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«Agatone, non farlo» (A scuola dai padri del deserto, pt. 2/2)

GouldLaComunità2 (la prima parte è qui)

Dopo aver affrontato il rapporto maestro-discepolo, all’interno delle comunità monastiche primitive, Graham Gould1 allarga la visuale ai rapporti con il prossimo in genere, e il discorso si fa ancora più interessante, perché gli aspetti, le dinamiche, i problemi che emergono sono quanto mai vicini a noi lettori contemporanei. Non bisogna dimenticare, peraltro, che i Detti dei padri del deserto non sono un’«opera» strutturata e coerente, bensì accolgono, come già si accennava, fenomeni apparentemente contraddittori: ricerca della solitudine e senso di comunità, silenzio e parola, inflessibilità (verso se stessi) e misericordia (nei confronti dei fratelli), entrambe a oltranza, e così via2. Sono la testimonianza di un gruppo di individui che, praticando un instancabile discernimento, si sforzano di inseguire il bene e di rispondere alla chiamata di Dio (alla domanda: «Che cos’è un monaco?» Giovanni Kolobos rispose: «Fatica. Poiché in ogni azione il monaco deve sforzarsi. Questo è il monaco!»).

Ecco allora che, uno alla volta, emergono e vengono affiancati una serie di comportamenti e insegnamenti che brillano come se fossero appena additati e pronunciati. L’ambito più frequentato dai padri è quello relativo all’ira, al giudizio, alla lite e alla calunnia: quattro circostanze, di evidente «ispirazione» demoniaca, da fuggire a qualsiasi costo. All’ira non bisogna mai cedere, resistendo anche alla tentazione di puntualizzare e di ribattere, sottraendosi senza discutere alle situazioni di conflitto (situazioni cui sarebbe consigliabile addirittura di non assistere: accusato di non essere intervenuto nella lite tra due fratelli [che quindi accadevano], Poemen rispose: «Mettiti bene in mente che io non ero qui»). Ancor più da evitare è il giudizio sull’altrui condotta, per non peccare d’orgoglio, per non arrogarsi una prerogativa che è soltanto di Dio, per non cadere nei tranelli del demonio e per non dimenticare le proprie debolezze: al limite accusare se stessi, mai gli altri. «Agatone, quando vedeva qualcosa che il suo pensiero avrebbe voluto giudicare, diceva a se stesso: “No, Agatone, non farlo”. E il suo pensiero si acquietava». E abba Giuseppe, interrogato da Poemen sul diventare monaco, così rispondeva: «Se vuoi trovare pace in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza, di’: “Chi sono io?”. E non giudicare nessuno».

E se si è oggetto di giudizio, se non di calunnia? Niente, fermi, indifferenti, alla lode come all’insulto: «Dobbiamo diventare come questa statua che non si turba né quando è offesa, né quando è lodata», dice abba Anub. La questione della lode, d’altra parte, è legata con sottile distinzione al punto di vista: la lode ricevuta è male, perché ottunde, e perché di sicuro non è meritata, ma la lode offerta è bene, poiché innalza l’altro al di sopra di noi. Meglio ancora la lode testimoniata: «Quanto senti un anziano [abba Matoes, nella fattispecie] che loda il suo prossimo più di se stesso, sappi che è giunto a grande misura: questa infatti è la perfezione, lodare il prossimo più di se stessi».

L’altro dunque, anche per chi lo fugge ritirandosi in una grotta, resta paragone, specchio, occasione di bene, sentinella contro il male, «terreno» sul quale misurare se stessi e le proprie mancanze. Ed è anche colui verso il quale la nostra capacità di «comprensione», pallida ombra della infinita misericordia divina, deve esercitarsi senza sosta. Se i padri rivolgono costantemente a se stessi uno sguardo severo e inflessibile, quando si volgono al fratello sono pronti a sciogliersi.

E su questa nota concludo la mia incompletissima lettura di un libro che, tra gli altri meriti, ha quello di far ripassare al lettore molti dei Detti più belli e interessanti della raccolta, citando questo esempio, perfetto e dolcissimo: «Alcuni anziani si recarono da abba Poemen [ancora lui, uno dei più grandi, se non il più grande, e mi perdonerà se lo esalto…] e gli chiesero: “Se vediamo dei fratelli che sonnecchiano durante la liturgia, vuoi che li scuotiamo, perché rimangano desti durante la veglia?”. Ma egli disse: “Veramente, se io vedo un fratello che sonnecchia, metto la sua testa sulle mie ginocchia e lo lascio riposare”».

(2-fine)

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  1. Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2001 (trad. di The Desert Fathers on Monastic Community, 1993).
  2. «Sarebbe in ogni caso sbagliato negare l’esistenza di comportamenti differenti o affermare che il parere espresso in un apoftegma debba essere in armonia con gli altri», pag. 158.

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«Occorre che sia tu a dirmelo» (a scuola dai padri del deserto, pt. 1/2)

GouldLaComunità2 Ancora i padri del deserto? Certo, sempre. L’occasione mi è stata offerta questa volta dall’ottimo volume di Graham Gould, La comunità1, che attraverso una lettura minuziosa dei Detti dei padri esplora gli aspetti apparentemente contraddittori dell’esperienza del monachesimo primitivo egiziano, con particolare riguardo ai rapporti personali e alla contrapposizione, anch’essa apparente, tra solitudine e comunione.

È assai utile, a inizio lettura, essere richiamati sul fatto che le raccolte dei Detti, come via via sono state affidate alla scrittura, siano intese anche come «un archivio duraturo» dello sviluppo di una comunità desiderosa di «salvaguardare una visione chiara» delle proprie origini2. Molto frequenti, in questo senso, sono i Detti che prendono la forma rivelatrice di «Abba Tizio dice che abba Caio diceva…» Né va dimenticato che molti testi, raccontando di incontri, colloqui e anche frizioni tra i fratelli, finiscono proprio con l’illustrare la natura dei loro rapporti.

La prima dimensione affrontata dall’analisi di Gould è quella del rapporto tra maestro e discepolo. Una relazione che, a guardarla con gli occhi di oggi, suscita al tempo stesso nostalgia, per la sua progressiva scomparsa, e preoccupazione, per le distorsioni che ancora può generare. Anzitutto il maestro, l’abba, aveva il compito di insegnare al discepolo, il nuovo arrivato, i fondamenti pratici della vita monastica (non c’era una Regola da far leggere e rileggere, come avrebbe prescritto san Benedetto) e di illustrargli i problemi che avrebbe incontrato. È una preparazione, e affinché sia efficace il discepolo vi si deve sottomettere con assoluta obbedienza, riconoscendo l’autorità e la saggezza di chi ha maggiore esperienza di lui: «[Abba Isaia] disse ancora di coloro che iniziano bene la vita monastica e si sottomettono ai santi padri: “Come accade alla porpora: la prima tintura non si scolora. E come i rami teneri si innestano e si piegano facilmente, così avviene dei novizi che vivono nella sottomissione”». Le tentazioni sono pericolose per i novizi perché sono sconosciute, non ne hanno fatto ancora estesa esperienza, e «nessuno può essere di aiuto a se stesso soprattutto quando è oppresso dalle passioni». Dopo un atto di volontà di prima grandezza come quello di voler cambiare vita, curiosamente, si potrebbe dire, «la rinuncia alla propria volontà costituisce la pietra miliare del vero progresso nella vita monastica».

L’obbedienza richiede anche la necessità di rivelare i pensieri, cioè l’apertura del cuore, altro aspetto cui guardiamo oggi con la medesima, inestricabile mescolanza di nostalgia e preoccupazione di cui sopra. C’è una speciale risonanza contemporanea, per così dire, in questa vicenda dell’apertura. Un detto della serie anonima contiene un dialogo illuminante al riguardo. Un monaco racconta che da giovane era afflitto da un pensiero, ma non si risolveva a parlarne con un anziano: andava a trovarlo, ma poi si bloccava, finché lo stesso anziano prese l’iniziativa: «Egli si voltò e vedendomi tormentato mi batté il petto e mi disse: “Che hai? Anch’io sono un uomo”. Come disse queste parole, parve che il mio cuore si aprisse. Caddi ai suoi piedi e lo pregai tra le lacrime dicendo: “Abbi pietà di me”. L’anziano mi disse: “Che hai?”. Risposi: “Non sai che ho?”. Ed egli disse: “Occorre che sia tu a dirmelo”. Allora con grande vergogna gli manifestai la mia passione ed egli mi disse: “Perché per tanto tempo ti sei vergognato a parlarmene? Non sono anch’io un uomo? Tuttavia, se vuoi, ti dico quello che so”». L’equilibrio qui è molto delicato, ma ugualmente il momento è bellissimo.

Inutile sottolineare, ribaltando la prospettiva, la responsabilità che deriva al maestro da questo tipo di rapporto. Responsabilità che ha il suo perno nel discernimento, il quale a sua volta «implica l’abilità dell’abba di distinguere tra le diverse capacità spirituali di persone differenti e di comportarsi, rispetto alle loro tentazioni, in modo adeguato». La parola dell’abba dunque non è mai generica, ma sempre personale, ed è basata sulla propria esperienza, e deve sempre accompagnarsi all’esempio, in «una testimonianza concorde di parola e vita».

Vi sono alcuni di esempi di fallimento del rapporto, o di insofferenza da parte di uno dei due «attori». Alcuni anziani, ad esempio, manifestano una certa riluttanza all’insegnamento e talvolta reagiscono col silenzio alle domande (cosa che rappresenta comunque un insegnamento). Nel complesso, però, prevalgono la comprensione e la carità, che si traducono anche in una sorprendente flessibilità di fronte ai vari casi che si presentano. L’abba è colui che è capace di trovare il modo giusto, per quanto strano possa essere, di rispondere alla richiesta di aiuto del discepolo, come in questa magnifica storia, sempre dalla serie anonima, così riassunta da Gould: «Un anziano incoraggiò il suo discepolo a resistere alla tentazione della fornicazione, ma quando il discepolo gli rispose: “Abba, non riesco più a resistere al peccato”, l’abba cambiò tattica, passando dall’incoraggiamento al coinvolgimento. “Anch’io sono tentato, figliolo. Andiamo insieme, facciamo la cosa e ritorniamo nella nostra cella”. Quando arrivarono alla casa della prostituta, l’anziano entrò, con il pretesto di incontrarla per primo, ma una volta dentro la convinse a non contaminare il fratello. Allorché il fratello entrò (presumibilmente credendo che l’anziano avesse già peccato), ella lo persuase a pregare prima di peccare e, “dopo venti o trenta metanìe”, il fratello, preso da compunzione, uscì incontaminato».

(1-segue)

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  1. Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2001 (trad. di The Desert Fathers on Monastic Community, 1993).
  2. «Abbiamo a che fare con un prezioso archivio della vita concreta, in parole e opere, delle comunità monastiche di Scete e del basso Egitto», pag. 43.

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Vieni quando vuoi

C’era un anziano monaco scetiota – ho imparato che scetiota è l’aggettivo di Scete, località del deserto egiziano dove si «coagulò» una delle comunità monastiche primitive, e non ho resistito alla tentazione di usarlo… Dunque, l’anziano monaco, «molto zelante nelle fatiche del corpo, ma non acuto nei pensieri», era afflitto da un problema assai comprensibile anche oggi: la dimenticanza. Allora va da abba Giovanni per chiedergli consiglio. Lo ascolta con attenzione, ringrazia, torna nella sua cella e… non si ricorda più niente. Uffa. Rivà, riascolta («le stesse parole»), ritorna: daccapo, niente. Eh, ma che diamine. Ci riprova ancora, e ancora, e ancora, «ma, mentre ritornava indietro cadeva vittima della dimenticanza». Okay, non c’è niente da fare, non posso andare ancora dall’abba… Qualche tempo dopo, si direbbe una sera, l’anziano incontra per caso l’abba e gli confessa: «Sai padre, che ho dimenticato ancora quello che mi hai detto? Ma, per non disturbarti, non sono venuto». Ma no, non dovevi, gli risponde Giovanni, e sai perché? Allora lo manda a prendere una lucerna e gli dice di accenderla. Poi lo manda a prenderne altre, gli dice di accenderle tutte con la prima e infine gli chiede: «È forse diminuita la luce della prima lucerna perché da quella hai acceso le altre?» No di certo! Ecco, spiega l’abba, «nemmeno Giovanni; anche se tutta Scete venisse da me, non mi sarebbe di ostacolo alla grazia di Cristo; perciò vieni quando vuoi, senza esitare».

So che non c’è alcun bisogno di ri-raccontare i detti dei Padri del deserto, la cui essenzialità rasenta la perfezione narrativa, ma credo che la tentazione (e due) di farlo derivi da quella eccezionale combinazione di storicità e astoricità che li caratterizza: si legge una storiella di due anziani un po’ bizzarri, sperduti in un deserto inospitale, e al tempo stesso (ci) si racconta una circostanza immutata della nostra condizione.

E così, anche senza «scomodare il trascendente», viene fuori la comprensione dei propri limiti (se anche non si vogliono chiamare mancanze o imperfezioni); l’umiltà di riconoscere di avere bisogno di consiglio (da notare che a chiederlo non è un giovane a un anziano, ma un anziano a un coetaneo: si chiede a chi sa, non c’entra l’età); la disponibilità a darlo (e la responsabilità che questo comporta); il tatto di non voler gravare oltre misura il prossimo con i propri difetti; la pazienza e la comprensione (e l’intelligenza di escogitare l’esempio perfetto – la luce che non si consuma – per fugare i sensi di colpa dell’altro); la condivisione a oltranza della conoscenza («anche se tutta Scete venisse da me», detto da un anacoreta che si era ritirato in solitudine!); la gentilezza dell’invito di un amico («vieni quando vuoi, senza esitare»).

Il commento dell’anonimo estensore del «detto» ricontestualizza, per così dire, la storia e ne ricava l’esemplarità, senza spegnerne il brillìo: «Questo è il compito di monaci di Scete, dare coraggio a coloro che sono tentati e fare violenza a se stessi, per guadagnarsi reciprocamente al bene».

♦ Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova (1990) 20085, pp. 236 (Giovanni Nano, 18).

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Testimone inattendibile (Dice il monaco, CIV)

Disse abba Poemen, padre del deserto, verso la fine del IV secolo:

Sta scritto: «Testimonia ciò che i tuoi occhi hanno visto». Ma io vi dico: non rendete testimonianza nemmeno di ciò che toccate con mano. In questo genere di cose un fratello prese un abbaglio: gli parve di vedere un fratello che peccava con una donna. Dopo essere stato molto combattuto, andò a colpirli con un piede, credendo che fossero loro, e disse: «Smettetela dunque! Fino a quando?» Ed ecco erano fasci di grano! Per questo vi ho detto: anche se toccate con mano, non accusate.

Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Città Nuova (1990) 20085, pp. 400-401 (Poemen, 114).

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Tre brevissime lezioni e mezza

Prima lezione. C’era un anacoreta che voleva andare a trovare Poimen per via della sua fama: un sapiente, col quale potrò parlare a un certo livello, pensava. Ci si fa accompagnare da un fratello, entra da abba P e attacca a parlare «di cose spirituali e celesti». E abba P niente, si volta pure dall’altra parte. L’anacoreta, scornato, esce e dice al fratello: son venuto per niente, non parla. Allora il fratello entra nella cella di Poimen e gli fa: che c’è abba P? Questo è venuto apposta per te, perché non gli parli? Così risponde Poimen: «Egli è di lassù e parla di cose celesti, mentre io sono di quaggiù e parlo di cose terrestri. Se mi avesse parlato delle passioni dell’anima, gli avrei risposto; ma se mi parla di cose spirituali, io non ne so nulla». Prima lezione: parlare soltanto di ciò che si conosce.

Seconda lezione. Un giovane andò a vivere con Teodoro, per essergli utile e imparare qualcosa. Ma quello non gli diceva mai niente e non si faceva aiutare: abba T, fai tutto tu, non mi dai niente da fare, perché? Ancora niente, sempre niente. Allora il giovane chiede agli anziani: sono andato da abba T, ma è come se non mi vedesse nemmeno… Gli anziani vanno da Teodoro a chiedere spiegazioni e lui risponde così: «Sono forse il superiore di un cenobio, da dargli ordini? Finora non gli ho detto nulla, ma, se vuole, può fare anche lui ciò che vede fare da me». Seconda lezione: insegnare, se mai, con l’esempio.

Terza lezione. Un anziano di Scete era ancora molto forte, «ma non molto preciso nel ricordare le parole». Va da Giovanni Kolobos, quello gli dice qualcosa, lui torna nella sua cella e non se lo ricorda più; ritorna da Giovanni, ascolta, back to the cella, zac, dimenticato. Repeat. Alla fine lascia perdere. Dopo un po’ incontra Giovanni e gli fa: «Abba G, sai che mi sono di nuovo dimenticato ciò che mi avevi detto, ma per non disturbarti non sono più venuto». Allora Giovanni gli dice di prendere una lucerna e di accenderla, poi di portarne altre dieci e di accenderle con la prima. «Forse che la lucerna ha subito qualche danno per il fatto che da essa hai acceso le altre lucerne?» chiede Giovanni. No, vero? E conclude: «Così neanche Giovanni: anche se l’intera Scete venisse da me, non mi sarebbe di ostacolo alla grazia di Dio. Perciò vieni quando vuoi, senza farti alcuno scrupolo». Terza lezione: condividere sempre la conoscenza, che non si consuma.

Terza lezione e mezza: accettare le lezioni1.

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  1. Spunti da Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2001.

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Un piccolo cetriolo

«Un fratello, mentre attraversava il deserto in direzione di Scete, arrivò al fiume Nilo e, poiché era affaticato dal cammino ed era ormai l’ora della grande calura, si spogliò dei suoi vestiti e scese per fare il bagno.» «Un giorno un fratello chiese qualcosa a un diacono, e questi gli disse: “Adesso non ho tempo!”» «Un anziano aveva un discepolo provato e un giorno, per un moto di insofferenza lo cacciò fuori.» «Una volta, mentre parlavo di ciò che è utile ad alcuni fratelli, sprofondarono in un sonno così profondo che non riuscivano più a muovere neanche le palpebre.» «Una volta gli capitò di essere un po’ trascurato.» «I padri dicevano che una volta, mentre i fratelli mangiavano durante un’agape fraterna, un fratello si mise a ridere.» «Un fratello interrogò abba Poimen dicendo: “Che cosa devo fare? Quando sto seduto nella cella sono preso dallo sconforto”.» «Gli dissero: “Abba, come fai a sopportare questi bambini senza ordinare loro di smettere di parlare senza freno?”» «Un anziano a Scete che era molto resistente alla fatica fisica, ma non molto preciso nel ricordare le parole, si recò da abba Giovanni Nano per interrogarlo sulla dimenticanza. E dopo aver udito da lui una parola, ritornò alla sua cella; si dimenticò però ciò che gli aveva detto abba Giovanni e si recò di nuovo a interrogarlo…» «Raccontarono di un anziano che un giorno provò il desiderio di mangiare un piccolo cetriolo»…1

Nei racconti dei Padri del deserto mi piacciono moltissimo i particolari di contorno o, più esattamente, le circostanze, i dialoghi, le battute che servono a introdurre il tema morale che il racconto svolge e «risolve». Mi piacciono perché sono frammenti che possono essere trasportati di peso dal IV al XXI secolo, sono situazioni familiari – «come comporta la natura umana», dice splendidamente san Girolamo – che si ripetono con minime variazioni lungo la scarpata dei secoli (il che è confortante e sconfortante al tempo stesso): tristezze, insofferenze, dimenticanze, risposte brusche, piccole voglie, pigrizie, stanchezze: un tappeto sempre calpestato e sempre ritessuto.

Ai Padri si chiede la parola che salva, li si ascolta e li si guarda colmi di ammirazione, ci si congeda da loro «edificati», ma i miei veri fratelli sono quelli che si addormentano mentre l’abba parla nel cuore della notte.

Per la cronaca occorre aggiungere che il monaco citato in apertura, che cedette al fresco richiamo delle acque del Nilo, venne poi assalito da «una bestia feroce chiamata coccodrillo». Un anziano che passava di lì, visto lo scempio, chiese al coccodrillo perché avesse mangiato un monaco, e «la bestia gli disse con voce umana: “Io non ho mangiato un abba, ma ho trovato un secolare e l’ho mangiato: il monaco eccolo là”. E accennava all’abito».

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  1. Le citazioni sono tratte da: I Padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, introduzione, traduzione e note a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2013.

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Sempre loro, i Padri del deserto

Prendo sempre tutte le edizioni in cui mi imbatto (diciamo compatibilmente con le lingue che conosco e nei limiti di spesa): vecchi volgarizzamenti e nuove traduzioni, raccolte filologiche, scelte tematiche e per così dire d’autore1 o piccoli libretti da portarsi dietro – non importa, tutte, sempre; fino a quando i Padri del deserto non saranno diventati dei parenti lontani, una banda di vecchi amici un po’ strani, una schiera di venerati maestri, vestigia di una specie aliena capitata sulla terra, una manica di vecchi pazzi seminudi e irsuti che sorprendono, divertono, scandalizzano e insegnano. Così, mentre fai quello che puoi, ogni tanto senti la loro voce spezzata dai digiuni e intravedi i loro occhi lucidi di veglie disumane.

Così, ti capita di sentire l’abate Longino che dice: «Il mio terzo progetto è di fuggire lo sguardo degli uomini», e l’abate Lucio rispondergli: «Se non cerchi prima di correggerti in mezzo a loro, non è abitando solo che potrai correggerti». Oppure un anziano che dice: «Se ti si parla di qualcosa, non discutere. Se è bene, di’: “Va bene”. Se è male, di’: “A te giudicare!”. Ma non intervenire in nessuna discussione».

E spesso ti capita anche di vederli, mentre passano le loro giornate a intrecciare foglie di palma e si mettono alla prova, come in questa storiella, così bella e perfetta che merita di essere riportata per intero (con una sola minima variante di traduzione).

Due anziani vissero insieme molti anni e non litigarono mai. Uno disse all’altro: «E se una volta litigassimo, come fanno tutti?». Il fratello rispose: «Non so come si fa». L’altro disse: «Ecco, metto una pietra fra noi e dico: “È mia”, e tu mi devi dire: “No, è mia!”. È così che comincia una lite». Posero dunque un sasso tra loro. Uno disse: «È mio». E l’altro: «No, è mio». Il primo rispose: «Sì, è tuo; prendilo dunque e vai tranquillo». Così si separarono senza essere riusciti a litigare.

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  1. Detti e fatti dei Padri del deserto, a cura di C. Campo e P. Draghi, Rusconi 1975. Le citazioni si trovano rispettivamente alle pp. 105, 156 e 160.

 

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Citazioni, confessioni

Una cosa di sicuro mi ha insegnato la lettura degli scritti dei monaci: tutte le frasi che mi colpiscono di più sono lo specchio in cui più chiaramente si riflettono i miei «peccati». E, forse, non saprei indicare specchio più limpido dei detti dei Padri del deserto.

Così, quando sono arrivato a pagina 63 di questa ennesima edizione che mi sono portato a casa1, e che leggo come se fosse la prima volta che avvicino Antonio, Poemen, Macario e soci, ho consumato tutte le matite rosse e blu e gli evidenziatori che avevo a disposizione.

Si domandò ad abba Elia: «Con che cosa saremo salvati in questi tempi?». Egli rispose: «Ci salveremo per il fatto di non avere stima di noi stessi».

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  1. Detti e fatti dei Padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero Draghi, Rusconi 1975.

 

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Sfere, non cubi (Dice il monaco, XXXII)

Dice Matoes, Padre del deserto:

Un fratello chiese al padre Matoes: «Che devo fare? La mia lingua mi è causa di afflizione: quando giungo in mezzo agli altri, non riesco a trattenerla, ma in ogni loro buona azione trovo da giudicarli e accusarli. Che devo dunque fare?». L’anziano gli rispose: «Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti. Chi vive con dei fratelli , non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti». E disse: «Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vivono in mezzo agli uomini».

Detti dei Padri del deserto, serie alfabetica, Matoes, 13 (questo e il precedente appunto mi sono stati suggeriti dalla lettura dell’articolo di Lisa Cremaschi, Il desiderio dell’armonia con tutto il creato nei Padri del deserto, «Ora et Labora» LXX [2015], 1).

 

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Colpo di scena

Dai, giochiamo un po’: con le storielle dei Padri del deserto è facile, sono sempre così vivide, ed è peccato veniale.

Allora, c’è questo giovanotto bello deciso: Basta, proclama, rinuncio al mondo, vado nel deserto. Vede una cella a forma di torre e si dice: Okay, chiunque vi abiti, voglio servirlo, punto. Va, bussa, esce un monaco anziano, «che gli disse: “Che vuoi?”»

Il giovane non si scompone: Ho fatto un voto, dice.

Vabbè, risponde l’anziano, mangia qualcosa e poi mi racconti.

No, niente, ribatte l’aspirante monaco, voglio restare qui.

Mi sa ch’è meglio di no, risponde il vecchio. Colpo di scena: «Se vuoi riceverne beneficio, vai in un monastero, perché io sto con una donna».

Il giovane non si sposta di un millimetro: Non m’interessa, moglie o sorella, io qui resto, come vostro servitore.

Passa un po’ di tempo, il giovane fa tutto quello che deve, senza fiatare, finché i due conviventi si confrontano: Oh, già viviamo nel peccato, ci tocca pure avere sulla coscienza questo qui. Raccattiamo qualcosa e teliamo.

Seeenti, esordisce l’anziano, «noi andiamo ad adempiere un voto, e tu custodiscici la cella». Ma dopo cinque minuti il giovane capisce l’inganno e li insegue. «Quelli, al vederlo, restarono sconvolti e dissero: “Fino a quando sarai per noi una condanna? Hai la cella, stai lì e bada a te stesso.» Quell’altro niente, di ferro: «Io non sono venuto per la cella, ma per servirvi». E te pareva.

Questo non ce lo leviamo più di torno, ma… «a queste parole, furono presi da compunzione e decisero di tornare a Dio con la penitenza. Allora, la donna se ne andò in un monastero, e l’anziano ritornò alla sua cella. Così, per la pazienza del fratello, si salvarono entrambi».

(Qualche corsivo impertinente aggiunto a Everghetinós, 27, 3, in: Paolo Everghetinós, Esempi e parole dei santi Padri teofori, volume I, a cura di M.B. Artioli, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia 2012, pp. 270-71.)

 

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