Nuditas (Definizioni 2; la vita monastica)

«È con Adamo che appare la prima nudità», scrive la rabbina francese Delphine Horvilleur. «Per “tenuta adamitica” si intende la condizione di chi non indossa nulla. Ma Adamo non è soltanto il primo uomo di cui è descritta la nudità, è anche il primo la cui nudità viene coperta, il primo a farsi un vestito. La Genesi fa di lui il primo uomo disturbato dalla nudità al punto da scegliere di ricoprirla.» Dopo la «fatal disobbedienza», Adamo ed Eva si accorgono «di essere nudi», se ne vergognano e si nascondono. Compare prima la vergogna che la colpa, ci ricorda ancora la rabbina, quella vergogna «che è essenzialmente una sensazione di scissione da sé o dal gruppo il cui sguardo minaccia di disgregare il soggetto».

Nudità, vergogna, scissione. Alla luce di questo breve spunto (tratto da un libro ben più ricco e assai interessante1), un ancor più breve testo, una brevissima poesia, un haiku del cardinale José Mendonça Tolentino assume una dimensione oserei dire «smisurata». Sono quindici parole (quattordici nell’originale portoghese) tratte da un libro2 «pieno di spazi vuoti», che si aprono in continuazione al pensiero, e che mi pare rappresentino una sintesi mirabile, ancorché non pronunciata da un monaco o da una monaca, dell’«oggetto plurimillenario» di cui si prova a capire qualcosa qui.

Dicono così:

La vita monastica

è una nudità

che non ha vergogna di sé stessa.

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  1. Delphine Horvilleur, Nudità e pudore. L’abito di Eva, traduzione di L. Marino, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2021 (le citazioni sono alle pp. 40 e 53).
  2. José Tolentino Mendonça, Il papavero e il monaco, traduzione di T. Bartolomei, prefazione di L. Bolzoni, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2022 (la citazione è a p. 78).

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Il sibilo della sofferenza (Isacco di Ninive)

DiscorsiAsceticiNel frattempo ho portato a termine la lettura dei Discorsi ascetici di Isacco di Ninive, della «Prima collezione» s’intende. Mi ha accompagnato per parecchi mesi, frammista ad altre letture, ovviamente, ed è diventata quasi un sottofondo, una discreta musica costante. Può far sorridere, considerando la «musica» non di sottofondo nella quale si è oggi avvolti, ma trovo sia difficile esagerare la «bellezza» di questi testi, soprattutto se affrontati con slancio non «specialistico», così come è altrettanto difficile lodare eccessivamente l’edizione (la sensibilissima traduzione) che li ha resi disponibili al lettore italiano1.

Isacco, nato nella regione corrispondente all’attuale Qatar, brevemente vescovo di Ninive intorno al 680, prima e dopo monaco solitario e cenobita, divenuto cieco forse per l’eccesso di letture, era, secondo una notizia biografica assai più tarda, «mite, dolce e umile, e la sua parola era piena di tenerezza. Non mangiava nulla se non tre pani alla settimana insieme a un po’ di verdure, e non gustava cibi cotti».

Mite, dolce, umile, cieco, pieno di tenerezza – ma non per questo osservatore meno acuto della natura umana e conoscitore dei suoi sentieri; ed è proprio tale combinazione di bontà e lucidità che me l’ha fatto ascoltare così a lungo – è il caso di dirlo – con «incanto» (i suoi scritti, va ricordato, sono trascrizioni da parte dei suoi discepoli di discorsi effettivamente pronunciati). Il perché di questo incanto lo spiega meglio di me il curatore del volume, Sabino Chialà, quando si chiede come è possibile che Isacco parli con tale facilità «all’uomo e alla donna del XXI secolo»: perché «forse la franchezza, la sincerità e dunque l’autenticità di un’esperienza che, essendo profondamente radicata, emerge con parole che attraversano i tempi e gli spazi senza farsene oscurare, giungendo a noi come acqua limpida, appena uscita da quell’unica fonte che è capace di dissetare ogni essere umano». Isacco risponde, illustra, spiega, racconta, mostra, ricorda, avverte, consola, ammonisce, consiglia, incoraggia; Isacco, cioè, capisce e «capisce», senza che la seconda mossa diventi sommaria assoluzione, ma rimanga umana comprensione.

Inutile dire che ho sottolineato molto, nella speranza di memorizzare, o almeno di ritrovare (una nota di merito, in questo senso, all’«Indice dei temi più ricorrenti»). Ad esempio la fine osservazione psicologica che apre il Discorso XXIII: «Ogni realtà sensibile, sia azione sia parola, se non avviene in modo accidentale ma si ripete nel tempo, manifesta un qualcosa che è nascosto dentro». La forza o la debolezza della volontà non va infatti misurata da quello che si compie occasionalmente, dal casuale inciampo, bensì da ciò cui si torna più e più volte, perché «la libertà [della volontà] la si valuta in base alla persistenza di qualcosa». Oppure questa immagine tratta dal Discorso LXII: «La condotta di questo mondo assomiglia alla copiatura dei libri quando la pagina è ancora bianca, e dunque si può aggiungere e togliere ciò che si vuole e quando lo si desidera, mutando così ciò che vi è scritto». Finché non vi si appone il sigillo finale, «il libro della vita» può ancora essere corretto, «il nostro libro è nelle nostre mani». O ancora questa istantanea un po’ cruda, tratta dal Discorso LXIX, che fotografa la persistenza delle passioni: «Esse sono infatti come dei cani presso un macellaio, abituati a leccare il sangue: quando è loro sottratto ciò cui erano abituati, se ne stanno sulla porta abbaiando, fino a che la forza della loro abitudine di un tempo svanisce». E ancora questa breve nota dal Discorso LXXIV: «Non chiunque sia calmo è umile, ma chiunque è umile è anche calmo. Non esiste un umile che non sia modesto, ma di modesti che non sono umili ne troverai molti».

E così via, per oltre settecento pagine. Se tuttavia dovessi scegliere una parola, una sola, a mo’ di stemma, tornerei al Discorso XXVII, nel quale Isacco, tra le altre cose, ragiona su quella che sarà la pena dei «dannati», e dove coglie con poche e semplici parole una verità che mi pare trascenda qualsiasi fede si professi o non si professi nell’al di là o nell’al di qua: «Io dico che anche quanti saranno castigati nella geenna, saranno tormentati dalle piaghe dell’amore. Le piaghe che provengono dall’amore, cioè quelle di quanti sentono di aver mancato nell’amore sono dure e amare! Più dei tormenti che vengono dal timore! La sofferenza che sibila nel cuore perché si è mancato all’amore è più acuta di tutti i tormenti che vi possano essere».

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  1. Isacco di Ninive, Discorsi ascetici. Prima collezione, a cura di S. Chialà, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2021.

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Promemoria (Schedine: Cariboni, Chryssavgis)

CariboniCistercensi Guido Cariboni, I cistercensi. Un ordine monastico nel Medioevo, Carocci 2023.

Un bel ripasso fa sempre bene. Si potrebbe dire della monografia che Guido Cariboni (professore di Storia medievale alla Cattolica di Milano) ha dedicato ai Cistercensi, in particolare alla loro storia dalle origini alla metà del XIII secolo. Non soltanto ripasso, in realtà, perché, oltre a uno sguardo dall’esterno (da non sottovalutare), il volume offre anche l’opportunità di conoscere i risultati della storiografia recente su alcune questioni centrali della storia dell’Ordine. Ad esempio sul rapporto, sulla tensione, tra ideali delle nuove comunità, come proclamati dai testi «ufficiali» (gli Exordia e la Carta caritatis, anzitutto), e la realtà testimoniata dai documenti (i resoconti dei Capitoli, le raccolte di consuetudini e gli atti notarili o disciplinari, tra gli altri); o sulle novità decisive, come il Capitolo degli abati (riusciamo a immaginare, nella seconda metà del XII secolo, un «congresso» anche di trecento abati?), le «visite» (con i viaggi, e gli scambi, che comportavano: nonostante il voto di stabilità, «il viaggio, per altro non proibito da Benedetto, fu forse una delle dimensioni più originali del monachesimo tardoantico e medievale, tanto in Oriente quanto in Occidente»), le relazioni con i vescovi; o ancora sulla gestione economica dei patrimoni fondiari, sull’istituzione e lo statuto dei fratelli conversi o sui rapporti con i laici. E sui rapporti con Roma, naturalmente. E quello di «novità» è un aspetto fondamentale di questa storia, rintracciabile sia nella consapevolezza dei protagonisti, sia nelle osservazioni, spesso critiche, dei testimoni esterni. Un atteggiamento che si tradusse in una sorta di ri-fondazione continua, di rinnovamento ininterrotto in cui «si provò, spesso con successo, ad adattare con forme sempre diverse l’ideale monastico delle origini alle nuove esigenze che l’enorme e progressivo sviluppo dell’ordine comportava». Una grandissima ambizione, quella cistercense, unita a un profondo senso di umiltà condivisa (la carta d’identità di san Bernardo?), un’impresa collettiva tale che «la moderna storiografia comparata sulla vita regolare ha individuato nei cistercensi il primo ordine religioso della storia». Una cosa che non sapevo e che mi ha colpito molto a tal proposito: «Durante il capitolo giornaliero, presso i cistercensi, prima che avvenissero le clamationes, cioè le autoaccuse dei singoli monaci che confessavano le loro colpe, l’abate pronunciava le parole: “Parliamo dell’ordine” (“Loquamur de ordine”)».

AlCuoreDelDeserto John Chryssavgis, Al cuore del deserto. La spiritualità dei padri e delle madri del deserto, traduzione di C. Frescura, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2004.

Una passeggiata nel deserto è sempre salutare. Si potrebbe dire, invece, di questo libro ben congegnato che ci invita ad avvicinarci ai famosi detti dei padri e delle madri del deserto (famosi perché una volta appreso della loro esistenza difficilmente ce ne si può dimenticare) «come a miti», non come stimoli all’imitazione bensì come a fonti di ispirazione. Miti fulminei, «lampi di luce» che attraversano i secoli, incredibilmente concentrati in poche parole, che, come ci ricorda l’autore, ebbero una prima diffusione orale e soltanto in seguito scritta. «Questi anziani del IV secolo», afferma p. Chryssavgis (studioso e professore di teologia australiano), «sono promemoria di verità fondamentali riguardo al nostro mondo e a noi stessi, che tendiamo a dimenticare e che essi traducono per tutte le generazioni attraverso le epoche.» Alcuni brevi profili delle personalità più definite, e delle quali si conservano il maggior numero di detti (Antonio, Arsenio, Poemen – «la quintessenza dei padri del deserto» –, Macario, Mosè, Sincletica), introducono a una serie di capitoli tematici che si sviluppano intorno ai concetti e alle esperienze fondamentali del «deserto», non soltanto inteso come luogo, ma anche come dimensione della vita spirituale, come «passaggio necessario» oggi come allora. E quindi lo spazio («luogo di protesta interiore»), la cella (grande maestra), il combattimento contro i (propri) demoni, il silenzio («un modo di morire, in noi stessi, in presenza degli altri») e il pianto (rivelazione dello «stato di frantumazione» e di vulnerabilità dell’anima), le passioni, il consiglio e il distacco, la solitudine, l’amore, il corpo, la preghiera. Grazie alle numerose citazioni il libro diventa anche un’antologia, formula non nuova ma qui eseguita con perizia e, se così si può dire, con grande sensibilità contemporanea. Lo scopo del deserto, secondo l’autore, al di là di tutte le stranezze, gli estremismi ascetici, le eccentricità, era uno soltanto: imparare ad amare. Come illustra questo splendido detto di Poemem: «Alcuni anziani vennero da abba Poemen e gli chiesero: “Quando vediamo dei fratelli che si addormentano durante gli uffici, dobbiamo svegliarli perché stiano attenti?” Egli disse loro in risposta: “Per parte mia, quando vedo un fratello che si addormenta, metto il suo capo sulle mie ginocchia e lo lascio riposare”».

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«Il sole nella notte», di Bernardo Olivera

SoleNellaNotte Considero salutare, per il mio modesto impegno di comprensione, misurarmi con testi come Il sole nella notte di Bernardo Olivera1. Un testo impegnativo e istruttivo, il cui argomento si estende molto oltre la mia capacità di riferirne (e in fondo anche di accoglierne le premesse). Come infatti recita il sottotitolo, il libro del monaco argentino, abate generale dei Trappisti dal 1990 al 2008, parla di «mistica cristiana ed esperienza monastica», con particolare riferimento alla tradizione di autori e autrici cisterciensi.

Cinque tappe. Anzitutto una ricognizione del «contesto culturale» moderno e post moderno – che si può condividere o no – nel quale si situa il «fatto mistico», poiché se la sua sorgente è eterna e fuori del tempo, la sua esperienza è attuale e costantemente presente, vissuta da persone che non sono estranee al proprio tempo («Tutti gli uomini – ed i monaci e le monache non fanno eccezione – vivono, decidono ed agiscono a partire da un determinato mondo culturale»). Un tempo, questo, caratterizzato dall’autonomia dell’individuo e dal razionalismo «in opposizione ad ogni forma di religione o di fede»; un tempo di relativismo, assolutismo scientifico, «deificazione» dell’io e rifiuto di Dio, che nondimeno manifesta una potente ricomparsa della sete di mistero.

A fronte di questa «sete», secondariamente, emerge in tutta la sua efficacia la lezione della tradizione monastica: «Se noi, dopo oltre nove secoli di storia, ancora ci siamo, è perché i nostri primi Padri e Madri avevano, in gradi diversi»: una capacità di trascendenza sperimentata pienamente; «un notevole dono di riflessione dell’esperienza vissuta»; «una grande abilità nel fissare l’esperienza per iscritto e dare vita a comunità e gruppi depositari dello stesso patrimonio trascendente, teologale e mistico».

In terzo luogo sono necessari alcuni «chiarimenti preliminari». Il mistero, cioè il disegno divino, è una dimensione ineludibile dell’esistenza («Lo stesso essere umano è mistero ed è stato creato per il mistero»). In realtà, da un punto di vista cristiano, è una circostanza multidimensionale, infatti è: eterno, libero, intelligente, amoroso, storico, personale, comunitario, attuale, liturgico, irrevocabile, trascendente, e si illumina nel Cristo. La mistica rappresenta «l’apice di incontro tra l’Essere assoluto e l’uomo». I grandi mistici e le grandi mistiche fanno esperienza del mistero in modo permanente, ma «in forma passeggera e in grado minore» le esperienze mistiche «sono assai più comuni di quanto si possa immaginare»: ogni battezzato vi accede, più o meno consapevolmente. Questa esperienza mistica è «un modo particolare di vivere la fede» e può declinarsi in molte forme: essenziale, sponsale, contemplativa, apostolica, cosmica, interpersonale, ordinaria, casuale.

La quarta tappa (dedicata a Gesù Cristo, «il mistico per eccellenza») e la quinta (che affronta nel dettaglio i vari aspetti dell’esperienza mistica come è stata tramandata dai monaci e dalle monache cisterciensi: Bernardo, Aelredo, Baldovino di Ford, Guglielmo di Saint-Thierry, Beatrice di Nazareth, Hadewijch di Anversa) sono le più lunghe e complesse: è saggio che non ne dica nulla.

Salutare, dicevo. Perché è qui che posso in qualche modo misurare l’efficacia della mia posizione, che sicuramente mi è già capitato di esporre. Io non credo, infatti, nel mistero, e questa affermazione renderebbe del tutto priva di senso la lettura delle pagine di Bernardo Olivera. Sì, d’altra parte questo non significa che io non creda a chi dice di credervi, o di farne esperienza. Cosa sono queste persone: illuse, suggestionate, paralizzate dall’idea del nulla, allucinate, folli? Tutte categorie da usare con estrema cautela, anzi, da non usare affatto (anche senza considerare la finezza di pensiero che si può facilmente rintracciare negli scritti citati).

È lo stesso p. Olivera che mi invita a riflettere, quando dice: «Sarà necessario anche ascoltare la voce degli uomini e delle donne del nostro mondo laico e secolarizzato. È un dato di fatto che molti, che si dichiarano atei o agnostici, cercano Dio, sia pure senza esserne coscienti, nelle esperienze umane più profonde. Ed è precisamente l’esperienza dell’amore [fra l’uomo e la donna] (le parentesi quadre a questa specificazione che l’autore fa dell’amore le ho messe io, che sono laico e secolarizzato) ad avvicinarli all’esperienza religiosa. […] Un’esperienza profondamente umana è potenzialmente un’esperienza religiosa». Mi perdonerà il p. Olivera se gli chiedo di non interpretare il mio rispettoso silenzio davanti a quel sia pure senza esserne coscienti e a quel potenzialmente come un silenzio-assenso.

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  1. Bernardo Olivera, Il sole nella notte. Mistica cristiana ed esperienza monastica, presentazione di S.F. Ordóñez, traduzione a cura delle Trappiste di Valserena, Àncora 2003 (ediz. orig. Sol en la noche, 2001).

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Come in una pentola che bolle (Dice il monaco, C)

(Per il centesimo «Dice il monaco» la parola non può che andare ancora una volta a san Bernardo, che di questi appunti è un po’ il nume tutelare. E quindi…) Dice Bernardo di Chiaravalle, monaco e abate cisterciense (1090-1153), commentando il Cantico dei Cantici:

C’è, dunque, un unguento che l’anima, irretita nelle proprie colpe, produce per se stessa. Infatti, quando inizia a scrutare le proprie vie, raccoglie, riunisce e pesta nel piccolo mortaio della coscienza le molte e varie specie dei propri peccati e, all’interno del proprio cuore, come in una pentola che bolle, cuoce tutto insieme, con una specie di fuoco generato dalla penitenza e dal dolore… Ecco, questo è l’unico unguento con il quale l’anima peccatrice deve addolcire gli inizi della propria conversione e che deve applicare alle sue piaghe recenti: il primo sacrificio a Dio, infatti, è uno spirito contrito.

♦ Bernardo di Chiaravalle, Sermone X, 5, in Sermoni sul Cantico dei Cantici, introduzione di J. Leclercq, traduzione e note di C. Stercal, con la collaborazione di M. Fioroni e A. Montanari, parte prima («Opere di San Bernardo» V/1), Città Nuova 2006, p. 129.

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Una persona che sia una (Anselmo Giabbani, «Colloquio monastico», pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

ColloquioMonastico Dopo la prima parte dialogica, a domande e risposte, anche il resto del volume di Anselmo Giabbani1 è ricco di affermazioni decise e spunti molto interessanti, forse anche di più e di sicuro troppi per poter darne conto adeguatamente. Mi soffermo quindi su un brano scelto a mo’ di esempio, scelto tra quelli che più ho sottolineato: il paragrafo 9 del capitolo VI, La vita contemplativa, dedicato alle Attività del monaco.

Il p. camaldolese parte dalla considerazione, tratta dalla Regola di san Benedetto, che il monaco deve lavorare: ma di che «lavoro» si tratta? La storia mostra come nel tempo «i monaci hanno fatto di tutto», smarrendo però talvolta in questo «fare» il senso della propria identità, cioè allontanandosi da quello che è il suo modello unico e immodificabile, il Cristo, la sua vita. Il monaco deve rifarsi all’attività di Gesù («che guarda più all’essere che al fare») e all’«unità del suo esistere e del suo agire, del suo dire e del suo fare; l’unità della sua persona nella duplice natura umana e divina».

Unità è la parola chiave della riflessione del p. Giabbani, e non soltanto in questo paragrafo, unità che discende appunto da Gesù e si estende, all’individuo, all’umanità, alla Chiesa. Concetto difficile se lo si legge nella storia secolare, anche pericoloso; concetto che si può dire sia stato smontato dai fatti spaventosi della modernità, messo in crisi, tra l’altro, dalle scienze psicologiche e dalle arti. Ecco la prima indicazione precisa del p. camaldolese, uomo del XX secolo e consapevole dei pericoli: «Lavorare a questa unità è la prima attività del monaco cristiano: fare di se stesso molteplice e diviso una realtà unica, una persona che sia una, coerente, libera, responsabile, identica a sé in privato e in pubblico, davanti a sé e davanti a Dio».

Ma unità non è autonomia, e tantomeno isolamento, ed ecco la seconda indicazione precisa: «La seconda attività del monaco è formare una comunità. Gli uomini, esseri sociali per natura, traggono enormi vantaggi dall’essere in comunità, ma incontrano anche gravi difficoltà a costruirsi in comunione con gli altri». Questa attività è minacciata dallo sviluppo sociale contemporaneo, in particolare dal combinato industriale-tecnologico, che produce una «schizofrenia generale» ed è all’origine del «male più profondo che affligge l’umanità del nostro tempo: l’incapacità di vivere e lavorare insieme». Di fronte a tale disgregazione, che ognuno può verificare nelle varie forme di «comunità» cui tende, o che sceglie, o in cui si trova inserito (gruppi, classi, uffici, squadre, assemblee, associazioni, quartieri, ecc.), il p. Giabbani ritiene che «una comunità adunata, per nessun interesse umano, ma per il solo desiderio di vivere insieme, si presenta o dovrebbe presentarsi come antidoto di enorme valore sociale, oltre che evangelico».

Nell’adunata monastica, «la cui unica legge è l’amore di Cristo», occorre che il singolo monaco cerchi e trovi il suo posto per quello che è, e non per quello che pretende di essere; occorre che sia conosciuto e accolto per le sue capacità e debolezze. Il p. Giabbani chiama questo complesso di atteggiamenti «disposizione di umiltà eguale a verità», raggiunta la quale l’unica preoccupazione successiva rimane soltanto quella di «contribuire alla comunione fraterna».

L’unità. Non so se sia più raggiungibile, se mai lo è stata. Nella coscienza-bagagliaio ci entra di tutto, e mi pare che valigie, borse, sacchetti, confezioni vuote, ombrelli e vecchi stracci sporchi siano comunque tenuti insieme, praticamente, dal contenitore, in un modo o nell’altro. Quando si viaggia il bagagliaio di necessità, o di norma, è chiuso, lo si apre soltanto quando ci si ferma, in disparte, e ci si guarda dentro sempre da soli, o al massimo in due. L’unità mi pare un miraggio, ma non posso che ammirare chi vi crede e la persegue mettendosi in gioco integralmente, come fanno i monaci auspicati da Anselmo Giabbani.

(2-fine)

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  1. Anselmo Giabbani, Colloquio monastico, Edizioni Dehoniane Bologna 1983.

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Perché debbono esistere i monasteri? (Anselmo Giabbani, «Colloquio monastico», pt. 1/2)

ColloquioMonasticoIncuriosito dalla lettura del suo libro su «vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo» (L’eremo), ho cercato di leggere qualcos’altro della non estesa bibliografia del p. camaldolese Anselmo Giabbani. Così, ho recuperato Colloquio monastico1, pubblicato nel 1983, quasi quarant’anni dopo L’eremo. Il «colloquio» che compare nel titolo fa riferimento all’intenzione dell’autore di fare il punto sulle «questioni riguardanti la vita monastica» procedendo, almeno in un primo momento, seguendo il metodo delle domande e risposte, «al fine di ricavare il più possibile di chiarezza».

Senza dimenticare che nel frattempo sono passati altri quarant’anni, la lettura del piccolo volume è di grande interesse, e, pur nella concisione, o proprio grazie a essa, le «risposte» del p. Giabbani forse attingono a una dimensione diciamo così sovratemporale. Chi sono i monaci? Che cosa è proprio del monachesimo? E del monachesimo cristiano? Quali sono i cosiddetti valori monastici? Ma esiste una formazione monastica? Il dialogo è serrato, le risposte sono brevi e precise, ma palesemente non dogmatiche, piuttosto frutto del connubio di meditazione ed esperienza che è una delle «specialità» del monachesimo di tutti i tempi (nemmeno gli scienziati, mi pare, hanno riflettuto sulla propria «professione» mentre la esercitavano quanto i monaci; forse gli psicoanalisti, ma con molti meno… secoli di tradizione). Una prima fase del dialogo si conclude con questa domanda e con la relativa risposta: «Perché debbono esistere i monasteri? Non è che debbono esistere a priori; ma esistono perché all’interno della coscienza di alcuni credenti sboccia e s’impone un movimento interiore che richiede di essere sviluppato in un ambiente composto da altri fratelli, presi dallo stesso desiderio. Se questo desiderio non c’è, è giusto che gli ambienti servano ad altri scopi».

Il discorso non si limita, tuttavia, agli aspetti più generali, ma si addentra anche per così dire nell’attualità, e d’altra parte, se si considera l’attività del p. Giabbani tra le persone e le questioni del suo tempo, non poteva essere diversamente. E dunque, quali sono le «esigenze dell’uomo d’oggi» cui il monachesimo può rispondere direttamente o per le quali rappresentare indirettamente una via? Anzitutto il bisogno di unità della persona: l’esperienza di lacerazione, o anche soltanto, divisione interiore tra tentazioni, interessi, «divinità» terrene «è alla base del cammino monastico». In secondo luogo il bisogno di libertà, che dalle circostanze e dai modi della «civiltà moderna» è tanto proclamato quanto in realtà soffocato. L’aspirazione all’amore universale, come si può concretamente attuare «in persone libere che possono mediare senza interessi di alcun genere; in comunità accoglienti, capaci di trasformare la loro presenza in testimonianza evangelica». Infine, un po’ a sorpresa, nientemeno che l’amore di sé, inteso come crescita umana e cristiana: «Gli ostacoli che potrebbero venire contro una simile crescita, umile e disciplinata, non possono essere di origine evangelica», quindi non possono essere monastici.

La mia ammirazione di miscredente va, tra le altre cose, alla precisione delle formule, ad esempio a quell’inciso «umile e disciplinata». L’umiltà, infatti, aggiunge poco oltre il p. Giabbani, «è la verità ontologica, che porta a riconoscersi per quello che si è, e non per quello che pretendiamo di essere», è la verità morale, quindi di comportamento, ed è anche «la verità logica, che ci richiama all’oggettività dei fatti e del pensiero, a esprimere con sincerità quel che si pensa, evitando intrighi e doppiezza». Non oso, non sono in grado, di parlare di verità, ma come negare la sensazione di pulizia che provo davanti a queste parole (che soltanto parole, nel caso specifico, non sono)? Certo, il monachesimo è «verace ricerca di Dio»2, ma ignorerò per questo la bellezza del metodo?

(1-segue)

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  1. Anselmo Giabbani, Colloquio monastico, Edizioni Dehoniane Bologna 1983.
  2. «Cosa si può rispondere a un giovane che vuol farsi monaco? […] Si dichiari apertamente che l’impegno supremo del monaco è la verace ricerca di Dio non sulle vie del sentimento e neppure sulle vie della dialettica, anche se è bene e proficuo conoscere, ma sulle vie che Dio stesso ha percorso per venire verso l’uomo, per cercarlo, per farsi capire dall’uomo, fino a farsi uomo lui stesso.»

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Imbottigliata e conservata (Dice il monaco, XCIX)

Dice Michael Casey (n. 1942), monaco trappista australiano dell’abbazia di Tarrawarra:

La tradizione benedettina è più che un vocabolario specializzato o un codice di condotta – per quanto ammirevole. È la trasmissione della vita. Mentre la continuità è la sua essenza, la sua missione è incompleta se non diventa un agente di cambiamento – se non fa la differenza per coloro che la ricevono. È una storia continua di un complesso di credenze, valori e pratiche che si sono cristallizzate nel testo del VI secolo conosciuto come Regola di san Benedetto. Oltre al suo contenuto oggettivo c’è un elemento che varia da persona a persona che è il cuore del suo potere di iniziare un processo di trasformazione. La tradizione non esiste al di fuori delle persone, non può essere imbottigliata e conservata. Essa è elettrica: la scintilla salta da una persona all’altra.

E in unintervista dello scorso anno risponde a questa domanda:

«Padre Michael, nei passaggi decisivi della storia la presenza monastica ha sempre avuto un’importanza decisiva. Tuttavia nel cambiamento epocale che stiamo vivendo il monachesimo registra oggi un ruolo abbastanza marginale.»

Certo, è vero: pensi a esempio che gran parte della classicità e della cultura umanistica che oggi studiamo nelle scuole e nelle università è giunta a noi attraverso la preservazione e trasmissione operata da generazioni di monaci. Ma, vede, i monaci custodiscono la memoria, la tradizione. Non è compito dei monaci cambiare il mondo, e neanche, in verità, cambiare le persone. Ai monaci non è richiesto di essere numerosi, e tantomeno di saper imporre un’egemonia culturale. Io penso piuttosto ai monaci come a un piccolo gruppo di uomini e donne, dal profilo ordinario, che cercano di vivere in semplicità il Regno di Dio. Null’altro che questo. La Grazia che i monaci possono trasmettere oggi al mondo viene da qui: essere ordinari, piccoli, semplici. La santità che i monaci ricercano nella loro vita semplice deve riuscire attrattiva, noi non dobbiamo convincere o convertire nessuno.

Michael Casey, La Regola e la tradizione. Un viaggio personale, lectio magistralis in occasione del Dottorato honoris causa consegnato dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 6 aprile 2022, in: «Vita Nostra» 23, a. XII (2022), n. 2, p. 37.

♦ Roberto Cetera, Uomo della tradizione. Il monaco secondo padre Michael Casey, in: «L’Osservatore Romano», 20 aprile 2022.

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Spiriti liberi (Reperti, 64-65: Valéry; Ginsberg)

64. Nel saggio Variazioni sulla libertà, del 1938, poi raccolto in Sguardi sul mondo attuale1, Paul Valéry svolge una elegante e paradossale ricognizione sui contenuti reali del termine «libertà» come viene comunemente usato, appunto, nel mondo attuale: società, legalità, politica, persino le cosiddette opinioni personali. Inevitabilmente, le sue conclusioni sono cupe: «Prendiamo atto che i contorni del nostro spazio di libertà sono molto mutevoli. Ho paura che da mezzo secolo a questa parte la sua area non abbia fatto che restringersi». Il testo va letto nel contesto dell’epoca in cui è stato scritto, e in quello più ampio dell’opera di Valéry, ecc., ma quello che qui interessa è il «reperto», la conclusione, per la verità un po’ affrettata, del saggio, dopo che Valéry ha elencato altri «attori» della limitazione della nostra libertà, dal progresso all’«agio», dai «mezzi troppo potenti» della stampa alla «tirannia degli orari», all’odiatissima pubblicità che ogni cosa confonde («l’assassino, la vittima, l’eroe, il centenario del giorno e il bambino martire» e, aggiunge la voce del poeta, «falsifica gli aggettivi»). «Tutto questo mira al cervello», osserva Valéry, e conclude: «Ben presto bisognerà costruire chiostri rigorosamente isolati, dove non entreranno né la radio né i giornali, nei quali sarà salvaguardata e coltivata l’ignoranza di ogni politica. Si disprezzeranno la velocità, il numero, gli effetti di massa, di sorpresa, di contrasto, di ripetizione, di novità e di credulità. È lì che in determinati giorni si andrà a osservare, attraverso le grate, alcuni esemplari di uomini liberi». Costruire chiostri o ripopolare quelli esistenti?

65. Nell’estate del 1957 Allen Ginsberg si trova in Italia, assieme a Peter Orlovsky: Venezia, Firenze, Roma, Perugia, Padova, di nuovo Venezia. All’inizio di agosto, con un «accelerato» da Roma, i due arrivano ad Assisi, sulle tracce di san Francesco, del quale Ginsberg ha letto tempo prima un volume di scritti («Avevo letto un sacco di cose su Francesco l’estate scorsa su al Nord», scrive al padre Louis, «& storicamente ero preparatissimo alla scena»2) e il cui «atteggiamento serafico e mite tra le braccia della povertà lo rendeva una figura “beat” nel senso classico in cui la intendeva Kerouac» (Michael Schumacher). I due, «sporchi con la barba lunga (“& i capelli che avevano bisogno del barbiere”) & mangiando latte & salame & frutta per la strada»), si presentano al convento, nella speranza di potervi passare la notte, ma a quanto pare i frati non sono molto dell’idea e chiedono una donazione. A corto di soldi, e un po’ sconcertati («Ho avuto l’impressione che sarebbero stati infastiditi dallo stesso san Francesco se fosse ricomparso ad Assisi nel suo mantello sbrindellato, mendicando e cantando per le strade come era solito fare», scrive Allen al fratello Eugene), Ginsberg e Orlovsky si arrangiano a dormire all’aperto («2 notti calde»), non senza discutere con i frati che parlano l’inglese di religione, Chiesa e Vaticano. «In effetti», commenta Ginsberg, «ci siamo comportati proprio come dei pazzi francescani & gli abbiamo letto poesie & e li abbiamo fatti venire fuori tutti a sbirciare di notte per vedere se eravamo davvero a dormire fuori davanti al loro santo rifugio.» (Tra parentesi, per averne un’idea, i francescani che i due incontrarono sono più o meno gli stessi che si possono vedere nel famoso filmato che mostra l’incontro, nel 1964, di Roberto Rossellini con i frati che avevano partecipato al suo film Francesco, giullare di Dio.) La definirei una scena impagabile, ed è lo stesso Ginsberg a dire che «da quando sono in Europa forse non mi sono mai divertito tanto».

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  1. Sguardi sul mondo attuale e altri saggi, a cura di F.C. Papparo, Adelphi 1994, pp. 55-76.
  2. Le citazioni, salvo diversa indicazione, sono tratte dalla lettera del 10 agosto 1957; in Allen e Louis Ginsberg, Affari di famiglia. Lettere scelte 1957-1965, a cura di M. Schumacher, edizione italiana a cura di M. Premoli, Archinto 2007. [Uno splendido carteggio.]

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Tre giorni, tre anni (Schedine: Diat; Buyse)

TroisJours Trois jours et trois nuits. Le grand voyage des écrivains à l’abbaye de Lagrasse, préface de N. Diat, postface du père Emmanuel-Marie Le Fébure du Bus, Librairie Arthème Fayard / Pluriel 2021. «Dopo le recenti esperienze di confinamento, negli anni a venire forse proprio il chiostro sarà il nostro destino globale, se i viaggi e la mobilità saranno sempre più limitati da nuove pandemie o dalla paura di un aggravamento ulteriore della crisi climatica. Le piccole società monastiche, sobrie e autosufficienti, sarebbero quindi una prefigurazione del nostro futuro: quanto di più arcaico diventerebbe quanto mai attuale.» Così Pascal Bruckner riassume le sue riflessioni nel testo che apre il libro. Libro raccoglie i testi che quindici narratori, giornalisti, intellettuali francesi, «orchestrati» da Nicolas Diat, hanno scritto dopo aver passato il breve soggiorno indicato dal titolo presso i canonici agostiniani dell’abbazia di Lagrasse, più o meno a metà strada tra Narbonne e Carcassonne («Un projet un peu fou», dice con un sorriso l’abate firmando la postfazione). Più che l’abbazia, di origini carolinge e riportata a nuova vita a partire dal 2004, e la sua comunità di oltre quaranta monaci, a riempire le pagine del volume sono le considerazioni degli scrittori invitati (che hanno offerto il loro compenso per il proseguimento dei lavori di restauro) sugli ambienti, gli orari, il tempo, la tavola, la magnifica liturgia gregoriana e così via. Personalità molto diverse, forse meno attente a osservare e ad ascoltare che a scrutare le proprie reazioni, che, va da sé, possono essere più interessanti o meno interessanti. Sorprende, forse, la sorpresa di quasi tutti di fronte al senso di straordinaria fraternità che la comunità trasmette, anche al passante frettoloso. Va anche detto che tre giorni e tre notti sono davvero pochini…

DioDiverso Raphaël Buyse, Un dio diverso, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2019 (trad. di Autrement, Dieu, 2019). L’autore, sacerdote, di questo piccolo libro ispirato («Ci sono libri che si divorano e altri che si assaporano lentamente. Un Dio diverso appartiene a entrambe le categorie», dice Enzo Bianchi) di giorni in un monastero (benedettino, belga) ne ha passati molti di più (tre anni) e così introduce il suo «resoconto»: «Quei pochi mesi passati al monastero di Clerlande mi hanno attirato in una strettoia. Hanno bruscamente interrotto il cammino che stavo facendo senza problemi da quasi sessant’anni. Più nulla è come prima. Né quello che sono, né quello che vorrei essere. E neanche quello che faccio. Quei pochi mesi di esperienza monastica hanno cambiato il corso della mia vita». Dopo anni di attività intensissima, la prolungata sosta presso una comunità di individui liberati da qualsiasi ambizione se non quella della ricerca di Dio («solidali, ma non intruppati») ha regalato a p. Buyse una prima scoperta: se interrogato direttamente, Dio tace («il suo silenzio mi ha mondato, purificato, disincrostato, strigliato, risciacquato, depurato. Mi ha cambiato, convertito, riformato e rifatto»). Prima scoperta sconvolgente e liberante, che lo ha portato a una seconda, altrettanto decisiva scoperta: «Senza tante chiacchiere, senza preconcetti ideologici e senza arroganza quei vecchi benedettini mi hanno rivelato quello che cercavano vivendo in quel luogo: l’unificazione profonda della persona». Ecco la vera scuola del monastero: l’essere umano, l’umanità («bisogna semplicemente credere nell’uomo. Nell’uomo amato da Dio»). E la comunità monastica diventa una specie di classe che accoglie scolari di tutte le età e provenienze, dove si studia, si mangia, si lavora, si prova in carne e ossa, insieme e con strumenti antichissimi, a contrastare la scissione che ci affligge, a inseguire giorno per giorno il desiderio di unità. Il Dio che parla, un Dio diverso appunto, non è altrove. «Ho compreso», scrive p. Buyse «che non c’è nulla da cercare altrove che nella profondità del quotidiano. […] Nella fragilità e nella grandezza del quotidiano si nasconde una profondità che ha il sapore dell’eternità: nell’uomo c’è qualcosa di più grande di lui. In questo io credo.» Eh, qualcosa

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