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Anche soltanto per un capello (Monachesimo di Gaza e direzione spirituale, pt. 3/3)

(la prima parte è qui, la seconda qui)

NecessitaDelConsiglioLa risposta più ovvia dei Grandi Anziani del monachesimo di Gaza (Barsanufio e Giovanni), alla «domanda cruciale» – «Come so che sto facendo la volontà di Dio, invece della mia?» – è: Perché ho chiesto consiglio, ho chiesto cosa fare e ho fatto quello che mi è stato detto. Si è chiesto dunque al padre spirituale, a persona esperta, pronti a eseguire quanto suggerito, badando tuttavia a distinguere tra consiglio, che non comporta obbligazione ma, semmai, rimorso, e comandamento, che rappresenta invece una prescrizione inderogabile, e quindi un eventuale peccato di omissione, in virtù del fatto che a parlare per bocca dell’anziano è Dio stesso. La materia della direzione spirituale, vista da una prospettiva odierna, è delicata, oggetto di ripensamento dalle stesse persone di religione, intrecciata com’è a dinamiche psicologiche non sempre limpide e difficili da districare.

E se invece non si è potuto chiedere? In questo caso la risposta, ad esempio quella di Giovanni di Gaza1, si articola in tre parti. Le prime due, poco importa che siano dedicate alla condizione di monaco, sono semplici, e tuttavia difficili da accogliere oggi, per lo meno nel loro «integralismo». Se si è soli (nella propria cella), l’importante è rifuggire il piacere, «perché la volontà della carne è di ottenere il piacere in ogni cosa»; se invece si è in mezzo agli altri (confratelli), bisogna «morire al loro sguardo, stare in mezzo a loro come se non si esistesse»; come distinguere, infine, le risposte che provengono dai demoni? Qui le poche parole di Giovanni sono per così dire una lama ancor oggi affilatissima: «La volontà che viene dai demoni, invece, è la mania di giustificarsi e di riporre fiducia in se stessi, nella quale si finisce per rimanere intrappolati» (Lettera 173). Come non riconoscere la pretesa di essere nel giusto (non sto facendo nulla di male, io ho agito correttamente) e l’eccessiva sicurezza di sé, che sconfina nell’autocompiacimento (come sono bravo & co.)? E se la sorgente di queste suggestioni, come oggi è risaputo, non è esterna, bensì è dentro di me, non è ancor peggio?

La forma precipua della domanda che, in assenza dell’anziano, si rivolge a Dio è quella della preghiera, «oggetto» ai miei occhi complicatissimo quanto più se ne cerca la definizione. Le indicazioni di Giovanni sono tuttavia interessanti. Quante volte si deve pregare per ottenere l’ispirazione giusta? «Quando non puoi interrogare l’Anziano, devi pregare tre volte per ogni questione, poi osservare dove inclina il cuore, anche soltanto per un capello, e agire. Perché l’ispirazione è chiara ed è chiaramente riconoscibile nel cuore» (Lettera 365). E quando si deve farlo? «Se hai tempo, prega tre volte in tre giorni diversi. Ma se c’è un’urgenza, prendi a modello il Salvatore che, nell’ora del tradimento – circostanza assai dura da sopportare – si è fatto da parte tre volte e ha pronunciato la stessa preghiera.» E se non si viene ascoltati? In fondo anche Gesù non lo è stato… «E se evidentemente non è stato ascoltato, poiché il disegno divino doveva compiersi, ciò è accaduto per insegnarci a non rattristarci quando preghiamo e non veniamo esauditi nell’immediato; perché Egli conosce meglio di noi ciò che è bene per noi» (Lettera 366). E se comunque la risposta tarda a manifestarsi? «Se dopo la terza preghiera l’ispirazione non arriva, sappi che è colpa tua: se non vedi il peccato, incolpa te stesso e Dio avrà pietà di te» (Lettera 367).

È un meccanismo logico blindato, si potrebbe dire, in virtù del quale Colui al quale si rivolgono le proprie invocazioni «ha sempre ragione». Ma questa osservazione deriva dall’applicazione di un criterio razionale a una circostanza che non rientra nel dominio del razionale, e occorre essere disposti a riconoscere che tale dominio non sia l’unico campo di manifestazione della realtà.

Ho tardato a concludere queste note perché questo è lo scalino sul quale regolarmente inciampo.

(3-fine)

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  1. Queste note, come le precedenti, derivano dalla lettura di Lorenzo Perrone, La necessità del consiglio. Studi sul monachesimo di Gaza e la direzione spirituale, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2021. Le citazioni dai Grandi Anziani sono tratte da Barsanuphe et Jean de Gaza, Correspondance, texte critique, notes et index par F. Neyt et P. de Angelis-Noah, traduction par L. Regnault, Editions du Cérf; vol. I: Aux solitaires, t. 2 (1998; «Sources Chrétiennes», 427); vol. II: Aux cénobites, t. 1, (2000 «Sources Chrétiennes», 450).

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Un ineludibile e vincolante rapporto con l’altro (Monachesimo di Gaza e direzione spirituale, pt. 2/3)

(la prima parte è qui)

NecessitaDelConsiglioMolti sono i punti decisivi che emergono dall’insegnamento dei grandi Anziani o Reclusi del monachesimo di Gaza, Barsanufio e Giovanni, pur nel quadro di un’impostazione individuale dei problemi che di volta in volta vengono proposti; anzi, forse è proprio in ragione di questo «quadro» – la risposta fornita da un singolo individuo, per quanto in posizione avanzata sulla strada verso la… «perfezione», alla domanda posta da un altro singolo individuo – che l’insegnamento affronta snodi cruciali, con quella che si potrebbe chiamare «ricaduta collettiva»: l’attuazione di questi comportamenti spingendo al riconoscimento della sostanza dialogica dell’essere al mondo.

Si diceva dell’inaggirabile necessità del consiglio, ad esempio, ecco, «per Barsanufio e Giovanni di Gaza», sottolinea Lorenzo Perrone1, «il compimento della vocazione monastica si gioca proprio in questo rapporto con l’autorità e il consiglio dei padri, che mette in luce il requisito indispensabile per ogni itinerario di perfezione – l’umiltà – e al tempo stesso traduce l’adesione alla carità evangelica nella forma di un ineludibile e vincolante rapporto con l’altro». Il corsivo, mio, apre, secondo me, il discorso anche a una dimensione che non sia quella dell’itinerario di perfezione, ma si contenti di un obiettivo assai più modesto di… (che parola mettere qui?)… decenza. Non si può far da soli; anzi, l’autarchia è «insidia demoniaca». «La pseudoscienza», avverte Giovanni, «consiste nel fidarsi del proprio pensiero che una cosa sta così: chi vuole esserne liberato, non si fidi del proprio pensiero ma interroghi un anziano.» Non solo, perché «se l’anziano risponde e la sua risposta corrisponde a quello che pensava il fratello, nemmeno allora deve credere al proprio pensiero, ma dire: I demoni si sono beffati di me…» per farmi credere di essere sufficiente a me stesso. In questa alternativa inconciliabile «sta e cade per i due maestri di Gaza la scelta monastica, e la stessa professione di cristianesimo»: orgoglio o umiltà, far da sé o affidarsi, contare sulle proprie forze o «aggrapparsi al sostegno di un fratello, pur sapendo che anche questi partecipa dell’umana debolezza».

C’è forse scelta più «fuori moda» di questa, più impervia? Quante volte sono stato e sono capace di ammettere di non capire, di non vedere correttamente, di non essere in grado di distinguere «che cosa è giusto per me»? Quante volte sono stato e sono disposto al «taglio della volontà propria»? E alla luce di cosa ho rivendicato le mie scelte? (Quale sia poi il «campo» entro il quale si esercitino effettivamente queste scelte, se sia un campo di libertà o di pseudolibertà, è questione cui non sono in grado di rispondere, essendo dentro tale campo.)

Rimanendo per il momento al di qua dell’alternativa, uno dei primi requisiti in vista di quel taglio «consiste nello spezzare il circuito di un’interiorità esclusiva e ripiegata su se stessa per aprirla all’osservazione e al controllo di un’istanza esterna» (ogni riferimento all’istanza psicoanalitica di qualche secolo successiva non è casuale). Al padre spirituale occorre aprirsi completamente, senza la minima reticenza, in un rapporto di intimità che «è una palese compensazione per ciò che si presenta paradossalmente come un programma di annichilimento di sé» (Perrone). La rinuncia di sé, praticata nell’apertura al padre spirituale (all’altro tout court?), «è in primo luogo l’attuazione e il mantenimento di un atteggiamento amorevole verso il proprio prossimo». Perché il prossimo non è colui che noi dobbiamo aiutare, bensì colui che può aiutare noi. Troppo difficile, troppo.

Senza contare che nell’insegnamento dei padri di Gaza questa condotta, in sostanza, assume una dimensione globale: a essa bisogna tendere sempre. Mai fare la propria volontà, bensì «sia fatta sempre la Tua volontà». Ben vengano allora le domande, incalzanti, che un altro anziano rivolge a Giovanni: «Come posso sapere, padre, in cella, se recido la mia volontà, e ugualmente quando sono con gli uomini? E cos’è la volontà carnale? E la volontà che viene dai demoni, sotto apparenza di bene? E la volontà di Dio?»

Anche il professor Perrone si associa: «“Come so che sto facendo la volontà di Dio invece della mia?” Questa è senz’altro la domanda cruciale».

(2-segue)

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  1. Lorenzo Perrone, La necessità del consiglio. Studi sul monachesimo di Gaza e la direzione spirituale, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2021.

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Perché piangi? (Monachesimo di Gaza e direzione spirituale, pt. 1/3)

NecessitaDelConsiglio«Il monachesimo di Gaza è ormai scomparso da tempo immemorabile», scrive Lorenzo Perrone, docente di Storia del Cristianesimo, e di discipline consimili, e curatore di importanti edizioni di scrittori cristiani delle origini, «ma di una “scuola di cristianesimo” di tal fatta c’è sempre, credo, molto da imparare ancora ai giorni nostri.» Non potrei essere più d’accordo, anche laddove mi azzardassi a sostituire «scuola di cristianesimo» con «scuola di umanità». Se è vero che non si può prescindere da un contesto di fede per comprendere correttamente le sue figure più rappresentative, Barsanufio e Giovanni di Gaza (senza dimenticare Doroteo, sempre di Gaza), nondimeno la «sapienza psicologica» dei due Anziani può, credo, essere di grande ispirazione anche al di fuori di quel contesto. Diciamo, forse meglio, che io, pur sprovvisto di fede, ho trovato di clamoroso interesse tale sapienza, tramandata dall’Epistolario dei due «reclusi» e alla scoperta della quale mi stanno accompagnando i saggi che il professor Perrone ha recentemente raccolto in volume1.

Lo stesso professore, peraltro, ribadisce che «le voci dei monaci di Gaza sono a mio giudizio tra quelle che meglio hanno interpretato, al di là delle stesse cerchie monastiche a loro più affini e vicine, la stessa “quintessenza” del messaggio di Gesù Cristo». Ed è molto importante sottolineare le «voci» poiché, grazie alla loro struttura a domanda e risposta, dalle lettere di Barsanufio e Giovanni è come se ci giungesse proprio la loro voce, intenta a rispondere a centinaia di quesiti di varia natura posti da una schiera di persone di varia estrazione: una perfetta rappresentazione, una rappresentazione vivente, di quella dimensione tanto complicata, rischiosa e in qualche misura tutt’oggi urgente che è la direzione spirituale.

«Padre, che cosa devo fare?» Quand’anche volessimo, com’è giusto, modificare l’appello iniziale – padre, madre –, l’accento fondamentale resterebbe sull’eterno, necessario, inaggirabile (a meno di usare potenti anestetici) «che fare?». Domanda che rimanda, appunto, alla «necessità del consiglio», perché, come dice Barsanufio basandosi sulla Bibbia, «non c’è nessuno che non abbia bisogno di un consigliere, se non Dio che ha creato la sapienza». Una negazione dell’autosufficienza dell’individuo che porta, per così dire, dritti nel Novecento e oltre, quando, in assenza di Dio, o nell’ombra del suo allontanamento, il fondamento del «consiglio» diventa un problema che sono in grado soltanto di nominare. Mi limito qui a osservare che lo sbriciolamento del fondamento del consiglio non ne intacca tuttavia la necessità.

Prima di provare ad addentrarmi nei testi che illustrano la questione, mi preme tuttavia sottolineare il tono mite e dolce che pervade le testimonianze che più da vicino ci raccontano le dinamiche della direzione spirituale nell’esperienza dei monaci di Gaza. E per farlo mi appoggio a un episodio tratto dalla Vita di abba Dositeo di Doroteo di Gaza2 (sulla quale dovrò poi tornare estesamente).

Affidato alle cure di Doroteo, Dositeo è un giovane novizio pieno di entusiasmo che esegue in letizia tutto quello che il suo padre spirituale gli dice di fare, in particolare nel servizio di infermeria. Qualche volta però, essendo umano, perde la pazienza e magari sbotta con uno dei malati. Se ne pente all’istante e si chiude nella sua cella a piangere. Gli altri confratelli provano a consolarlo, inutilmente, e allora chiamano Doroteo, che lo raggiunge «e gli chiedeva: “Che c’è, Dositeo? Che cos’hai? Perché piangi?”. E Dositeo rispondeva: “Perdonami, carissimo! Sono andato in collera e ho trattato male un mio fratello”.» Doroteo lo rimprovera: non lo sai che se fai del male a un fratello lo fai a Cristo? Dositeo continua a piangere, in silenzio, ma «quando vedeva che aveva pianto abbastanza, Doroteo gli diceva: “Dio ti perdoni. Su, da questo momento ricominciamo. Impegniamoci per il futuro e Dio ci aiuterà”».

Ecco, a me sembra che il senso di tutto stia in quel «perché piangi?», in quel «pianto abbastanza» e infine in quel «su, ricominciamo».

(1-segue)

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  1. Lorenzo Perrone, La necessità del consiglio. Studi sul monachesimo di Gaza e la direzione spirituale, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2021.
  2. Doroteo di Gaza, Vita di abba Dositeo, 6, in Comunione con Dio e con gli uomini, a cura di Lisa Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2014, pp. 68-69.

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