«E allora io dove sarei?» (Who’s Who, XV; Augustine Roberts pt. 2)

Si diceva di Augustine Roberts, che così esordisce nella sua autobiografia1, in forma di lettere indirizzate al confratello Edward, dell’abbazia di Saint Joseph a Spencer, in Massachussetts: «La mia non è la storia di un tipico monaco trappista», a conferma di quanto appena espresso dalla presentazione del volume, e cioè che la sua vita di «monaco globale» rappresenta il «paradosso di un monaco che, radicato nel voto al suo monastero, diventa tuttavia un giramondo proprio in virtù di una totale obbedienza», e incarna «in modo del tutto inatteso la definizione di monaco preferita da Thomas Merton: un individuo che appartiene a chiunque e a qualsiasi luogo proprio perché non appartiene, nel senso comune del termine, a nessun posto o a nessuno in particolare».

Bruce (poi John, infine Augustine) Roberts nasce a Nanjing nel 1932, da William e Dorothy, due missionari della Protestant Episcopal Church, il ramo americano dell’Anglican Communion of Churches, che si erano conosciuti a Shanghai nel 1913, si erano osservati, fidanzati, sposati e quindi stabiliti a Nanjing, dove lui avrebbe svolto l’incarico di pastore per quindici anni, prima di diventare vescovo, nel 1936, della diocesi episcopale di Jiangsu (comprensiva di Shanghai e Nanjing). Quando il piccolo Bruce torna per la prima volta negli Stati Uniti si lamenta perché Lao nai-nai bu shuo zhong guo hua!, «la nonna non parla cinese!»

Gli anni della seconda guerra mondiale li passa nei pressi di Boston, con la madre (i quattro fratelli – Edith, Helen, Bill e John – sono già «rientrati» negli Stati Uniti, dove completeranno i loro studi), mentre il padre, rimasto in Cina, è internato in un campo di prigionia giapponese. I tre si riuniscono a Shanghai nel 1946. La prima «avvisaglia trappista» è il passaggio al cattolicesimo del fratello maggiore Bill, che nel 1947 si fa monaco. Il padre è spesso in viaggio e madre e figlio nel 1948 si spostano a Bejing. È in questo torno di tempo che Bruce Roberts ha i primi contatti con il mondo monastico (i resti di una comunità trappista, un monastero buddista): «Se ci ripenso, molti anni dopo, è chiaro che Dio aveva piantato nel mio cuore un seme monastico già nella prima adolescenza, un seme che si è espresso per la prima volta facendomi sentire a casa con queste persone speciali che mi è capitato di incontrare in quel periodo». L’imminenza dell’ascesa al potere dei comunisti è la causa del ritorno negli Stati Uniti di Bruce, insieme a molti altri connazionali. Quando lo accompagna alla nave, la madre, che ha deciso di restare in Cina a fianco del marito, gli consegna un piccolo libro, «magari gli dai un’occhiata, parla della Chiesa cattolica, che è veramente meravigliosa».

Il sedicenne non è sorpreso, in famiglia si è sempre parlato apertamente della fede, leggendo e commentando i Vangeli e, ripensandoci, il vecchio monaco ringrazia Dio «di essere nato in una famiglia protestante, perché se i miei genitori fossero stati cattolici, mio padre probabilmente sarebbe stato un prete, e mia madre quasi sicuramente sarebbe stata una suora, e allora io dove sarei?»

Ripresi gli studi alla Mount Hermon School e poi a Yale, la sua strada, per così dire, si chiarisce a poco a poco in una specie di esaltante scivolata, fino al battesimo e al passaggio al cattolicesimo nel giugno del 1951, e al suo ingresso nell’abbazia di Spencer due anni dopo come novizio di coro, ricordato con una di quelle tipiche osservazioni che forse solo un monaco «americano» potrebbe fare: «La mia luna di miele è durata circa dieci giorni, il tempo che mi ci è voluto per diventare davvero consapevole, a livello viscerale, che quella scelta sarebbe stata per sempre, che ci si aspettava che sarei rimasto lì per il resto della mia vita. […] Niente più viaggi, niente più surf sulle onde dell’oceano, tennis, golf, pianificazione della mia giornata, incontri con le persone che conoscevo, la famiglia o i miei amici, in altre parole, fare quello che volevo. D’ora in poi la mia vita sarebbe stata solo quel gruppo di edifici, persone e attività di routine, punto!»

Be’, non è andata affatto così, perlomeno per i viaggi e gli incontri. Se, un passo dopo l’altro, il giovane trappista (professo nel 1958) ha imparato a conoscere e ad amare, in tutta la sua profondità, la realtà del monastero – quella che con bella espressione lui chiama «la terra della piena fiducia» (the land of total trust) –, allo stesso tempo è cominciato un viaggio quasi infinito, che dapprima l’ha portato al monastero di Azul (1962), in Argentina, di cui è stato uno dei fondatori e successivamente priore, e poi di nuovo a Spencer (1983), come abate, a Scourmont (luglio 1996), e poi a Roma (settembre 1996), come segretario dell’abate generale Bernardo Olivera (che era stato suo novizio ad Azul) e procuratore dell’Ordine, e quindi in giro per il mondo impegnato in visite, conferenze e riunioni (grazie anche alla sua estesa conoscenza delle lingue e perché «il centro dell’Ordine Trappista – come della Chiesa cattolica nel suo insieme – non è più l’Europa, tanto meno l’America, o qualsiasi singolo paese o continente; l’Ordine è sempre più multicentrico, o decentralizzato, ma questo rende ancora più importante che ci sia qualche punto di riferimento, di aiuto e di sostegno concreto e unificante al servizio di tale rete mondiale di comunione»), e ancora di nuovo ad Azul (2002), eletto di nuovo abate dai suoi vecchi confratelli e infine maestro dei novizi, in un cerchio che si chiude nel 2008, a 75 anni.

A questa grande «avventura pratica» si è accompagnata, come si può immaginare, una altrettanto estesa «avventura spirituale», di cui l’autobiografia di p. Roberts dà ampiamente conto e che d’altra parte si è riversata nella sua opera fondamentale, quel Configurati a Cristo. Una guida alla professione monastica, cominciata a scrivere negli anni del Concilio Vaticano II, sulla scorta dei testi di Columba Marmion e Thomas Merton: «Dapprima pensavo di tradurre alcuni brani del libretto di Merton [sui voti monastici] poiché non c’era nulla che trattasse specificamente della professione monastica», ma le indicazioni del Concilio lo dissuasero. «Così ho iniziato quello che fino ad oggi è stato il mio unico libro, Hacia Cristo, il cui titolo inglese è Centered on Christ. Ha subito diverse revisioni in questi ultimi quarant’anni anni, tutte per migliorare la comunicazione di cosa significa dare la propria vita a Cristo come monaco o monaca nel nostro mondo in rapido cambiamento.»

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  1. Augustine Roberts, Finding the Treasure: Letters from a Global Monk, Cistercian Publications 2011.

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Faticosa e complessa

Chiamata a svolgere una riflessione sulla «preghiera delle donne», per il sempre interessante mensile dell’Osservatore Romano «Donne chiesa mondo», Maria Ignazia Angelini, monaca benedettina di Viboldone, ne ha consegnata una da par suo: asciutta, concreta, stimolante1. Asciutta, poiché in fondo si tratta di poco più di tre dense paginette, senza una parola di troppo; concreta, per le indicazioni su ciò che «avviene» nella pratica di un’attività tanto intuitiva quanto in realtà misteriosa, e per i pochi ma decisivi riferimenti alla propria esperienza («dopo sessant’anni di vita monastica, giorno dopo giorno», «quotidianamente, entrando in coro e sedendo al mio posto, ogni volta…», «la pratica del salmodiare insieme, nei giorni, nelle ore, negli istanti, riconsiderata alla luce di anni, decenni di vissuto corale»); stimolante, per la capacità di tenere insieme riferimenti assai distanti nel tempo (la Bibbia, va da sé, Cristina Campo, Olivia Flaim, Isacco di Ninive), senza rinunciare a dire qualcosa sul nostro, di tempo. Stimolante, aggiungo, per un non credente che voglia provare a capire.

Le donne, nella riflessione di m. Angelini, sono le monache, e la preghiera è quella dei Salmi, e non poteva essere diversamente. In questa prospettiva, il nesso che si stabilisce con gli esempi tratti dalle Scritture (essenzialmente Eva e Maria) è centrale: «Un’esperienza profondamente sintonica a queste oranti, è quella che sta alla radice del monachesimo femminile. È l’esperienza di preghiera che si scopre e si fa sempre più ospitale di tutto l’umano, dimorando stabilmente – tra stanchezza e sopori – immersa in parole di salmi, nel ritmo dei giorni in monastero» (e non si può che sottolineare quell’inciso così realistico di stanchezza e sopori). Pregare i Salmi, dire tutte le loro parole senza esclusione («dirli, leggerli, commentarli, recitarli a memoria, cantarli, suonarli»), diventa un percorso di immersione, trasformazione personale e scoperta, un «battesimo» continuo nel quale la Parola è sempre ri-pronunciata, attraverso la singola persona, in un atteggiamento di rinuncia e affidamento: «La preghiera è sempre una resa del proprio controllo sulla propria vita».

Qui m. Angelini getta un primo sguardo al mondo che si agita intorno al suo monastero, quando indica nella preghiera comunitaria l’antidoto fondamentale allo «spiritualismo narcisista» di chi pensa di poter andare da solo per la sua strada: «La diuturna consuetudine corale col Salterio […] fa maturare nella comunità monastica femminile – priva di ministeri ordinati e ricca del sacerdozio battesimale – una famigliarità liberante, e circolare – un vero e proprio “abitare insieme”». Una consuetudine – ecco il secondo, fermo sguardo – che rappresenta una «avventura spirituale alternativa» rispetto alla cultura «che respiriamo in questa faticosa e complessa svolta d’epoca: la cultura del farsi da sé». La «frequentazione assidua» del Salterio, suggerisce m. Angelini esalta la competenza femminile («materna», dice lei), capace di accogliere il dolore di tutti senza smarrire i «germogli di speranza».

Forse, si potrebbe obiettare, più che una cultura, quella che respiriamo è una condizione infine riconosciuta (che nulla ha a che vedere, nonostante l’assonanza, con la declinazione del self-made man). Una condizione di emancipazione lungamente perseguita che non preclude un’aggiunta decisiva. Perché l’«insieme» (dell’abitare, del fare e anche del farsi) può essere recuperato anche in una dimensione di radicale immanenza, nonostante molte circostanze abbiano detto e dicano il contrario. E nonostante questo significhi l’abbandono definitivo di una certa idea di speranza.

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  1. Maria Ignazia Angelini, Le salmodianti ieri e oggi. Donne e salterio: riflessioni di una monaca benedettina, in «Donne chiesa mondo» 132 (aprile 2024), pp. 4-7.

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Scaltra e sofistica (Dice il monaco, CXIV)

Dice il monaco benedettino Jean de Monléon, nel 1951:

Per quanto sia precisa e particolareggiata una regola, è chiaro che essa non può prevedere tutte le eventualità che possono capitare nel corso di una vita; alla volontà propria quindi si presenteranno inevitabilmente delle occasioni continue di agire a modo suo scegliendo quello che le piace. D’altra parte questa volontà è così scaltra e sofistica che s’infiltra insensibilmente nelle minime cose e perfino nell’attaccamento, pur così legittimo, alle stesse regole: l’esperienza, per esempio, ci mostra che i religiosi più osservanti non sono sempre i più docili.

♦ Jean de Monléon, I dodici gradi dell’umiltà. Commento ascetico al Capo VII della Regola di san Benedetto, traduzione dei monaci di S. Maria del Monte di Cesena, Edizioni Abbazia di Viboldone 1958, p. 123.

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«Ma ditemi un po’, signor abate». Sant’Anselmo e i giovani

Mentre cercavo di orientarmi (i.e. di capire qualcosa) nelle prove dell’esistenza di Dio di Anselmo d’Aosta, la mia guida, Sofia Vanni Rovighi, ha puntato il dito su un episodio della sua vita, come dice lei stessa, «degno di essere ricordato»1.

Anselmo è priore dell’abbazia benedettina di Bec, in Normandia, quindi siamo intorno al 1070, quando parlando con un abate in visita, «ritenuto molto pio», viene a discutere dell’educazione dei ragazzi (gli oblati) presenti nel chiostro. L’abate si lamenta: «Sono perversi e incorreggibili. Noi non cessiamo di frustarli giorno e notte, ma non fanno che peggiorare». Ah, non fate che frustarli? ribatte Anselmo. E quando crescono come diventano? chiede. «Stupidi e brutali», risponde l’abate. Ah, bel risultato, commenta Anselmo, da uomini che erano ne fate animali. «E noi che cosa possiamo fare?» insiste l’abate. «In tutti i modi li obblighiamo a migliorare, ma non otteniamo nulla.»

«Li obbligate?» Provocato, Anselmo risponde: «Ma ditemi un po’, signor abate [Dic quaeso michi domine abba]…» E attacca una tirata che dimostra a un tempo e la sua indignazione – assai precoce – di fronte a tale scempio e la sua visione positiva della natura umana. Gli oblati sono come piccoli alberelli piantati nell’orto della Chiesa, ma cosa succede se dopo aver piantato un albero lo comprimete da ogni parte, impedendogli di stendere i suoi rami? Crescerà storto, per forza. Allo stesso modo i ragazzi, senza poter godere di alcuno spazio di libertà, «oppressi in maniera scriteriata, accumulano, incrementano e nutrono pensieri perversi, che si attorcigliano in loro come spine»; e quel ch’è peggio, mentre crescono nel corpo, «maturano in loro anche l’odio e il sospetto della cattiveria dappertutto. […] E siccome sono stati cresciuti a non provare vero amore nei confronti di nessuno, non riescono a vedere nessuno, se non con sguardo accigliato e torvo».

«Perché siete loro così ostili?» Incalza Anselmo, e cambia immagine. Avete mai visto un orafo trasformare una lamina d’oro in un gioiello soltanto a martellate? Oltre alla severità occorrono anche «il conforto e l’aiuto di un’amorevole pietà e mansuetudine paterna». Qui l’abate tenta una sortita: «Ma quale conforto e quale aiuto? Ci diamo da fare per spingerli ad assumere comportamenti seri e maturi [graves et maturos mores]». Ma bene, ma bravi! riparte Anselmo. Come no, date del pane e del cibo solido a un neonato, vedrete se «più che esserne rifocillato, non ne sarà strozzato». L’anima, come il corpo, a seconda dell’età e della costituzione, ha bisogno di cibi differenti. L’«anima robusta» manda giù anche le cose più indigeste, l’«anima fragile… ha invece bisogno del latte, ossia della mitezza degli altri, della benignità, della misericordia, degli inviti gioiosi al bene… e di molte altre cose simili» (un paio di corsivi miei).

«Se vi adatterete in questo modo nei confronti di quelli che dipendono da voi», conclude Anselmo, «[…] li conquisterete tutti a Dio, per quanto dipende da voi.» La «tirata», lunga poco meno di cinquanta righe (fitte) a stampa, stende l’abate, letteralmente: costui infatti scoppia in lacrime e, «prostrandosi a terra, ai piedi di Anselmo, riconobbe di aver sbagliato e di essere colpevole».

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  1. L’episodio è narrato da Eadmero, nella Vita di sant’Anselmo, 1, XXII, che si può leggere in Eadmero e Giovanni di Salisbury, Vite di Anselmo d’Aosta, a cura di I. Biffi, A. Granata, S.M. Malaspina e C. Marabelli, con la collaborazione di A. Tombolini, Jaca Book 2009, pp. 67-71.

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Taccio (dal Diario di una novizia, di Emanuela Ghini)

Una pagina del Diario di una novizia, testé pubblicato dalla carmelitana Emanuela Ghini1, grande conoscitrice della Parola (non solo di quella con la «p» maiuscola), mi spinge a tornare su uno degli aspetti non risolti – irrisolvibili? – della mia comprensione della vocazione monastica. Più che di «aspetto non risolto», si tratta forse di una convinzione, se non di un pregiudizio, che faccio fatica ad abbandonare.

Il diario, che si propone datato tra la fine degli anni ’50 e il 1960, registra «un cammino spirituale verosimilmente analogo a quello di ogni giovane che accolga la chiamata di Cristo in contesti oggi molto diversi ma non interiormente dissimili da quelli di questa novizia», intervallato da incontri con sacerdoti, confratelli e conoscenti. Uno di questi, Carlo, laico o ecclesiastico non si sa, che «non comprende la vita monastica ma è una persona di grande onestà intellettuale», e che a differenza di altri compare significativamente una sola volta, contesta alla novizia la sua scelta: «Egli crede che ci dimentichiamo del mondo, delle sofferenze reali degli uomini, nelle quali bisogna calarsi per guarirle. Vede nel monachesimo una condizione di privilegio lontana dalla vita». La novizia evita la polemica («ognuno ha la sua porzione di verità»), ma in sostanza evita anche la risposta, o quanto meno non la riporta, e si dice dispiaciuta per l’incomprensione «di modalità della vita cristiana che sono evangeliche, se realmente vissute»: la preghiera, l’apostolato «nascosto», l’obbedienza, la povertà che rende «solidali con i minimi della terra».

Carlo non è convinto – «invano parlo a Carlo di noi come comunità di persone diverse, dissimili ma unite nel fondo dalla stessa passione» – e «ripete che facciamo tutto solo per noi, che ignoriamo la vita reale». Il colloquio, non privo di reciproco affetto, s’interrompe, la novizia vorrebbe discutere su cosa sia la «realtà», ma «desiste». E sull’argomento non tornerà praticamente più.

Non si tratta certo, per quanto mi riguarda, di «questionare» una scelta di vita (ovvero, da che pulpito…), né l’autenticità di quel sentimento di solidarietà con tutti i viventi nutrito e vissuto nella separazione, bensì di nominare la mia perplessità. Quante volte ho letto negli scritti di monaci e monache, contemporanei e no, il riferimento ai quaranta giorni di solitudine di Gesù nel deserto, o alla circostanza che spesso si ritirava «da solo a pregare», ma non posso non osservare che Gesù è sempre tornato indietro da quelle solitudini, da quelle scelte temporanee, se così posso chiamarle.

Ecco la mia convinzione, o il mio pregiudizio inveterato: non c’è, per taluni (non siamo appunto tutti uguali), anche una forma di sollievo nel rinunciare al contatto quotidiano e ininterrotto con «gli altri»? Una forma, lo ammetto, per me assai comprensibile. Sì, certo, la comunità monastica è pur sempre una incarnazione degli «altri», ma non è forse una declinazione più «accessibile», più «digeribile», e soprattutto unita dall’intento comune?

La pagina che registra l’incontro con Carlo si conclude con una citazione e tre puntini di sospensione che vanno a onore della novizia: «Mi torna alla mente un’espressione di Giovanni Crisostomo a proposito delle vergini stolte del Vangelo (Mt 25, 1-13): Così erano quelle vergini: caste, decorose, modeste ma utili a nessuno… Mi considero una di queste e taccio…»

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  1. Emanuela Ghini, Diario di una novizia, San Paolo 2024.

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Cosa proporre (Dice il monaco, CXIII)

Dice Elmar Salmann, monaco benedettino dell’abbazia tedesca di Gerleve e teologo, nel 2023:

Il monachesimo istituzionale attraversa una crisi abissale, forse irreversibile. Questo processo di accompagnamento dall’antico al nuovo alcuni di noi, in modo umile e non appariscente, lo svolgono anche oggi. Penso per esempio a quei monasteri che svolgono un ruolo di dialogo col mondo protestante, o anche a me stesso nel mio piccolo lavoro di accompagnamento dei preti che hanno lasciato. Ma sicuramente, nel complesso, non siamo più le levatrici del nuovo. Non perché ce ne manchino le forze, ma semplicemente perché non sappiamo cosa proporre. Anche le nuove forme di vita religiosa contemplativa e secolare sorte dopo il Concilio, mi sembra che non godano di vita migliore, anzi a tratti mi sembrano più anacronistiche di noi.

♦ Il brano si può leggere nella eccezionale intervista che Elmar Salmann ha rilasciato, all’Osservatore Romano, in occasione dei festeggiamenti per il suo 75° compleanno, tenutisi a Roma, all’Anselmianum, il 16 maggio scorso: La tragedia dell’uomo democratico. La teologia sapienziale alla prova della modernità, di Andrea Monda e Roberto Cetera, Osservatore Romano, 14 giugno 2023. Tutta l’intervista, che mi era ahimè sfuggita e ho recuperato grazie a varie segnalazioni, è di estremo interesse e può essere letta qui.

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Inemarginabile (Augustine Roberts pt. 1)

LibroDellaTrappa Come nella migliore tradizione la vicenda è cominciata con un libro adocchiato su una bancarella. Figuriamoci: Il libro della trappa, di un tale Agustín Roberts1, comprato all’istante, anche con lo stupore che esistesse un libro con un titolo del genere – che infatti si rivelerà essere un «titolo editoriale» di un originale ben diverso, Hacia Cristo. Apertolo all’impiedi davanti alla bancarella medesima, si è presentato con un’avvertenza dal tono e soprattutto dal contenuto assai singolari, che hanno acceso immediatamente il mio interesse. Nella «Nota di edizione» a pagina 9 ho letto infatti che le suore trappiste di Vitorchiano avevano contattato l’editore circa la possibilità di pubblicare in italiano il libretto, assai utile per le postulanti, che loro lo «avrebbero anche semplicemente ciclostilato in un numero limitato di copie»; l’editore aveva letto e valutato, e scoperto che il testo «forse più di ogni altro poteva far conoscere in cosa consiste lo svolgersi quotidiano della vita contemplativa».

E qui la nota prendeva una piega inattesa. L’editore infatti riteneva che il testo potesse essere di grande utilità a «tutti coloro che con onestà vogliono fare un passo nella comprensione di un avvenimento che questa società vorrebbe emarginare, ma che di fatto è inemarginabile. L’inemarginabile dall’ideologia di questo mondo è in fondo il contenuto di questo libro». Perbacco! Anche se penso che oggi, passati altri cinquant’anni da quelle parole, «questo mondo» (ammesso che esista una concreta entità corrispondente a tale concetto) in realtà non voglia «emarginare» il monachesimo, ma sia in sostanza indifferente al suo destino (a patto che si possano visitare i monasteri e i relativi gift shop abbiano un orario decente), l’affermazione non poteva non colpirmi.

La prefazione dell’autore, che seguiva la nota dell’editore, affermava che si trattava di «uno studio sul significato dei voti monastici, precisamente come espressione della dinamica benedettino-cistercense. Poiché questa dinamica contemplativa è nel cuore di ogni uomo, speriamo che esse siano di profitto generale». La prefazione era datata «Azul, 1970», cioè, come ho appreso in seguito, dal monastero trappista di Nuestra Señora de Los Ángeles di Azul, a circa 300 chilometri a sud di Buenos Aires, del quale p. Roberts era stato abate dal 2000 al 2008, dopo essere stato per quattro anni procuratore generale dei cistercensi della stretta osservanza presso la Santa Sede.

Insomma, Agustín Roberts, nato Bruce nel 1932, quindi John nel 1953, novizio presso l’abbazia di Spencer, nel Massachussetts, e infine Augustine (poiché c’era un altro John nel monastero) monaco professo nel 1958 «è stato una delle figure più significative e influenti del monachesimo cistercense della seconda metà del XX secolo, quasi sconosciuto al di fuori del suo Ordine». E qualche mese dopo avevo in mano Configurati a Cristo, il corposo volume di 450 pagine2 che rappresenta il punto di arrivo di numerose edizioni e revisioni di quel primo testo, nato in forma di appunti nel 1967, e la cui lettura è stata di estremo interesse e utilità per cogliere dall’interno gli aspetti più importanti di quella che ancora e sempre pare una scelta di difficile comprensione.

Ma a questo punto è lecito domandarsi: Augustine Roberts, chi era costui?

(1-segue)

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  1. Agustín Roberts, Il libro della trappa. Orientamenti pratico-dottrinali sulla professione monastica, traduzione di F. Mazzariol, Jaca Book 1976.
  2. Augustine Roberts, Configurati a Cristo. Una guida alla professione monastica, Nerbini, «Quaderni di Valserena», 2018.

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Per chi verrà o per chi è assente (Guglielmo di Saint-Thierry e le mani)

Nel suo trattato sulla Natura del corpo e dell’anima, composto intorno al 1140, Guglielmo di Saint-Thierry, per illustrare il rapporto che intercorre tra la seconda e il primo, si dilunga sull’esempio delle mani. Che non sia, come si suol dire, «farina del suo sacco», ce lo ricorda lui stesso: «Devi sapere che quanto leggi non è mio. Io ho raccolto qui, in un solo scritto, passi tratti in parte da libri di filosofi e medici, in parte da libri di dottori della Chiesa». E in questo senso il trattato di Guglielmo1 è molto utile per avere un’idea dello stato delle conoscenze condivise sulla fisiologia del corpo umano alla metà del XII secolo. Per la parte dedicata all’anima, in cui si trova l’esempio delle mani (II, 66 e segg.), la fonte primaria è il De opificio hominis di Gregorio di Nissa, che Guglielmo legge nella traduzione latina di Giovanni Scoto Eriugena, il De imagine.

Il modo in cui l’animo, l’anima, la sostanza intellettuale, «si accosta» al corpo è beninteso «sovrarazionale e inintelligibile» e «non può essere detto né inteso», tuttavia si può dire che l’animo produca i suoi effetti come se stesse suonando uno strumento musicale, essendo tale strumento il corpo, le parti del quale sono quindi concepite perché possano essere «suonate» dall’anima.

Si prendano ad esempio, appunto, le mani, che sono una prerogativa esclusiva dell’essere umano: «Sono molte le funzioni, di pace o di guerra [corsivo mio], per le quali la natura ha costruito le mani, ma di esse ha dotato il corpo umano anzitutto per una precisa necessità della ragione» (ah, la tentazione odierna di dimenticare l’evoluzionismo per una mezz’oretta…). Se non le avessimo, dovremmo mangiare come i quadrupedi, «il collo dovrebbe allungarsi per raccogliere il cibo da terra, il naso si ridurrebbe come quello dei bruti, davanti alla bocca sporgerebbero labbra callose, pesanti, spesse, adatte a strappare l’erba, le parti carnose attorno ai denti sarebbero solide e dure, come nei cani e negli altri animali che si cibano di carne», e così non potremmo articolare la voce, ma beleremmo o muggiremmo, e così via. L’animo, che accoglie tramite i sensi tutte «le sensazioni che penetrano in lui da ogni parte» (e che lui «annota nella memoria»), e che nel suo intimo è muto, grazie alla voce può invece esprimersi, permettendoci anche di «conversare fra di noi» e di esercitare la ragione. Le mani hanno quindi sollevato la bocca da un incarico che l’avrebbe compromessa. Ma non solo.

Con le mani abbiamo potuto mettere a punto la scrittura, altro mezzo esclusivo di espressione. «Sia le mani sia la bocca servono dunque alla ragione. Le mani scrivendo per chi verrà o per chi è assente, la bocca formulando in parole con la massima facilità e prontezza tutto quello che la ragione suggerisce nell’interiorità.» Le labbra si aprono e si chiudono, come quelle di un suonatore di flauto, che grazie ai movimenti delle dita trae dal suo strumento una melodia: «In tal modo la natura umana articola le parole; la loro disposizione però è opera della ragione».

Sarebbe bello poter condividere la fiducia di Guglielmo.

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  1. Guglielmo di Saint-Thierry, La natura del corpo e dell’anima (De natura corporis et animae), a cura di A. Siclari, Nardini 1991.

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Strade, navi, fortezze… (Voci, 33: Umberto da Romans)

MaximaBibliotheca È nel clima delle polemiche sviluppatesi nella seconda metà del XIII secolo circa la diffusione (incontrollata?) degli ordini mendicanti che il domenicano Umberto da Romans, concluse le fatiche del generalato nel 1263, durante il quale molto fece per la riforma dell’Ordine, inserì nel suo trattato De eruditione praedicatorum un breve capitolo assai significativo, intitolato:

Ai nuovi religiosi di qualunque genere

Riguardo a questi, va detto anzitutto che non è per niente facile inaugurare una nuova religione, né senza una causa molto ragionevole. Una nuova religione, infatti, è come una nuova via verso il cielo, secondo ciò che è detto della religione cristiana nella Lettera agli Ebrei (10): «Vi ho annunciato una nuova via». È come una nuova nave costruita per sfuggire ai pericoli dei mari del mondo. È come un nuovo accampamento o una nuova fortezza in cui rifugiarsi se il nemico ci insegue. Sicché quando le antiche strade vengono distrutte, o le vecchie navi demolite, o gli accampamenti che un tempo erano un luogo di rifugio vengono abbandonati, è ragionevole che si creino nuove religioni per perseguire quei benefici. Ma se le antiche vie sono ancora buone, e le vecchie navi ancora sane e intatte, e gli accampamenti ancora forti e in buone condizioni, a cosa servono religioni nuove?

Si badi che tali religioni non possono essere iniziate qua e là e proposte da chicchessia, a meno che non siano davvero autentiche, o per dono di Dio, o per capacità acquisite, come fu in passato con Basilio, Agostino e Benedetto, grandi iniziatori di religioni. Se infatti in una grande città non si trovano buoni maestri per i diversi mestieri e le diverse necessità, come potrà qualcuno essere un saggio e idoneo maestro per una nuova opera? Non tutti, inoltre, devono essere ammessi alla fondazione di simili edifici: così come non può chiunque porre le pietre a fondamento delle case, ma deve essere scelto, come avvenne per la Chiesa fondata dagli Apostoli e dai loro discepoli, i quali, sebbene in principio fossero pochi, furono resi grandi da Cristo con molti doni di grazia. Ancora, tali religioni non possono sorgere all’improvviso, per iniziativa personale, ma sotto l’autorità del Vicario di Gesù Cristo, che all’inizio le tiene per così dire sotto attenta osservazione. Quale padre, infatti, senza il suo espresso comando, accetta una famiglia di servi? Pertanto, affinché tali religioni possano nascere e crescere in modo lodevole, devono concorrere una piena capacità nell’iniziatore, un’adeguata idoneità nei primi seguaci e l’autorità del sommo presule prima della nascita.

In terzo luogo è da notare che nello svolgimento dell’opera deve essere posta sapienza, secondo l’esempio di colui che nei Salmi dice: «Hai fatto tutto con sapienza». E perciò in quest’arte bisogna consultare i saggi maestri, come fanno coloro che vogliono costruire saggiamente. […] Anche in questo caso dobbiamo ricorrere ai modelli precedenti, poiché anche il Signore comanda a Mosè di fare tutto secondo l’esempio che gli è stato mostrato sulla montagna. Quale sapienza infatti può introdurre tante novità mai viste prima negli usi, nei doveri e negli altri statuti? Non sono forse gli stessi maestri a creare dei modelli? Allo stesso modo dobbiamo stare bene attenti a non emanare statuti o regolamenti che non possano essere osservati a causa della fragilità umana, altrimenti coloro che vivranno in quella religione non saranno al sicuro. Non è saggio costruire per il Signore una casa nella quale egli non possa abitare senza pericolo.

Molte altre sono le cose che derivano da questa sapienza. E ci deve essere costanza, poiché numerosi avversari sono soliti insorgere contro queste nuove religioni, come contro le nuove fortificazioni… Allo stesso modo, i primi fratelli di queste religioni cadono spesso nell’apostasia, e vanno incontro a fatiche e difficoltà di vario tipo. Perciò è necessario che siano costanti nella costruzione di questo genere di edifici, affinché, a causa degli avversari, o per un crollo, o per la continua stanchezza, l’opera iniziata non venga interrotta, ma conclusa con tenacia.

♦ Umberto da Romans, De eruditione religiosorum praedicatorum, II, 42, che ho letto in (e in qualche modo tradotto da) M. de la Bigne, Maxima bibliotheca veterum patrum, vol. 25, Lyon 1677, su «indicazione» del saggio di C. Caby, Fondation et naissance des ordres religieux. Remarques pour une étude comparée des ordres religieux au Moyen Âge (2007).

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I saggi densi e dotti, e un po’ accidentati, di Guido Cariboni sui cistercensi dei secoli XII e XIII1 hanno suscitato di nuovo in me alcune considerazioni, un po’ naïf e confuse, che rimandano al sottotitolo di questi appunti, quegli «occhi laici sul pianeta monaci» che, con altra accuratezza, sono poi lo sguardo che gli storici depongono sul monachesimo, osservandolo come «fatto» in mezzo ad altri «fatti». E già qui si potrebbe discutere sulla legittimità, o quanto meno sulla significatività, di tale sguardo quando prescinde dal «contenuto» religioso. A questa domanda rispondo nel modo seguente. Meno male che ci sono gli storici! Che proprio in virtù di quell’«in mezzo» studiano e ricostruiscono il fenomeno del monachesimo in rapporto agli altri fenomeni, giacché tale rapporto è sempre esistito, in forme più o meno estese e intense (con la parziale eccezione forse dei certosini); al lettore laico non professionista, invece e d’altra parte, è consentito avvicinarsi al monachesimo come se fosse un fenomeno per certi versi astorico e imprescindibile dal contenuto di fede.

E poi. Le vicende istituzionali dei cistercensi dimostrerebbero ancora che, per semplificare, la quantità uccide la qualità. L’estensione numerica e territoriale dell’Ordine porta infatti tensioni, allontanamenti dall’ideale, impulsi ricorrenti di riforma e di «ritorno alle origini» (e anche qui non può non venire in mente il detto certosino: «Cartusia numquam reformata quia umquam deformata» – bella forza, potrebbe persino pensare il cluniacense spazientito, siete quattro gatti). Dunque nella realizzazione pratica dell’aspirazione a Dio, di una forma di vita ispirata alla carità, esiste un punto di equilibrio che starebbe tra il singolo (l’eremita, perennemente esposto alle illusioni) e la massa, che porta con sé inevitabilmente deformazioni, divisioni e conflitti? Forse non soltanto nell’aspirazione a Dio, ma nella vita in comune in generale? Il piccolo gruppo, i cui membri si scelgono liberamente, essendo l’unica via possibile? La chiave del suo «funzionamento» essendo l’accordo delle volontà che può nascere solo dall’esiguità della compagine (l’unanimitas che era uno dei cardini dell’ideale cistercense)? Si può estendere questo concetto, e come, quando si è in tanti? C’è qui una lezione sul numero? (E già, arriva lui, dopo secoli di pensiero politico al riguardo…)

E quale può essere il rapporto tra piccoli gruppi? O tra il piccolo gruppo e il «grande gruppo»? Mi ha sempre colpito rispetto a ciò il trattamento della segretezza presso i cistercensi delle origini: come era percepita e come la vivevano loro stessi (in questo sovente aiutati dalla collocazione reclusa dei loro «nuovi monasteri»). Scrive ad esempio nella prima metà del XII secolo il cistercense Idungo, nel suo Dialogo di due monaci, rivolgendosi a un «collega» cluniacense: «L’elezione e la deposizione degli abati del vostro ordine, insieme ad alcune cause ancor più difficili, sono trattate dai vescovi, quasi in pubblico, contro il decoro della religione monastica; presso di noi, invece, questi problemi sono risolti tra di noi e da noi di nascosto [apud nos, inter nos, et a nobis in secreto], con convenienza per l’ordine». Sembra quasi che Idungo stia evocando gli arcana imperii… E d’altra parte, Oderico Vitale nella sua Storia ecclesiastica, completata sempre nella prima metà del XII secolo, scrive: «[I cistercensi] serrano le loro porte e nascondono i loro luoghi appartati con massima cura [secreta sua summopere celant]. Non ammettono nei loro penetrali un monaco di un’altra chiesa, né gli permettono di entrare con loro nel luogo della preghiera per la messa o per altri servizi liturgici». Ma quali tratti può avere, oggi, un’idea, se non un’applicazione, «sana» della segretezza?

La storia dei cistercensi, soprattutto nei primi secoli di vita dell’Ordine, e in particolare dopo la morte di Bernardo, è quasi un laboratorio in cui si può osservare con estremo interesse, tra le altre cose, il rapporto di tensione – quasi istantanea, verrebbe da dire – che si crea tra ideali e realtà, e anche tra legge e prassi. Come dimostrano con attenzione minuziosa i saggi di Guidi Cariboni, di almeno uno dei quali proverò a dare conto in seguito.

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  1. Guido Cariboni, Il nostro ordine è la Carità. Cistercensi nei secoli XII e XIII, Vita e Pensiero 2011.

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