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Tre brevissime lezioni e mezza

Prima lezione. C’era un anacoreta che voleva andare a trovare Poimen per via della sua fama: un sapiente, col quale potrò parlare a un certo livello, pensava. Ci si fa accompagnare da un fratello, entra da abba P e attacca a parlare «di cose spirituali e celesti». E abba P niente, si volta pure dall’altra parte. L’anacoreta, scornato, esce e dice al fratello: son venuto per niente, non parla. Allora il fratello entra nella cella di Poimen e gli fa: che c’è abba P? Questo è venuto apposta per te, perché non gli parli? Così risponde Poimen: «Egli è di lassù e parla di cose celesti, mentre io sono di quaggiù e parlo di cose terrestri. Se mi avesse parlato delle passioni dell’anima, gli avrei risposto; ma se mi parla di cose spirituali, io non ne so nulla». Prima lezione: parlare soltanto di ciò che si conosce.

Seconda lezione. Un giovane andò a vivere con Teodoro, per essergli utile e imparare qualcosa. Ma quello non gli diceva mai niente e non si faceva aiutare: abba T, fai tutto tu, non mi dai niente da fare, perché? Ancora niente, sempre niente. Allora il giovane chiede agli anziani: sono andato da abba T, ma è come se non mi vedesse nemmeno… Gli anziani vanno da Teodoro a chiedere spiegazioni e lui risponde così: «Sono forse il superiore di un cenobio, da dargli ordini? Finora non gli ho detto nulla, ma, se vuole, può fare anche lui ciò che vede fare da me». Seconda lezione: insegnare, se mai, con l’esempio.

Terza lezione. Un anziano di Scete era ancora molto forte, «ma non molto preciso nel ricordare le parole». Va da Giovanni Kolobos, quello gli dice qualcosa, lui torna nella sua cella e non se lo ricorda più; ritorna da Giovanni, ascolta, back to the cella, zac, dimenticato. Repeat. Alla fine lascia perdere. Dopo un po’ incontra Giovanni e gli fa: «Abba G, sai che mi sono di nuovo dimenticato ciò che mi avevi detto, ma per non disturbarti non sono più venuto». Allora Giovanni gli dice di prendere una lucerna e di accenderla, poi di portarne altre dieci e di accenderle con la prima. «Forse che la lucerna ha subito qualche danno per il fatto che da essa hai acceso le altre lucerne?» chiede Giovanni. No, vero? E conclude: «Così neanche Giovanni: anche se l’intera Scete venisse da me, non mi sarebbe di ostacolo alla grazia di Dio. Perciò vieni quando vuoi, senza farti alcuno scrupolo». Terza lezione: condividere sempre la conoscenza, che non si consuma.

Terza lezione e mezza: accettare le lezioni1.

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  1. Spunti da Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2001.

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Un piccolo cetriolo

«Un fratello, mentre attraversava il deserto in direzione di Scete, arrivò al fiume Nilo e, poiché era affaticato dal cammino ed era ormai l’ora della grande calura, si spogliò dei suoi vestiti e scese per fare il bagno.» «Un giorno un fratello chiese qualcosa a un diacono, e questi gli disse: “Adesso non ho tempo!”» «Un anziano aveva un discepolo provato e un giorno, per un moto di insofferenza lo cacciò fuori.» «Una volta, mentre parlavo di ciò che è utile ad alcuni fratelli, sprofondarono in un sonno così profondo che non riuscivano più a muovere neanche le palpebre.» «Una volta gli capitò di essere un po’ trascurato.» «I padri dicevano che una volta, mentre i fratelli mangiavano durante un’agape fraterna, un fratello si mise a ridere.» «Un fratello interrogò abba Poimen dicendo: “Che cosa devo fare? Quando sto seduto nella cella sono preso dallo sconforto”.» «Gli dissero: “Abba, come fai a sopportare questi bambini senza ordinare loro di smettere di parlare senza freno?”» «Un anziano a Scete che era molto resistente alla fatica fisica, ma non molto preciso nel ricordare le parole, si recò da abba Giovanni Nano per interrogarlo sulla dimenticanza. E dopo aver udito da lui una parola, ritornò alla sua cella; si dimenticò però ciò che gli aveva detto abba Giovanni e si recò di nuovo a interrogarlo…» «Raccontarono di un anziano che un giorno provò il desiderio di mangiare un piccolo cetriolo»…1

Nei racconti dei Padri del deserto mi piacciono moltissimo i particolari di contorno o, più esattamente, le circostanze, i dialoghi, le battute che servono a introdurre il tema morale che il racconto svolge e «risolve». Mi piacciono perché sono frammenti che possono essere trasportati di peso dal IV al XXI secolo, sono situazioni familiari – «come comporta la natura umana», dice splendidamente san Girolamo – che si ripetono con minime variazioni lungo la scarpata dei secoli (il che è confortante e sconfortante al tempo stesso): tristezze, insofferenze, dimenticanze, risposte brusche, piccole voglie, pigrizie, stanchezze: un tappeto sempre calpestato e sempre ritessuto.

Ai Padri si chiede la parola che salva, li si ascolta e li si guarda colmi di ammirazione, ci si congeda da loro «edificati», ma i miei veri fratelli sono quelli che si addormentano mentre l’abba parla nel cuore della notte.

Per la cronaca occorre aggiungere che il monaco citato in apertura, che cedette al fresco richiamo delle acque del Nilo, venne poi assalito da «una bestia feroce chiamata coccodrillo». Un anziano che passava di lì, visto lo scempio, chiese al coccodrillo perché avesse mangiato un monaco, e «la bestia gli disse con voce umana: “Io non ho mangiato un abba, ma ho trovato un secolare e l’ho mangiato: il monaco eccolo là”. E accennava all’abito».

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  1. Le citazioni sono tratte da: I Padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, introduzione, traduzione e note a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2013.

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Sempre loro, i Padri del deserto

Prendo sempre tutte le edizioni in cui mi imbatto (diciamo compatibilmente con le lingue che conosco e nei limiti di spesa): vecchi volgarizzamenti e nuove traduzioni, raccolte filologiche, scelte tematiche e per così dire d’autore1 o piccoli libretti da portarsi dietro – non importa, tutte, sempre; fino a quando i Padri del deserto non saranno diventati dei parenti lontani, una banda di vecchi amici un po’ strani, una schiera di venerati maestri, vestigia di una specie aliena capitata sulla terra, una manica di vecchi pazzi seminudi e irsuti che sorprendono, divertono, scandalizzano e insegnano. Così, mentre fai quello che puoi, ogni tanto senti la loro voce spezzata dai digiuni e intravedi i loro occhi lucidi di veglie disumane.

Così, ti capita di sentire l’abate Longino che dice: «Il mio terzo progetto è di fuggire lo sguardo degli uomini», e l’abate Lucio rispondergli: «Se non cerchi prima di correggerti in mezzo a loro, non è abitando solo che potrai correggerti». Oppure un anziano che dice: «Se ti si parla di qualcosa, non discutere. Se è bene, di’: “Va bene”. Se è male, di’: “A te giudicare!”. Ma non intervenire in nessuna discussione».

E spesso ti capita anche di vederli, mentre passano le loro giornate a intrecciare foglie di palma e si mettono alla prova, come in questa storiella, così bella e perfetta che merita di essere riportata per intero (con una sola minima variante di traduzione).

Due anziani vissero insieme molti anni e non litigarono mai. Uno disse all’altro: «E se una volta litigassimo, come fanno tutti?». Il fratello rispose: «Non so come si fa». L’altro disse: «Ecco, metto una pietra fra noi e dico: “È mia”, e tu mi devi dire: “No, è mia!”. È così che comincia una lite». Posero dunque un sasso tra loro. Uno disse: «È mio». E l’altro: «No, è mio». Il primo rispose: «Sì, è tuo; prendilo dunque e vai tranquillo». Così si separarono senza essere riusciti a litigare.

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  1. Detti e fatti dei Padri del deserto, a cura di C. Campo e P. Draghi, Rusconi 1975. Le citazioni si trovano rispettivamente alle pp. 105, 156 e 160.

 

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Citazioni, confessioni

Una cosa di sicuro mi ha insegnato la lettura degli scritti dei monaci: tutte le frasi che mi colpiscono di più sono lo specchio in cui più chiaramente si riflettono i miei «peccati». E, forse, non saprei indicare specchio più limpido dei detti dei Padri del deserto.

Così, quando sono arrivato a pagina 63 di questa ennesima edizione che mi sono portato a casa1, e che leggo come se fosse la prima volta che avvicino Antonio, Poemen, Macario e soci, ho consumato tutte le matite rosse e blu e gli evidenziatori che avevo a disposizione.

Si domandò ad abba Elia: «Con che cosa saremo salvati in questi tempi?». Egli rispose: «Ci salveremo per il fatto di non avere stima di noi stessi».

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  1. Detti e fatti dei Padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero Draghi, Rusconi 1975.

 

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Sfere, non cubi (Dice il monaco, XXXII)

Dice Matoes, Padre del deserto:

Un fratello chiese al padre Matoes: «Che devo fare? La mia lingua mi è causa di afflizione: quando giungo in mezzo agli altri, non riesco a trattenerla, ma in ogni loro buona azione trovo da giudicarli e accusarli. Che devo dunque fare?». L’anziano gli rispose: «Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti. Chi vive con dei fratelli , non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti». E disse: «Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vivono in mezzo agli uomini».

Detti dei Padri del deserto, serie alfabetica, Matoes, 13 (questo e il precedente appunto mi sono stati suggeriti dalla lettura dell’articolo di Lisa Cremaschi, Il desiderio dell’armonia con tutto il creato nei Padri del deserto, «Ora et Labora» LXX [2015], 1).

 

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Colpo di scena

Dai, giochiamo un po’: con le storielle dei Padri del deserto è facile, sono sempre così vivide, ed è peccato veniale.

Allora, c’è questo giovanotto bello deciso: Basta, proclama, rinuncio al mondo, vado nel deserto. Vede una cella a forma di torre e si dice: Okay, chiunque vi abiti, voglio servirlo, punto. Va, bussa, esce un monaco anziano, «che gli disse: “Che vuoi?”»

Il giovane non si scompone: Ho fatto un voto, dice.

Vabbè, risponde l’anziano, mangia qualcosa e poi mi racconti.

No, niente, ribatte l’aspirante monaco, voglio restare qui.

Mi sa ch’è meglio di no, risponde il vecchio. Colpo di scena: «Se vuoi riceverne beneficio, vai in un monastero, perché io sto con una donna».

Il giovane non si sposta di un millimetro: Non m’interessa, moglie o sorella, io qui resto, come vostro servitore.

Passa un po’ di tempo, il giovane fa tutto quello che deve, senza fiatare, finché i due conviventi si confrontano: Oh, già viviamo nel peccato, ci tocca pure avere sulla coscienza questo qui. Raccattiamo qualcosa e teliamo.

Seeenti, esordisce l’anziano, «noi andiamo ad adempiere un voto, e tu custodiscici la cella». Ma dopo cinque minuti il giovane capisce l’inganno e li insegue. «Quelli, al vederlo, restarono sconvolti e dissero: “Fino a quando sarai per noi una condanna? Hai la cella, stai lì e bada a te stesso.» Quell’altro niente, di ferro: «Io non sono venuto per la cella, ma per servirvi». E te pareva.

Questo non ce lo leviamo più di torno, ma… «a queste parole, furono presi da compunzione e decisero di tornare a Dio con la penitenza. Allora, la donna se ne andò in un monastero, e l’anziano ritornò alla sua cella. Così, per la pazienza del fratello, si salvarono entrambi».

(Qualche corsivo impertinente aggiunto a Everghetinós, 27, 3, in: Paolo Everghetinós, Esempi e parole dei santi Padri teofori, volume I, a cura di M.B. Artioli, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia 2012, pp. 270-71.)

 

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Solo vederti

I pochi avvenimenti concreti del deserto dei Padri sono fonte inesauribile di letture simboliche. La pozza fangosa, la morte di un asino, le canne mosse dal vento… «altrettanto accade per le cose dell’anima»: un semplice giro di parole semplici e l’insegnamento è servito.

«Il padre Antonio disse: “Colui che batte un blocco di ferro, prima pensa a quel che vuole farne; se una falce, o una spada, o una scure. E anche noi dobbiamo sapere a quale virtù tendiamo, se non vogliamo faticare invano”.» Dall’umano al divino.

A me tuttavia piace, per così dire, tornare all’umano, anche tra quegli scontrosi digiunatori. Come i tre anziani che ogni anno andavano dal padre Antonio e lo subissavano di domande, sui pensieri, sulle tentazioni, sulla salvezza, su cosa devo fare. Per l’esattezza, erano soltanto in due a chiedere, «il terzo, invece, sempre taceva e non chiedeva nulla. Dopo lungo tempo, il padre Antonio gli dice: “È tanto ormai che vieni qui e non mi chiedi nulla”. Gli rispose: “A me, padre, basta il solo vederti”.»

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Per giunta

Ho letto un altro reportage sui Padri del deserto, quello del simpatico Rufino di Concordia (oggetto di «una doverosa, se pur tardiva, rivalutazione», dice il curatore). C’è molta discussione sulla reale paternità della Historia monachorum che gli viene accreditata, ma ovviamente il testo non perde di interesse per questo. Anche perché è uno dei rari casi in cui viene data notizia delle difficoltà incontrate per andare a intervistare quei «pazzoidi» chiusi in qualche grotta del deserto egiziano. Rufino, che fu in Egitto intorno al 374, riferisce infatti nell’epilogo «dei pericoli del viaggio verso gli eremi». (Nota pifferesca: le citazioni sono ritoccate su uno degli originali latini, visto che la versione italiana appare qua e là un po’ prodiga di «arricchimenti».) Ne fa proprio un elenco.

Che comincia con la «stanchezza mortale», e prosegue con la durezza del terreno, costellato di punte aguzze («umore salmastro» solidificato) che se mettono a dura prova i «buoni sandali», figuriamoci i nudos pedes. E poi le acque stagnanti del Nilo esondato, i predoni dal mare, il vento e infine «l’ottavo, il più grave», e cioè i coccodrilli (crocodili), sdraiati intorno a una pozza nell’ora più calda, perfettamente immobili. «Noi», dice Rufino, «non eravamo a conoscenza della loro maniera di fare [e] ci avvicinammo per vedere e ammirare la dimensione di quelle bestie che ritenevamo morte. Ma bastò lo scalpiccio dei nostri piedi perché esse lo avvertissero, balzassero su e ci venissero addosso.» Invocazione immediata al Signore: i coccodrilli si ributtano nello stagno e «noi ce la demmo a gambe, correndo verso il monastero»…

L’«intervista» più interessante è forse la prima, quella a Giovanni eremita (di Licopoli), di cui scrive anche Palladio nella sua Storia Lausiaca, riferendo le seguenti parole del sant’uomo: «Da quarantotto anni mi trovo in questa cella: non ho visto volto di donna, non immagine di moneta; non ho visto essere umano in atto di masticare; nessuno ha veduto me in atto di mangiare o di bere» (35, 13). Quando Rufino e i suoi compagni si presentano, Giovanni, ormai novantenne, si dichiara molto sorpreso che si siano dati pena di affrontare «un viaggio tanto faticoso» per incontrare proprio lui: «Siamo uomini come tutti gli altri, modesti, insignificanti, che nulla hanno in sé che possa essere desiderato o ammirato». Ma poi parla diffusamente, dilungandosi soprattutto sulle tentazioni, sulla distrazione dei pensieri, sulla tirannia delle passioni, sulla necessità di «svuotarsi» per far posto a Dio.

E infine racconta tre storie, di suoi «colleghi», la prima delle quali è fantastica e narra di un monaco, insuperbito dalla sua santità, che una sera riceve una visita «di una donna di splendido aspetto». È tardi, la giornata è stata dura, lei è molto stanca, teme le bestie feroci (non a torto…): «Consentimi di riposare in un angolino della tua cella». Il monaco, compassionevole, l’accoglie. Iniziano a parlare, com’è come non è, e «il veleno delle moine femminili frattanto prende il sopravvento». Adesso ridono, anche, e la donna «stende la mano a carezzare il mento e la barba veneranda del vecchio; procace, invece che in atteggiamento di venerazione!» E non si ferma, «tum vero palpare cervicem mollius, collumque levigare»…

È inutile tirarla per le lunghe, racconta Giovanni, «fatiche trascorse, propositi di santità, sono tutti dimenticati in un attimo». Siamo a un passo dagli «obscoenos complexus», ed ecco che «quella manda un grido enorme, con voce orrenda, [… e] si sottrae rapidamente all’amplesso di lui; che inseguiva vane parvenze con moti indegni; lo pianta lì in tronco e per giunta con scherno sgradevolissimo». Allora balza fuori la «truppa dei demoni» e si mette a sfotterlo, e il monaco perde la testa. Non si risolleverà più dal colpo; avrebbe dovuto piangere, pentirsi e riprendere a combattere, «ma non fu così»… e si lasciò andare.

Rufino di Concordia, Storia di monaci, a cura di G. Trettel, Città Nuova 1991.

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Paura e amore

1. Una storia de’ paura. Deciso ad abbandonare il mondo, un anacoreta si addentrò nel deserto del Sinai. Arrivato a una grotta, vide all’interno un uomo seduto. Bussò, «secondo l’usanza dei monaci», e aspettò che l’altro uscisse a salutarlo. Niente. Allora, «senza esitare, entrò e lo prese per una spalla; egli subito si dissolse e divenne polvere».

2. Una storia d’amore. Dopo qualche giorno, il suddetto anacoreta incontra  un altro sant’uomo. Gli chiede come va e costui gli racconta la storia della sua fuga dal mondo. Stava in un cenobio e tesseva il lino. Guadagnava bene e dava tutto in beneficenza. Poi aveva fondato un monastero suo e l’attività era cresciuta. Finché un giorno era arrivata una vergine e gli aveva commissionato un lavoro. E poi un altro, e un altro ancora. In breve, «ne derivò una consuetudine, quindi una maggior confidenza, infine anche il contatto delle mani, il riso e il mangiare insieme».

Io mi fermo qui. L’anacoreta non può, perché ovviamente c’è di mezzo il diavolo, e perciò, «dopo aver portato in seno la passione, partorimmo l’iniquità».

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