(la prima parte è qui)
Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx1, infatti molte «ignorando o non prendendo sul serio il motivo di questa istituzione, ritengono che si sufficiente rinchiudere tra quattro pareti soltanto il loro corpo, lasciando invece che lo spirito sia libero di dissolversi in mille divagazioni», eccetera eccetera; e poi stanno sempre a parlare con qualche «vecchia garrula e pettegola», si fanno raccontare le cose del mondo e poi ci rimuginano, si figurano quanto hanno ascoltato, si preoccupano delle loro proprietà, dei soldi, scrivono lettere, fanno regalini o addirittura «mandano cinture e borse intessute e ricamate con colori variopinti a giovani monaci e chierici». Insomma, fanno entrare dalla finestra (quella maledetta finestra) quel mondo turpe che si sarebbero lasciato alle spalle, e con esso il Tentatore e il suo veleno. Anche le attività più apparentemente nobili sono pericolose, come occuparsi dell’insegnamento di ragazzi e ragazze, trasformando la cella in una scuola. La scena descritta da Aelredo merita di essere riportata per intero: «La reclusa siede alla finestra [appunto], mentre le ragazze si raggruppano nel portico [del chiostro, quindi]. Le guarda una a una, e secondo i loro comportamenti infantili, ora si adira, ora ride, ora minaccia, ora blandisce, ora picchia, ora bacia, ora tira vicina una che piange per essere stata castigata, le accarezza il volto, se la stringe al collo, la trascina a sé con abbracci, la chiama “figliola mia, tesoro”». Si guardi da tutto questo, la reclusa! Per le sue necessità si scelga «una donna anziana» e posata che faccia la guardia alla porta e che tenga al suo servizio «una ragazza più forte e capace di fare i lavori faticosi, che porti l’acqua e la legna, faccia cuocere le fave e gli ortaggi o, se una malattia lo richiede, prepari cibi più sostanziosi». Tu, mia amata sorella reclusa, sposa di Cristo, «tu sta seduta, sta zitta, aspetta».
Sistemati gli aspetti pratici (orari, lavoro manuale, letture, digiuni, abbigliamento), nella seconda parte Aelredo passa in rassegna la «disciplina interiore delle virtù». La verginità, anzitutto, il tesoro più prezioso, poi la castità (che non può prescindere dalle privazioni e dalle mortificazioni, che non devono spaventare, «come se la fiamma della libidine fosse più tollerabile dei bruciori di stomaco»), l’umiltà (occhio, che «c’è anche una sorta di vanità nel compiacersi di una cella curata con eleganza») e infine la carità. Ma come può la reclusa nella sua condizione esercitare l’amore per il prossimo? Con la volontà buona e con la preghiera: «Abbraccia dunque tutto il mondo nell’unico grembo dell’amore, e lì pensa a tutti quelli che sono buoni, e rendi grazie, e insieme guarda a quelli che sono cattivi, e piangi». L’unico modo santo in cui il mondo può rientrare nella cella è tramite l’orazione, che rappresenta la sola prospettiva dalla quale la monaca deve osservarlo e amarlo, senza distinzioni: i poveri, gli orfani, le vedove, i tristi, i pellegrini, le vergini, i naviganti, i monaci tentati, i prelati carichi di responsabilità, persino coloro che sono in guerra: tutti costoro sfilano in corteo nella preghiera della reclusa.
La terza e ultima parte della Regola accoglie tre meditazioni sui beni passati, presenti e futuri, o più esattamente attesi: tre testi molto belli che possono anche essere letti separatamente dal resto e che ebbero larga fortuna, tanto da essere attribuiti ad altri autori e da essere inseriti nella diffusissima raccolta di Meditazioni intestata a sant’Anselmo. Le meditazioni mirano a suscitare una serie di immagini capaci di accendere sentimenti di devozione e pietà, creando una «memoria affettiva» cui attingere durante la quotidiana lotta per la conquista delle virtù: un metodo che anch’esso avrà larga fortuna. Quella sul passato è una ricapitolazione dei principali episodi evangelici, durante la quale dobbiamo immaginarci testimoni diretti dei fatti, insieme con gli apostoli, col paralitico, con l’adultera o presenti all’ultima cena come quattordicesimi convitati. La seconda meditazione, rivolta al presente, è per così dire quella più autobiografica, in cui si passa in rassegna il bene che si è ricevuto e il male che si è fatto (e Aelredo confessa apertamente il suo), e la certezza che l’aiuto di Dio non mancherà mai a chi lo chieda. La terza meditazione si concentra infine sui cosiddetti «novissimi», cioè morte, giudizio, inferno e paradiso. Qui, se ripensiamo a quanto accennato sull’esperienza, possono sorgere dei problemi. Aelredo si affida, comprensibilmente, alla Scrittura, ma conclude la parte sull’«eterno riposo» che attende i beati con un commento molto significativo: «Per la verità, cosa sarà quel riposo, quella pace, quella felicità… la penna non lo può descrivere perché l’esperienza non l’ha ancora insegnato».
Similmente il paradiso si disegna al negativo, per tutto quello che in esso mancherà, che non è altro che ciò che affligge gli esseri umani, in sintesi: la vita, riassunta in un brutale elenco, non privo di un dettaglio inatteso: nessun lutto, o pianto, «o dolore, o timore, nessuna tristezza, nessuna discordia o invidia, nessuna tribolazione, nessuna tentazione, nessun cambiamento di tempo, né un cielo coperto di nuvole, nessun sospetto, né ambizione, né adulazione, né calunnia, nessuna malattia, né vecchiaia, né morte, non povertà, né tenebre, nessun bisogno di mangiare o bere o dormire, nessuna fatica, nessuna debolezza».
La formula con la quale Aelredo definisce il paradiso è memorabile: «Cosa sarà questo regno noi non riusciamo a immaginarlo, tanto meno a esprimerlo in parole o a metterlo per iscritto. Questo so, che niente mancherà di quello che tu desideri e che niente ci sarà che tu non voglia».
(2-segue)
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- Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.