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Rasoi e dissonanze (I demoni di Cesario, pt. 2)

(la prima parte è qui)

Sì, il testo di Cesario di Heisterbach sul commercio tra gli uomini e i demoni mi è proprio «piaciuto»: l’ho sottolineato parecchio e non posso trattenermi da tre ultime note (tutto è lecito per ricordare ciò che si è letto).

1. Non tutti i demoni sono ugualmente malvagi, poiché se alcuni si associarono a Lucifero nel ribellarsi a Dio, altri «si limitarono ad acconsentire». Questi ultimi sono consapevoli di ciò che hanno perduto e sono persino capaci di pentimento. Ecco come si esprime uno di loro: «Se vi fosse una colonna di ferro arroventato, munita di lame e rasoi affilatissimi [columna ferrea et ignita, rasoriis et laminis acuminatissimis armata], che dalla terra si levasse fino al cielo, fino al giorno del giudizio, e se avessi anche un corpo in cui potessi soffrire, sarei disposto a trascinarmi lungo di essa, ora salendo, ora scendendo, pur di tornare alla gloria in cui ero».

2. Secondo Cesario è più corretto parlare di individui ossessi, cioè «assediati», e spiriti ossidenti, cioè «assedianti», poiché il demone, per essenza, non può entrare nell’anima, che si limita appunto ad «assediare». Soltanto lo spirito santo vi può penetrare, «al contrario, lo spirito maligno, essendo fuori… rispetto la sostanza, introduce la sua malizia come se fosse una freccia, ispirando cose malvagie e disponendo la mente ai vizi». Il corpo, quello sì, può essere posseduto: «Quando si dice che il diavolo è nell’uomo non si deve intendere in relazione all’anima ma al corpo, perché nelle sue cavità e nei visceri che contengono gli escrementi [in visceribus ubi stercora continentur] ci può stare anche lui».

3. Le levatacce per l’ufficio notturno hanno sempre colpito l’immaginazione di chi si interessa alla vita monastica: quanta forza di volontà, e il freddo, e il sonno. E infatti è lì, nel coro popolato da ombre lente, che qualche volta saranno più stanche e meno concentrate, che i demoni colpiscono, in particolare i demoni della dissonanza o, chissà, quelli della dodecafonia… L’abate Ermanno ne ha parecchie da raccontare a riguardo. Come in quell’occasione in cui i demoni nella parte destra del coro «si fecero così numerosi che… i monaci commisero subito un errore nel salmo. Quando il coro di fronte cerco di correggerli, i demoni volarono dall’altra parte e, mescolandosi, tra i monaci, crearono tanto scompiglio che questi non sapevano più cosa stessero cantando. Una parte del coro gridava in contrasto con l’altra». Ermanno, a quel tempo priore, insieme all’abate Eustachio, intervenne ma, «pur mettendovi tutto l’impegno possibile», non riuscì «a ricondurli sulla traccia melodica della salmodia, né a ricomporre la dissonanza delle voci. Alla fine, condotto a termine in qualche modo, a fatica e in modo disordinato, quel salmo breve e assai usuale, il diavolo, origine di ogni confusione, se ne andò». Per non parlare di quando un giovane monaco, «mal sopportando di intonare il salmo in maniera sommessa, alzò la melodia di quasi cinque toni» e di nuovo scoppiò un putiferio tra le due ali del coro: alcuni fratelli gli si accodarono, altri, «per lo scandalo e la dissonanza», smisero di cantare. «Dal che si desume – commenta Cesario – come a Dio sia più gradito un canto intonato in modo sommesso e con animo devoto piuttosto che voci innalzate magari fino al cielo, ma con presunzione». Esattamente quello che seicentocinquant’anni dopo dom Prosper Guéranger ricorda ai novizi dell’abbazia di Solesmes, grande centro francese della rinascita della liturgia e del gregoriano: «Essi canteranno con attenzione, docilità e umiltà, evitando la mollezza, la vanità e la caparbietà nelle loro idee, e ricordandosi che a Dio non piacerà un canto sciatto o inquinato da pretese umane».

(2-fine)

(Cesario di Heisterbach, Sui demòni, Edizioni dell’Orso 1999.)

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Cavoli (I demoni di Cesario, pt. 1)

Il trattatello sui demoni del cisterciense Cesario di Heisterbach, quinta parte del suo Dialogo sui miracoli (1223), è considerato «la prima raccolta di racconti edificanti di cui abbiamo notizia», all’inizio di quella tradizione di exempla che sarà ricchissima e che sarà studiata a fondo anche dagli storici del costume e della mentalità medievali – la scuola delle Annales, Le Goff, J.-C. Schmitt e il grande Aron Gurevič, che scrive: «La demonologia di Cesario è straordinariamente ricca e varia; sotto questo aspetto egli non solo regge la “concorrenza” dei suoi predecessori antichi, Gregorio I ad esempio, ma forse è addirittura superiore a loro per l’intima conoscenza che ha del diavolo e di tutti i suoi imbrogli e intrighi. La sua opera è la più preziosa testimonianza delle credenze popolari di quel tempo».

I 56 capitoli che compongono la parte dedicata ai demoni, infatti, sono sì popolati da monaci, novizi, preti e vescovi, ma anche da cavalieri, contadini, fabbri, studenti, campanari, osti e ostesse, che si muovono tra chiostri e foreste, taverne e strade solitarie e sono «colti ognuno nella prosastica banalità del proprio agire quotidiano, ritratti nella flagranza delle loro consuetudini» (S.M. Barillari).

Consuetudini, nelle crepe delle quali il «diavolo» s’infila, volta a volta nelle forme, a me, oggi, familiarissime e per nulla trascendenti del «demone della stanchezza», della distrazione, della frustrazione, della curiosità morbosa (anche di quella sana), dell’impazienza, della noia e di tutto ciò che forse, nel bene e nel male, si può riassumere in un’unica rubrica: quella del «demone della coscienza». Gli esempi interessanti, e divertenti, sono tanti che mi verrebbe voglia di trascrivere tutto il libretto.

C’è il cavaliere Enrico che si spazientisce e, chiesto al diavolo come faccia a sapere tante cose, si sente rispondere che «al mondo non accade nulla di malvagio di cui io sia all’oscuro. E perché tu sappia che ciò risponde al vero, ecco: in tale città e in tale casa tu hai perduto la tua verginità». C’è il prete Adolfo di Bonn che, mentre sta giocando a dadi con suo cognato, viene richiesto di recarsi al capezzale di un’anziana morente e risponde: «Verrò quando avrò finito la partita», dopodiché va tutto storto. C’è l’ossessa di Aquisgrana che, dopo l’esorcismo, confessa «di averlo sentito entrare [il diavolo] dall’orecchio nel momento in cui suo marito, in preda all’ira, le aveva detto: “Vai al diavolo!”». C’è il converso del monastero di Campo «che aveva imparato dai monaci, con i quali chiacchierava, il latino quel tanto che bastava da essere in grado di leggere un testo scritto. Lusingato e tratto in inganno da una simile opportunità [per carità, stattene al tuo posto], di nascosto si fece redigere dei libriccini adatti per impratichirsi nella lettura, e cominciò a compiacersi del vizio di proprietà». C’è lo scalco dell’abate di Prumm che fa una passeggiata lungo un ruscello, la sera di san Giovanni, e, vedendo «una figura in una veste di lino e pensando che stesse facendo degli incantesimi, come è usanza di molti in quella notte», prova a catturarla. C’è la donna di Aarau che «avendo un marito ubriacone, la notte non andava mai a dormire prima che lui tornasse dalla taverna… e stava seduta davanti alla porta di casa…». Ci sono Sistappo e Godefrido,«uomini ricchi e onesti, e molto amici fra loro», che stanno andando a Santiago e un giorno, «mentre cavalcavano da soli, essendo gli altri compagni più avanti», cadono vittima del demone della discordia. C’è suor Eufemia, cui il diavolo, mentre è ancora novizia, sussurra all’orecchio: «Eufemia, non prendere i voti, prenditi invece un uomo giovane e bello e goditi con lui i piaceri del mondo [accipe virum iuvenem pulchrumque, ut cum illo deliciis mundi fruaris]. Senz’altro  non ti mancheranno vesti preziose e cibi prelibati. Se invece entrerai nell’Ordine sarai sempre povera e cenciosa, soffrirai la fame, la sete e il freddo, e non avrai da questa vita nient’altro di buono».

E ci sono i monaci di Himmerode, nell’orto, intenti a piantare i cavoli; e tra loro c’è Tommaso «cui cominciò a passare per la testa tale considerazione: “Se adesso tu fossi a casa di tuo padre, neppure la tua serva si degnerebbe di fare un lavoro così vile”.» Colpa del diavolo, ovviamente.

(1-continua)

(Cesario di Heisterbach, Sui demòni, Edizioni dell’Orso 1999. Cfr. anche Aron Gurevič, Contadini e santi, Einaudi 1986.)

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Per le ragazze…

Intorno al 1183 papa Lucio III (monaco cisterciense) trasferisce la sede pontificia a Verona, per sfuggire la situazione tempestosa di Roma. È l’anno della Pace di Costanza tra Federico I Barbarossa e i comuni della Lega lombarda, e lo stesso papa incontrerà l’imperatore l’anno successivo, proprio a Verona. Insieme al papa, come ci informa Cesario, maestro dei novizi del monastero cisterciense di Heisterbach, arrivano in città molti nobili e prelati, tra i quali «il nostro confratello Godescalco, allora canonico della cattedrale di Colonia, in compagnia di suo fratello Everardo, canonico di San Gereone».

I due sono ospitati da un uomo sposato e con una figlia. Tutto tranquillo, se non che Everardo si accorge che ogni notte la famigliola esce di casa in gran segreto. È curioso e un giorno chiede: Dove andate? E quelli gli rispondono: Dai, vieni anche tu.

«Li seguì in una costruzione sotterranea, abbastanza grande, dove radunatesi molte persone di entrambi i sessi (multis ex utroque sexu congregatis), nel silenzio generale, un eresiarca tenne un sermone pieno di bestemmie con cui diede loro delle regole di vita e di comportamento. Quindi, spenta la candela, ciascuno possedette colei che gli stava più vicino (unusquisque sibi proximam invasit) senza fare distinzione alcuna fra moglie ed estranea, fra vedova e vergine, fra signora e serva, e, cosa ancora più orribile, fra figlia e sorella.»

Everardo, iuvenis luxuriosus atque vagus, non ci può credere: torna la sera successiva, si mescola agli eretici (mingling da manuale), si mette a chiacchierare con la figlia del suo ospite e, «quando venne spenta la candela, peccò». La cosa va avanti per mesi, tanto che il capo della setta eretica si sbilancia: «Questo giovane frequenta con tanta diligenza la nostra scuola che presto sarà in grado di insegnare agli altri».

Per fortuna Godescalco si accorge delle trame del maligno e interviene, redarguendo duramente Everardo e riportandolo sulla retta via. E sia ringraziato il Signore che il male peggiore non abbia traviato l’anima del giovane canonico, che infatti confessa al maestro: «Sciatis, frater, me non frequentare conventicula haereticorum propter haereses sed propter puellas

Sappiate, fratello, che io non frequento le conventicole degli eretici per il loro credo, ma per le ragazze.

Cesario di Heisterbach, Dialogus miracolorum, V, 24: «De haereticis Veronensibus», in Sui demòni, Edizioni dell’Orso 1999, p. 107.

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