi agiografici, pubblicato nel 2012 in una raccolta di studi per Réginald Grégoire e consultabile qui.)

 

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Nel fazzoletto o nelle maniche (la Vita di san Benedetto di Aniane, pt. 2)

Aniane(la prima parte è qui)

È una storia bellissima, quella della progressiva affermazione della Regola di Benedetto da Norcia, complicata e non priva di zone oscure. Vi si saldano spinte diverse per intenzione e origine: una tendenza all’uniformità in territorio franco, attestata sin dal primo decennio del VII secolo; il confronto tra regole diverse da tempo in atto sul campo, il VII secolo può essere considerato il periodo della regula mixta o composita, in cui convergono, oltre a quella cassinese, le consuetudini di Pacomio, di Basilio, di Agostino, di Colombano, quelle spagnole; la decisione di Carlo Magno di usare la rete dei cenobi per rafforzare il proprio piano imperiale (ne è convinto, il re dei franchi, tanto da scrivere all’abate di Montecassino affinché gli mandi una copia della Regola – sappiamo di questa cosa fantastica dalla sopravvissuta lettera di accompagnamento dell’abate: «Poiché piacque a Dio che qualcuno dei monaci di quella regione venisse informato della vostra devozione verso la dottrina e verso i notevoli esempi del nostro beato padre Benedetto, in base alla vostra richiesta vi abbiamo inviato la Regola dello stesso beato padre, trascritta dallo stesso codice che egli scrisse con le sue sante mani»).

E a fianco di Carlo Magno c’è Benedetto di Aniane, che da un lato sperimenta in prima persona alcune regole, dall’altro le studia e poi compone due opere di avvicinamento: un Liber ex regulis diversorum Patrum collectio (o Codex Regularum) e una Concordia Regularum, «mirante a dimostrare la priorità di quella benedettina, esaminata per capitoli». La vera alternativa, in territorio franco, era rappresentata dalla regola di origine irlandese cosiddetta «di Luxeuil», scritta da Colombano, cui quella cassinese fu preferita per una serie di motivi. Anzitutto la Regola di Benedetto da Norcia rispondeva «all’esigenza di far prevalere la tradizione monastica romana su quello iro-franca», e questo si sposava bene con il progetto carolingio; in secondo luogo era meno dura ed esigente di quella di Colombano, in breve era più realistica e più adatta per una sua applicazione universale perché lasciava all’abate un buon margine di discrezionalità per eventuali adattamenti (e questo Benedetto di Aniane l’aveva visto direttamente); infine la stabilità che contraddistingueva la regola cassinese era perfetta sia per il potere politico sia per l’idea di monachesimo che aveva maturato Benedetto di Aniane, in particolare riguardo alla pratica liturgica.

E dopo Carlo Benedetto sarà a fianco di Ludovico il Pio, perché l’opera non si completerà con un paio di editti, ma sarà lunga, osteggiata e richiederà, tra le altre cose, l’istituzione di una figura che può essere considerata progenitrice di quella del padre visitatore. Ludovico vuole che Benedetto – «di cui l’imperatore si serviva per numerosi affari» – sia più vicino alla corte, così gli costruisce addirittura un monastero (a Inda) perché possa lasciare Aniane. «Dopo questi avvenimenti l’uomo di Dio incominciò a varcare spesso la soglia delle porte del Palazzo e talvolta a portare scompiglio per essere utile a molti». Da intransigente qual era, Benedetto a corte si fa molti nemici, ma tutti capiscono anche che l’imperatore lo ascolta, sicché «coloro che, danneggiati da altri, chiedevano favori imperiali si avvicinavano a lui». Benedetto accoglie tutti e prende nota delle lamentele, riportandole su foglietti (in schedulis) che al momento opportuno presenta all’imperatore. «Il sovrano si abituò a questo, ed alcune volte il serenissimo imperatore li trovava toccando il fazzoletto e le maniche [aliquoties serenissimus imperator mapulam manicasque ejus palpans reperiebat], leggeva le richieste e decideva quali fossero le più utili da esaudire; per la sua smemoratezza, infatti, era solito porle in tali posti.»

(2-segue)

Benedetto d’Aniane. Vita e riforma monastica, a cura di G. Andenna e C. Bonetti, Edizioni Paoline 1993.

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«Nessuno o solo pochi potevano imitarlo» (la Vita di san Benedetto di Aniane, pt. 1)

Aniane

La Vita di san Benedetto di Aniane di Ardone Smaragdo (che può essere indicativamente collocata intorno all’830) ha più di un motivo di interesse. È anzitutto un documento primario sulle manovre che portarono alla nascita del nucleo di quello che sarebbe diventato l’Ordine benedettino, istituzione grandiosa e longeva che Benedetto da Norcia mai nemmeno immaginò; ci lascia poi intuire alcuni aspetti concreti del paesaggio monastico dell’epoca; ci dà qualche bella immagine di prima mano di Carlo Magno e di suo figlio Ludovico il Pio; ci regala infine, anche involontariamente, come tutte le agiografie, alcune impagabili «fotografie» di vita quotidiana.

Il piccolo libro, a cura di Giancarlo Andenna e Cinzia Bonetti, che mi ha permesso di leggerla in italiano contiene anche i due saggi introduttivi dei curatori, molto utili e interessanti, e una preziosa appendice di documenti che aiutano a orientarsi meglio in quel singolare tratto della storia monastica così carico di conseguenze: due lettere di Benedetto di Aniane, una «Supplica presentata dai monaci di Fulda all’imperatore Carlo», trentasei (più tre) decreti promulgati dal primo Sinodo di Aquisgrana (816), quarantatre decreti promulgati dal secondo Sinodo di Aquisgrana (817) e i relativi Statuta Murbacensia, che li commentano e che per me valgono già soltanto per il nome.

A leggere i saggi introduttivi pare difficile sottovalutare il ruolo svolto da Benedetto di Aniane, nato Vitiza, da nobile famiglia gota, nella riforma del monachesimo carolingio e soprattutto nella ferma decisione di imporre la Regola del primo Benedetto (essendo quello di Aniane talvolta chiamato il secondo Benedetto) a tutti i cenobi del mondo franco, decisione che aveva identificato nel canone benedettino non soltanto un strumento eccellente, e sperimentato in oltre due secoli di lenta diffusione, «per salvare l’anima di chi desiderava abbandonare il secolo e le realtà secolari», ma anche una chiave per unire, senza stravolgerne il senso, la diffusione dei monasteri al progetto politico di rafforzamento dell’impero franco, sempre più ricco di genti germaniche convertite: «Il particolarismo, incerto e sempre passibile di crisi, delle prime comunità benedettine… scompariva per sempre», e per «questa sua intuizione e per la forza con cui seppe realizzarla entro i confini dell’impero carolingio, Benedetto di Aniane merita di essere considerato il primo artefice dell’unità culturale europea» (G. Andenna).

Se da un lato il progetto politico appare comprensibile, dall’altro ci si imbatte in una domanda affascinante: perché fu scelta proprio la Regola di Benedetto da Norcia? La risposta che dà Ardone non soddisfa lo studioso, ma ha una sua logica. Benedetto di Aniane si butta nella vita monastica con un ardore incontenibile (come poi vedremo) e in un primo momento rifiuta la regola cassinese, che «sarebbe stata concepita per i novizi e gli ammalati», inseguendo una durezza senza scampo e indirizzandosi piuttosto verso i modelli orientali di Basilio e Pacomio. Tuttavia, «pur eccellendo in questi esercizi di contrizione, quando si accorse che nessuno o solo pochi potevano imitarlo, per divenire testimonianza di salvezza per molti fu attratto, con l’aiuto della grazia divina, dalla Regola di Benedetto e come un nuovo atleta entrò in campo con l’intenzione di combattere apertamente una singolare battaglia». Certo, con l’aiuto della grazia divina, ma anche dopo aver compreso di non poter chiedere l’impossibile, cosa che anche l’altro Benedetto aveva capito assai bene (e sulla propria pelle, per così dire).

Ed è proprio questa, nonostante tutto, un’indicazione non trascurabile circa i motivi dell’affermazione della regola cassinese. «Perché dunque la Regola cassinese ebbe tanto successo?» si chiede Cinzia Bonetti nel suo saggio introduttivo; e successo rispetto a quali altri regole?

(1-segue)

Benedetto di Aniane. Vita e riforma monastica, a cura di G. Andenna e C. Bonetti, Edizioni Paoline 1993.

 

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«Facciamo che tu eri l’abate…» (dalla «Vita di Benedetto di Aniane»)

Nella Vita di Benedetto di Aniane di Ardone Smaragdo (prima metà del IX secolo), della quale ho trovato una preziosa traduzione italiana, viene raccontato, tra gli altri, un miracolo davvero singolare. L’azione miracolosa, operata dalla comunità intera di cui Benedetto era abate, non ha niente di speciale, trattandosi di una guarigione, ma la situazione che la produce sì.

In montibus

Dal racconto veniamo anzitutto a sapere che il lavoro dei monaci comprendeva la pastorizia e che prevedeva anche l’alpeggio, la scena si svolge infatti tra i «monti sui quali erano soliti dimorare mentre pascolavano le pecore». Poi scopriamo che per poter rispettare i tempi dell’ufficio divino, non potendo rientrare ogni volta all’abbazia, i confratelli avevano costruito nei pressi dei pascoli un oratorio.

Ed ecco la svolta inattesa: «In esso [nell’oratorio], dopo che i confratelli si erano allontanati da quel luogo, entrarono delle donne che, deridendo i monaci, dicevano a vicenda: “Tu avrai la funzione dell’abate e starai al suo posto”». Cioè, ci sono delle donnemulieres»), che non soltanto hanno osservato i riti dei religiosi e ne hanno riso insieme, ma che decidono di scherzarci su, giocando a Facciamo che tu eri l’abateet deridentes habitacula monachorum dicebant ad invicem: Tu vicem abbatis habeto in loco ejus stans»). E lo fanno proprio: si sistemano negli stalli del piccolo coro e, «comportandosi come quelli che pregano», simulano il rito e imitano anche le prostrazioni.

Inaudito! E infatti «un’adeguata vendetta divina le raggiunse subito»: visto che avevano deriso i monaci con finte genuflessioni e inchini, «incominciarono a essere tormentate dal mal di schiena» (l’originale parla di tornutionibus, termine con pochissime attestazioni, cui viene attribuito anche il significato di «vertigini»).

E il dolore non se ne va finché i mariti non si danno da fare, raggiungendo i monaci e supplicandoli di intercedere per quelle sconsiderate («ut pro temerariis preces funderent»). I monaci di Benedetto non esitano un istante, e «per merito delle preghiere dei confratelli le donne riacquistarono immediatamente la salute fisica».

Ardone Smaragdo, Vita di san Benedetto di Aniane, 26, in Benedetto di Aniane. Vita e riforma monastica, a cura di G. Andenna e C. Bonetti, Edizioni Paoline 1993, pp. 84-85.

 

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