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«Sono ancora qua!»

Uno degli aspetti più interessanti della letteratura monastica, che al momento – è bene non dimenticarlo – è l’unica parte del «fenomeno monachesimo» che frequento con costanza, è la riflessione che i monaci e le monache conducono incessantemente sulla propria condizione. È bene che non dimentichi, infatti, che, oltre alla letteratura, ci sono i luoghi, dei quali ho una conoscenza limitatissima, e soprattutto le comunità, le quali sono quasi sempre impegnate principalmente a essere (e a fare), prima ancora che a scrivere, e di queste non ho la minima conoscenza (né d’altra parte credo sia possibile averne una profonda senza farne parte).

Il fiume di consapevolezza e autovalutazione, tuttavia, è scaturito alle origini stesse del monachesimo, ne è parte integrante, e non stupisce se si pensa che, al di là dell’attuale omonimia, essere monaci non è una professione che si esercita, bensì un modo di esistere (forse qualcosa di ancor più preciso) che va continuamente verificato, sia sul «manuale di riferimento», cioè la Regola (anzi, le Regole), sia nel proprio intimo, attraverso il diuturno esame di coscienza, sia forse – ma qui sono troppo fuori dalla mia «casa» – di fronte a Colui che ha chiamato il monaco a sé.

Questo, per lo meno, è quanto ricavo dagli scritti contemporanei. Di certo sono esistiti dei religiosi, nei secoli, che, una volta pronunciati i voti ed emessa la professione solenne, hanno ritenuto di essere diventati ufficialmente monaci, una volta per sempre, ma se ripenso a quel poco di testimonianze e documenti che ho letto, mi pare che i monaci e le monache di oggi, quelli e quelle appunto che scrivono, siano abitati da una tensione affatto moderna di continua «messa in discussione» della propria condizione e della propria forma di vita.

E se spesso tale riflessione è di carattere generale, e tende a rispondere a domande come «Cosa significa essere monaci, oggi?», «Quale il ruolo dei monaci nel mondo contemporaneo?», ecc., il discorso, per così dire, finisce quasi sempre per essere accesamente personale, la vera domanda essendo: «Che monaco, che monaca sono, io?» Come dice, tra i molti esempi, e per lasciarle finalmente la parola, una delle grandi monache trappiste del XX (e XXI) secolo, già badessa di Vitorchiano, m. Cristiana Piccardo: «Io desidero parlare molto semplicemente della mia esperienza, poiché non ho gli strumenti per un’esposizione culturale». Formula nella quale risuonano secoli di umiltà monastica e di necessità di ricominciare sempre tutto daccapo1.

Nel suo testo rivolto a consorelle e confratelli, dopo una breve introduzione, m. Piccardo rievoca alcuni tratti della sua professione che sono di estremo interesse. Entrata alla trappa di Vitorchiano nel 1958, m. Piccardo ritiene che la sua generazione «fosse tutta un po’ socialista alla fine di una dittatura fascista e percepiva come un’esperienza di grande libertà incontrare gente che affermava liberamente la sua scelta di vita senza condizionamenti esterni di nessun tipo». Il cruciale paradosso della trappa – la libertà della rigida obbedienza – è vissuto sulla propria carne, tanto che la sua speranza era quella di «vincere la mia propria esasperata autonomia con una vita sigillata dalla continua obbedienza». Altri richiami sono rappresentati dalla liturgia e dall’indipendenza lavorativa. La novizia di allora si sente accettata nonostante se stessa, e questo la riempie di stupore e gratitudine e la avvia sulla strada dell’annullamento di sé, o meglio dell’io che si era costruita prima: «Ricordo che il primo lavoro che mi chiesero fu quello di mettere letame naturale su una coltivazione di carciofi e poiché le piante erano piccole era necessario metterlo con le mani. Io venivo da un ufficio editoriale di giornali e riviste e il contatto brutale con la terra e gli escrementi della stalla mi provocò delle risate tremende e molto poco “monastiche” a causa dell’immediata e concreta visione della mia persona al di là delle “etichette editoriali” del passato». L’immediata e concreta visione della mia persona: quante volte ho sentito dire dai monaci che la prima cosa che si trova entrati in monastero è se stessi, e spesso non senza contraccolpi. Qui diventa fondamentale l’accompagnamento, la possibilità di incontrare dei «modelli», cioè delle persone, immediate e concrete, che hanno già fatto quel percorso, e oltre a sostenere i primi passi del nuovo arrivato possono trasmettere l’immagine viva di com’è l’«altra sponda». Solo loro possono fornire il necessario ancoraggio per il novizio perché incarnano – nello stretto senso del termine – il «realismo della vita benedettina».

La strada è uguale per tutti e al tempo stesso differente per ognuno, differente negli accenti che vengono posti sugli elementi costitutivi della scela monastica. Sentiamo ancora, e per esteso perché lo merita, il ricordo di m. Piccardo: «Se consideriamo i mezzi di crescita che la vita monastica offre, devo confessare che, nel mio personale impatto iniziale con il monastero, non furono i valori tradizionali, la preghiera, la lectio, la solitudine, il silenzio, la clausura, che comunque avrebbero conformato la mia vita, quelli che richiamarono la mia immediata attenzione e marcarono la mia esperienza iniziale, ma piuttosto l’impatto sperimentale con realtà molto semplici, come per esempio la ristrettezza e la nudità della cella in un grande dormitorio comune e la consolazione che mi riempiva il cuore quando, svegliandomi al suono delle Vigilie, dopo vari incubi notturni, potevo toccare i muri della cella e dire: “Sono ancora qua!”».

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  1. Cristiana Piccardo, La crescita della persona nella sapienza della Regola. Una testimonianza, in C. Piccardo, R. Nardin, S. Corsi, La sapienza monastica: una tradizione vivente, Borla 2006 (che raccoglie gli «atti» dell’Incontro monastico sul tema tenutosi presso il monastero di Valserena 14 anni fa, dal 25 al 27 novembre 2003).

 

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«Ciò che è solo sentimentale, intellettuale ed emotivo» (Cristiana Piccardo, «Alle sorgenti della salvezza», pt. 2/2)

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(la prima parte è qui)

Nei primi tra i testi raccolti in questo volume1 m. Piccardo torna più volte sul concetto di personalità, che può essere ripensato a partire dalla sua declinazione monastica, soprattutto in contrasto con quello che sarebbe il pericoloso processo di alienazione dell’individuo nelle cose: «L’uomo che possiede una personalità è l’uomo che si misura non con le cose che passano, ma con l’eterno». Se ciò può essere vero per l’uomo-monaco, suona ingeneroso nei confronti dell’uomo-non-monaco, che si dedica a ciò che è alla sua portata (in uno spettro amplissimo di attività con diverse gradazioni di egoismo e altruismo) senza passare necessariamente a un piano trascendente. Si ripresenta qui anche il concetto di «momento presente», molto scivoloso e da maneggiare con cautela (e la cui applicazione ormai va dalla saggistica di auto-aiuto alle divulgazioni buddiste), e tuttavia non estraneo alla vita monastica, tesa verso il trascendente e l’infinito e nondimeno lontana dall’abbandono all’indifferenza. È l’autrice stessa a farvi riferimento, quando evoca l’importanza dell’«inserzione costante dell’eterno nel momento presente». Il mero presente, senza la dimensione escatologica, produce isolamento e disperazione, anche perché «l’escatologia mondana ha fallito del tutto». Un’altra affermazione che mi pare un po’ ingenerosa, poiché accanto alla «capacità di autodistruzione» l’uomo moderno (o in generale) ha sviluppato una «capacità di costruzione» che dovrebbe sempre essere ricordata insieme alla prima, e sulla quale si può sorvolare soltanto a scopi polemici. (Devo anche dire che questa inserzione dell’eterno non è una semplice «aggiunta», ma ci tornerò quando avrò completato una lettura collegata all’argomento.)

Il richiamo all’infinito, in ogni caso, riscatterebbe il presente dall’inutile, rischiando tuttavia di svalutarlo in maniera drammatica. Si tratta peraltro di una preoccupazione propria della pratica monastica. Bisogna, dice infatti m. Piccardo, «essere consapevoli che una cosa sola è essenziale anche se il monaco fa con responsabilità tutto ciò che gli viene affidato», e ho sottolineato quell’«anche se» perché vi sento una tensione molto interessante: ciò che conta è al di là di queste cose che ci circondano, ma nel frattempo le teniamo in ordine, le accudiamo, facciamo le pulizie, sgrassiamo una pentola e stiriamo con cura (per non parlare di incarichi di servizio ben più seri); ciò che conta è al di là di questi individui che ci circondano, ma nel frattempo la comunità è il nostro orizzonte quotidiano – un atteggiamento del tutto condivisibile, anche da chi crede soltanto nel frattempo.

Consapevole di tale tensione, m. Piccardo ritiene che «il monachesimo deve potersi proporre come forza profetica della dimensione misterica dell’uomo, come spaccatura del limite terreno che sempre più ci soffoca, e non nella prospettiva escatologica, ma proprio nell’oggi storico». Adesso, quindi, il monachesimo ha qualcosa da dirci, per quello che c’è da fare ora. «Di fronte a un così manifesto decadimento della dimensione umana e del suo immortale contenuto», il monachesimo può proporsi come «discorso paradigmatico sull’uomo», al di là della clausura o delle regole, raccogliendo tutte le sfide – di convivenza, di speranza, di gioia – che secondo l’autrice sarebbero state perse dalla modernità, e soprattutto imparando di nuovo «a giungere al cuore della persona, là dove, varcate le soglie di ciò che è solo sentimentale, intellettuale ed emotivo, si tocca quel centro dell’essere, quel punto focale di luce da cui emerge l’autentico spessore contemplativo del monaco».

Bene, mi fermo qui, anche perché credo che «ciò che è solo sentimentale, intellettuale ed emotivo» rappresenti già un compito immane – per il quale non basta un’esistenza non devastata dall’esigenza di sopravvivere e che non mi sentirei di sorpassare in nome di un «punto focale di luce», cioè la «scintilla di somiglianza divina», di ardua definizione e sostanzialmente oggetto di fede.

(2-fine)

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  1. Madre Cristiana Piccardo, Alle sorgenti della salvezza. La vita contemplativa oggi, introduzione di m. Rosaria Spreafico, badessa di Vitorchiano, Nerbini, Associazione Nuova Cîteaux, 2015 («Quaderni di Valserena»; 2).

 

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«Là dove finisce la strada asfaltata» (Cristiana Piccardo, «Alle sorgenti della salvezza», pt. 1/2)

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Non posso nascondere come talvolta sia difficile non cedere alla tentazione di ribattere a quello che sto leggendo. Ciò avviene non di rado davanti alle pagine più apertamente «antropologiche» o «sociologiche» di monaci e monache di oggi. È una tentazione che va vinta, limitandosi a osservare che la cautela verso le generalizzazioni dovrebbe essere in auge sia fuori che dentro i monasteri. Ci pensavo durante la lettura del volume di m. Cristiana Piccardo che raccoglie, in occasione del suo novantesimo compleanno, i principali testi che la monaca trappista ha dedicato alla vita comtemplativa1: coprono un arco di tempo di quasi quarant’anni, sono nati spesso a margine dei documenti del magistero ecclesiale riguardanti la vita monastica e, nonostante io li abbia crivellati di punti esclamativi e interrogativi, alla fine li ho letti tenendo a mente soprattutto una cosa: chi scrive sa di cosa parla, quindi anzitutto ascolta.

Ascolta anche quando m. Piccardo richiama l’attenzione sul «chiasso della piazza del nostro io», o su «questo io divoratore che crea una barriera intorno a noi», o ancora «sulla mobilità congestionata della vita moderna», o infine sull’essere vittime «della mania dell’informazione, della mania di verificare tutto col metro della propria personalità, non ancora sufficientemente matura. Questo voler verificare può essere positivo, purché però non diventi “contestazione” e ribellione aperta» (parole del 1969-70). La ascolto soprattutto quando esordisce così (parlando al sinodo dei Vescovi sulla vita consacrata del 1994): «Il mio è un contributo molto povero, come può essere il contributo di chi vive in una remota vallata della precordigliera venezuelana, là dove finisce la strada asfaltata e dove i mezzi di trasporto non proseguono oltre»2.

La vita contemplativa, secondo m. Piccardo, è ancora e soprattutto, «come da sempre», memoria e vigilia, e la sede principale dell’attuazione di questo binomio è la liturgia. Potenti, anche se non posso condividerle, le parole usate per descrivere cosa accade durante l’opus Dei: «Nelle ore liturgiche del giorno e della notte… la comunità monastica dà voce al grido millenario dell’uomo che, dal fondo della sua indigenza, incontra la coscienza del suo peccato, la consapevolezza della sua verità creaturale, l’invocazione alla misericordia che salva, la capacità di ammirazione e gratitudine per i benefici ricevuti».

Oltre alla liturgia vi sono tuttavia altri cinque fronti di esperienza sui quali il monachesimo può portare la sua testimonianza di una «umanità diversa», e qui emerge il tratto più attuale della riflessione di m. Piccardo. Anzitutto 1) il rigore della vita comunitaria: nel cenobio si vive insieme, altrimenti si muore, la comunione è continua e senza riserve. Poi 2) l’ascetismo, che non è più, ormai, «macerazione fisica», bensì sobrietà ed essenzialità e, sostanzialmente, autentico comunismo (la «vittoria sul proprio»). Quindi 3) la conversione, pratica continua basata sull’obbedienza e sull’umiliazione di sé; 4) il lavoro, che, «nell’esperienza benedettina-cistercense, ci accomuna profondamente ai poveri, ai campesiños delle nostre terre» e che, seppure talvolta in modo impercettibile, «è collaborazione al divenire del mondo e dell’umanità»; e infine 5) l’accoglienza, la messa a disposizione di un luogo, di uno spazio estraneo alla condotta del mondo.

Fin qui tutto bene; la tentazione di ribattere diventa un po’ più forte quando la riflessione si allarga, come dicevo, a spunti antropologici o sociologici.

(1-segue)

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  1. Madre Cristiana Piccardo, Alle sorgenti della salvezza. La vita contemplativa oggi, introduzione di m. Rosaria Spreafico, badessa di Vitorchiano, Nerbini, Associazione Nuova Cîteaux, 2015 («Quaderni di Valserena»; 2).
  2. Dopo essere stata badessa dell’abbazia di Vitorchiano per 24 anni, alla fine degli anni Settanta Cristiana Piccardo è partita per il Venezuela, dove ha fondato e poi retto la «piccola trappa tocuyana» di Humocaro (fondazione ufficiale di Vitorchiano dal 1987).

 

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