(la prima parte è qui)
Dopo aver affrontato il rapporto maestro-discepolo, all’interno delle comunità monastiche primitive, Graham Gould1 allarga la visuale ai rapporti con il prossimo in genere, e il discorso si fa ancora più interessante, perché gli aspetti, le dinamiche, i problemi che emergono sono quanto mai vicini a noi lettori contemporanei. Non bisogna dimenticare, peraltro, che i Detti dei padri del deserto non sono un’«opera» strutturata e coerente, bensì accolgono, come già si accennava, fenomeni apparentemente contraddittori: ricerca della solitudine e senso di comunità, silenzio e parola, inflessibilità (verso se stessi) e misericordia (nei confronti dei fratelli), entrambe a oltranza, e così via2. Sono la testimonianza di un gruppo di individui che, praticando un instancabile discernimento, si sforzano di inseguire il bene e di rispondere alla chiamata di Dio (alla domanda: «Che cos’è un monaco?» Giovanni Kolobos rispose: «Fatica. Poiché in ogni azione il monaco deve sforzarsi. Questo è il monaco!»).
Ecco allora che, uno alla volta, emergono e vengono affiancati una serie di comportamenti e insegnamenti che brillano come se fossero appena additati e pronunciati. L’ambito più frequentato dai padri è quello relativo all’ira, al giudizio, alla lite e alla calunnia: quattro circostanze, di evidente «ispirazione» demoniaca, da fuggire a qualsiasi costo. All’ira non bisogna mai cedere, resistendo anche alla tentazione di puntualizzare e di ribattere, sottraendosi senza discutere alle situazioni di conflitto (situazioni cui sarebbe consigliabile addirittura di non assistere: accusato di non essere intervenuto nella lite tra due fratelli [che quindi accadevano], Poemen rispose: «Mettiti bene in mente che io non ero qui»). Ancor più da evitare è il giudizio sull’altrui condotta, per non peccare d’orgoglio, per non arrogarsi una prerogativa che è soltanto di Dio, per non cadere nei tranelli del demonio e per non dimenticare le proprie debolezze: al limite accusare se stessi, mai gli altri. «Agatone, quando vedeva qualcosa che il suo pensiero avrebbe voluto giudicare, diceva a se stesso: “No, Agatone, non farlo”. E il suo pensiero si acquietava». E abba Giuseppe, interrogato da Poemen sul diventare monaco, così rispondeva: «Se vuoi trovare pace in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza, di’: “Chi sono io?”. E non giudicare nessuno».
E se si è oggetto di giudizio, se non di calunnia? Niente, fermi, indifferenti, alla lode come all’insulto: «Dobbiamo diventare come questa statua che non si turba né quando è offesa, né quando è lodata», dice abba Anub. La questione della lode, d’altra parte, è legata con sottile distinzione al punto di vista: la lode ricevuta è male, perché ottunde, e perché di sicuro non è meritata, ma la lode offerta è bene, poiché innalza l’altro al di sopra di noi. Meglio ancora la lode testimoniata: «Quanto senti un anziano [abba Matoes, nella fattispecie] che loda il suo prossimo più di se stesso, sappi che è giunto a grande misura: questa infatti è la perfezione, lodare il prossimo più di se stessi».
L’altro dunque, anche per chi lo fugge ritirandosi in una grotta, resta paragone, specchio, occasione di bene, sentinella contro il male, «terreno» sul quale misurare se stessi e le proprie mancanze. Ed è anche colui verso il quale la nostra capacità di «comprensione», pallida ombra della infinita misericordia divina, deve esercitarsi senza sosta. Se i padri rivolgono costantemente a se stessi uno sguardo severo e inflessibile, quando si volgono al fratello sono pronti a sciogliersi.
E su questa nota concludo la mia incompletissima lettura di un libro che, tra gli altri meriti, ha quello di far ripassare al lettore molti dei Detti più belli e interessanti della raccolta, citando questo esempio, perfetto e dolcissimo: «Alcuni anziani si recarono da abba Poemen [ancora lui, uno dei più grandi, se non il più grande, e mi perdonerà se lo esalto…] e gli chiesero: “Se vediamo dei fratelli che sonnecchiano durante la liturgia, vuoi che li scuotiamo, perché rimangano desti durante la veglia?”. Ma egli disse: “Veramente, se io vedo un fratello che sonnecchia, metto la sua testa sulle mie ginocchia e lo lascio riposare”».
(2-fine)
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- Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2001 (trad. di The Desert Fathers on Monastic Community, 1993).
- «Sarebbe in ogni caso sbagliato negare l’esistenza di comportamenti differenti o affermare che il parere espresso in un apoftegma debba essere in armonia con gli altri», pag. 158.