Tre brevissime lezioni e mezza

Prima lezione. C’era un anacoreta che voleva andare a trovare Poimen per via della sua fama: un sapiente, col quale potrò parlare a un certo livello, pensava. Ci si fa accompagnare da un fratello, entra da abba P e attacca a parlare «di cose spirituali e celesti». E abba P niente, si volta pure dall’altra parte. L’anacoreta, scornato, esce e dice al fratello: son venuto per niente, non parla. Allora il fratello entra nella cella di Poimen e gli fa: che c’è abba P? Questo è venuto apposta per te, perché non gli parli? Così risponde Poimen: «Egli è di lassù e parla di cose celesti, mentre io sono di quaggiù e parlo di cose terrestri. Se mi avesse parlato delle passioni dell’anima, gli avrei risposto; ma se mi parla di cose spirituali, io non ne so nulla». Prima lezione: parlare soltanto di ciò che si conosce.

Seconda lezione. Un giovane andò a vivere con Teodoro, per essergli utile e imparare qualcosa. Ma quello non gli diceva mai niente e non si faceva aiutare: abba T, fai tutto tu, non mi dai niente da fare, perché? Ancora niente, sempre niente. Allora il giovane chiede agli anziani: sono andato da abba T, ma è come se non mi vedesse nemmeno… Gli anziani vanno da Teodoro a chiedere spiegazioni e lui risponde così: «Sono forse il superiore di un cenobio, da dargli ordini? Finora non gli ho detto nulla, ma, se vuole, può fare anche lui ciò che vede fare da me». Seconda lezione: insegnare, se mai, con l’esempio.

Terza lezione. Un anziano di Scete era ancora molto forte, «ma non molto preciso nel ricordare le parole». Va da Giovanni Kolobos, quello gli dice qualcosa, lui torna nella sua cella e non se lo ricorda più; ritorna da Giovanni, ascolta, back to the cella, zac, dimenticato. Repeat. Alla fine lascia perdere. Dopo un po’ incontra Giovanni e gli fa: «Abba G, sai che mi sono di nuovo dimenticato ciò che mi avevi detto, ma per non disturbarti non sono più venuto». Allora Giovanni gli dice di prendere una lucerna e di accenderla, poi di portarne altre dieci e di accenderle con la prima. «Forse che la lucerna ha subito qualche danno per il fatto che da essa hai acceso le altre lucerne?» chiede Giovanni. No, vero? E conclude: «Così neanche Giovanni: anche se l’intera Scete venisse da me, non mi sarebbe di ostacolo alla grazia di Dio. Perciò vieni quando vuoi, senza farti alcuno scrupolo». Terza lezione: condividere sempre la conoscenza, che non si consuma.

Terza lezione e mezza: accettare le lezioni1.

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  1. Spunti da Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2001.

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Fra l’insopportabile e il pesante (Dice il monaco, CIII)

Dice un monaco cisterciense del XII secolo, forse uno degli immediati successori di san Bernardo nella carica di abate di Clairvaux:

Quando l’uomo abituato al bene pecca in modo grave, dapprima la cosa gli sembra così insopportabile che gli pare di scender vivo all’inferno. Ma con il passare del tempo la cosa non gli sembra più insopportabile, e tuttavia gli pare pesante; e fra l’insopportabile e il pesante, non è piccolo il mutamento di livello. Un poco ancora e la giudica lieve; colpito ripetutamente, non avverte più le ferite e non bada più alle sferzate. […] In un breve lasso di tempo, poi, non solo non sente, ma addirittura prova piacere, gli diventa dolce ciò che gli era amaro e quel che era aspro si fa gradevole. Quindi, è condotto alla consuetudine: così non solo ne prova piacere, ma lo prova ripetutamente e non può più contenersi. Alla fine non può davvero esserne più strappato, perché la consuetudine si trasforma in natura, e ciò che prima era impossibile fare, ormai è impossibile contenere. È così che si scende, anzi, si cade, da Gerusalemme a Gerico: in questo modo si procede verso l’allontanamento da Dio e verso l’indurimento del cuore. A questo punto il peccatore puzza, è di quattro giorni [come il corpo corrotto di Lazzaro].

♦ Anonimo pseudo-bernardiano del XII secolo, La coscienza, 4, in: La sapienza del cuore. La coscienza al cuore della vita spirituale in alcuni testi monastici del XII secolo, a cura di R. Larini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 1997, pp. 136-37.

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Fantasilandia (Dalle lettere: Montini a Merton)

«Sono convinto che mi adatterei perfettamente alla vostra vita, specialmente se questa è come viene descritta tra le pagine del suo bel libro L’Eremo, del quale ho appena finito di leggere con grande interesse la parte dedicata alla vita eremitica.» Così scrive Thomas Merton, nel giorno di Natale del 1952, ad Anselmo Giabbani, allora priore generale di Camaldoli. L’attrazione di Merton, trappista, per la solitudine, per una scelta monastica di più intensa contemplazione, veniva da lontano e ha lasciato innumerevoli tracce nei suoi Diari (che non ho ancora letto). All’incirca nel quinquennio 1950-55 tale attrazione conobbe una fase particolarmente acuta, che si tradusse in alcuni gesti concreti, seppur senza esito, e in uno scambio epistolare con vari religiosi di cui il volume curato da Mario Zaninelli dà esauriente conto1. La vicenda, che vide un primo orientamento verso i Certosini e uno successivo, molto più deciso, verso i Camaldolesi, merita un più ampio approfondimento, qui mi preme per il momento evidenziare una lettera che Giovanni Battista Montini, da meno di un anno arcivescovo di Milano, indirizzò a Merton il 20 agosto 1955, e che non esiterei a definire un capolavoro.

Il futuro papa rispondeva a una lettera di qualche mese prima nella quale lo stesso Merton gli aveva espresso apertamente le sue «difficoltà vocazionali» e il suo desiderio di lasciare l’abbazia di Gethsemani e i cisterciensi e di approdare a Camaldoli. La lettera di Merton era stata preannunciata a Montini da d. James Fox, abate di Gethsemani, che si era manifestato più volte contrario al «trasferimento» e ne aveva anche ostacolato qualsiasi mossa preparatoria: «Padre Louis [nome di religione di Thomas Merton] pensa che io non dia al suo caso la sufficiente attenzione, Proprio oggi abbiamo parlato per oltre un’ora e un quarto, e questa non è la prima volta. Gli ho detto che necessito di più tempo per valutare tutto bene, ma al momento mi sembra che ci sia più personalismo che grazia, più autosoddisfazione che ricerca di Dio».

Montini esordisce riferendo di aver meditato a lungo sulla questione («La ricerca di un bene maggiore è sempre cosa che merita grande attenzione»), accennando anche a un certo «timore riverenziale» nel rivolgersi a una personalità quale quella del noto scrittore «Father Merton». Ci sono poi gli impegni diocesani che lo assorbono, le «occupazioni incessanti» che consumano il suo tempo, «ma oggi scrivo», grazie anche alla visione del paesaggio della «bella pianura padana» (Montini scrive da Gussago, negli ambienti che avevano ospitato proprio un monastero camaldolese). Dare consigli è un’impresa che spesso sopravanza le possibilità umane, e tuttavia… Anzitutto la vita contemplativa «non ha ancora, in Italia, una espressione piena», Camaldoli è un centro di luce, ma la strada da fare è ancora molta. In secondo luogo se si desse corso a un eventuale trasferimento «molte anime sarebbero sfavorevolmente impressionate» (era la preoccupazione primaria dell’abate Fox: se Merton se ne va, pessima pubblicità per Gethsemani e per i trappisti americani). Il bene che Merton ha prodotto con i suoi scritti sarebbe «rovinato».

Queste, tuttavia, sono motivazioni estrinseche, riconosce Montini, sui più profondi aspetti spirituali personali «io debbo tacere. Troppo poco io conosco per parlare, per consigliare.» Due suggerimenti, però, sente di poterli dare. Ed è qui che, se posso permettermi, Montini piazza un formidabile uno-due, che Merton apprezzerà e incasserà quasi con gratitudine. Un paragrafo conclusivo cesellato con una delicatezza che pure non lascia scampo, una lezione che forse valica i confini della questione monastica da cui trae spunto. Il primo suggerimento, scontato, è quello di rimettersi al discernimento del suo abate: l’umiltà è sempre un’ottima strada per conoscere la volontà di Dio (quella volontà per manifestare la quale «Dio non ci manda un telegramma», nelle parole dell’abate Fox).

«L’altro è quello che riguarda l’insoddisfazione che spesso accompagna le anime desiderose di perfezione circa i mezzi impiegati per ottenerla. Io dico soltanto che questa insoddisfazione non può essere criterio unico per il governo pratico della propria vita, specialmente quando questa ha già fissato uno stato già favorevole alla perfezione. Bisogna anche ricordare che la perfezione non consiste nelle circostanze che la favoriscono, ma piuttosto nella carità dell’anima che la cerca; e che la ricerca, ad un dato momento, non si rivolge alla modifica delle condizioni esteriori di vita, ma alle condizioni interiori di sentimento e di orientamento spirituale. Di solito nessuno gode della conquista di condizioni conformi ai propri sogni e ai propri piani; circostanze provvidenziali cambiano il programma pratico della nostra vita; e bisogna alla fine amare e servire quella forma di vita che le vicende provvidenziali del nostro pellegrinaggio ci impongono, lasciando desideri di cambiamento che allontanano il cuore dalla realtà morale presente per trasferirlo in un regno di fantasia.»

Insomma, rimani dove sei, Thomas, pregherò per te e tu ricordami nelle tue preghiere.

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  1. La solitudine dell’eremo. Thomas Merton e i camaldolesi, a cura di M. Zaninelli, Nerbini 2018.

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Edificazione domenicana: sei storie dalle «Vitae Fratrum»

  1. A san Domenico che stava guadando l’Ariège, nei pressi di Tolosa, «nell’arrotolarsi la tonaca alla cintura gli caddero nel fiume i libri che aveva in seno». Non se ne lamentò, anzi, lodò il Signore per l’accaduto, come faceva per ogni cosa. Tre giorni dopo un pescatore li ripescò, «asciutti come se fossero stati custoditi con somma cura in qualche armadio: cosa oltremodo meravigliosa, perché quei libri non avevano alcuna protezione, né di panno né di pelle». (90)
  2. Una notte san Domenico scorse il diavolo che si aggirava per il convento. Che ci fai qui, maledetto?Ne approfitto, rispose quello. Nel dormitorio «li [i frati] faccio dormire troppo ed alzarsi tardi… E poi, quando posso eccito in loro stimoli carnali e fantasie»; in chiesa li faccio arrivare in ritardo e «li faccio distrarre mentre pregano»; chi c’è poi in refettorio «che non mangia troppo o troppo poco»; e il parlatorio infine «è tutto mio: è qui che si ride, si schiamazza e si fanno discorsi al vento». Allora il santo lo trascinò nella sala capitolare. Ah, no! Disse il diavolo. Qui i frati confessano le loro colpe, qui vengono accusati, qui fanno penitenza e vengono assolti, «questo luogo è per me un inferno». (101)
  3. In viaggio nei dintorni di Besançon, un giorno, il beato Giordano di Sassonia cadde ammalato. Era a letto, tormentato dalla febbre e dalla sete, quando gli si presentò un giovane, «con una salvietta al braccio, come se fosse un cameriere», che gli offrì da bere: Bevi, è buono, ti farà bene. – Non ci penso nemmeno, rispose il beato, e il Maligno si dissolse. (148)
  4. Fatta la confessione, in vista della Comunione del giorno successivo, un novizio del convento di Losanna se ne andò a dormire sereno. Appena addormentato gli si presentò il diavolo: Sì sì, dormi, dormi, ma io c’ho qui un foglietto con le colpe che non hai confessato… Dai, fammi vedere, disse il novizio. See, buonanotte, replicò il diavolo, e scomparve. «Ma inciampò nel vaso dell’acqua santa ch’era lì e il foglio gli cadde. Il frate allora lo raccolse in fretta e…» Al risveglio, supplemento di confessione, e tutto fu sistemato. (216)
  5. Salamanca, 1252. Un professore di filosofia va sentir messa dai domenicani. Alla fine, scoppiato un temporale della m…, il sottopriore lo invita a pranzo. Poi, visto che la pioggia non cessa, gli presta una cappa da frate per tornare a casa: Ah ah, maestro Nicola, vi siete fatto frate! – Eh sì, proprio così, come no! ridacchia il professore, e per tutto il resto della domenica ci scherza su con studenti e conoscenti. Di notte, però, lo prende una febbre tremenda e ode una voce: «Credi forse che io esiga rispetto ed onore solo per le persone dei Frati Predicatori e non anche per il loro abito?» Il mattino dopo il professor Nicola diventa fra Nicola. (238)
  6. «Dotato di bella voce per il canto, adatto all’insegnamento, capace di scrivere e di dettare, buon predicatore, di bell’aspetto e di fascino», c’era un frate che volle lasciare l’Ordine per fare carriera, «come si sussurrava», presso un’abbazia di canonici regolari. Esattamente un anno dopo che, pieno di sé, ebbe svestito l’abito avvenne che, proprio in uno degli ambienti di quell’abbazia, «alcuni si esercitassero al tiro a segno con l’arco». Una freccia andò fuori bersaglio, rimbalzò contro una parete e si conficcò in un occhio dell’ex frate. «Nessun rimedio gli valse.» (403)

Le cinque storie sono tratte da: Storie e leggende medievali. Le «Vitae Fratrum» di Geraldo di Frachet o.p., traduzione e note di p. Pietro Lippini o.p., Edizioni Studio Domenicano 1988. Composta tra il 1257 e il 1260, e successivamente ampliata, l’opera fu realizzata su iniziativa di Umberto di Romans (che l’approvò nel capitolo generale di Strasburgo del 1260), «prima che l’oblio, che già molte cose ha cancellato dalla mente dei frati, non finisca per seppellire ogni cosa». Così Geraldo, il compilatore incaricato da Umberto, conclude la sua prefazione: se il lettore troverà qualcosa di buono in questo libro, il merito ovviamente sarà del Signore; se invece non gradirà, ricordi che non tutti hanno gli stessi gusti, e «non stronchi il mio lavoro con rabbia e disprezzo. Il disprezzo è proprio di chi crede impossibili le cose meravigliose e spregevoli quelle edificanti».

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La schiuma delle parole: i certosini e i libri

Sull’ultimo numero di «Benedictina» è apparso un articolo molto interessante della studiosa Emanuela Garibaldi dedicato al ruolo dei libri e della lettura all’interno dell’ordine certosino, con particolare riguardo agli aspetti pratici e normativi1. Lo studio si estende dalle prime scritture normative, le Consuetudines Cartusiae del priore Guigo I, del 1127, attraverso le varie stesure degli Statuti, fino agli Annales ordinis Cartusiensis del priore Innocent Le Masson (1627-1702).

Sin da subito è chiaro come il libro sia centrale per la vocazione certosina («oggetto privilegiato nella propria formazione intellettuale e spirituale»), orientata al distacco dal mondo e alla contemplazione delle «cose divine»; libro da leggere, da trattare con somma considerazione, ma anche libro da ricopiare: il monaco, scrive infatti Guigo, «riceve dalla biblioteca [de armario] due libri da leggere. Riguardo ad essi gli viene ordinato di prestare tutta l’attenzione e la cura a che non vengano sporcati né dal fumo, né dalla polvere, né da qualunque altro tipo di sporcizia. Vogliamo, infatti, che i libri, quale eterno cibo delle nostre anime, siano custoditi con la massima cautela e con il massimo impegno, affinché, dato che non possiamo predicare la parola di Dio con la bocca, lo facciamo con le mani. Quanti sono, infatti, i libri che ricopiamo, altrettanti araldi della verità in vece nostra ci sembra di fare»2.

Cautela e impegno massimi anche perché i libri sono pochi e costosi da produrre, in termini di materiali e di tempo, tanto che nei testi legislativi compaiono assai presto disposizioni riguardanti il loro possesso, il prestito e la mancata restituzione. Anzitutto il possesso che non può mai in alcun modo essere individuale, bensì sempre e soltanto del monastero, un legame che rimane inscindibile anche in caso di prestito (per esigenze di copiatura) o di temporaneo spostamento (in seguito a viaggi, soprattutto di priori). La mancata restituzione, poi, è trasgressione tutt’altro che lieve: «Il XV secolo è costellato di ordinationes capitolari inerenti a diatribe legate alla proprietà di beni librari». Gli scambi e le delibere vengono discusse nel Capitolo annuale di Grenoble e non sono cose da trattarsi con leggerezza: c’è traccia ad esempio del priore della certosa di Capri che nel 1423 si dimentica di portare i libri che doveva restituire ai monaci di Villeneuve-les-Avignon, o il denaro corrispondente al loro valore, e non è nemmeno la prima volta: gli viene quindi imposta l’astinenza dal vino. In certi casi le pene per i «crimini librari» possono arrivare alla sospensione dal proprio ufficio o addirittura all’incarcerazione (occorsa nel 1426 a un monaco di Valbonne per aver sottratto una Bibbia e un salterio già promessi ad altra certosa).

Va da sé che il punto di svolta è rappresentato dall’invenzione e diffusione della stampa, ma, se l’ansia per la penuria dei libri si stempera (ancorché lentamente), non diminuisce la preoccupazione per la correttezza dei testi sui quali i monaci pregano, studiano o meditano, che anzi si acuisce in seguito all’esplosione della Riforma e ai risvolti anche librari che assume. Il tempo che prima era dedicato alla copiatura si riversa, per così dire, in quello riservato alla lettura; attenzione, però: la maggiore disponibilità non deve tradursi in distrazione o pericolosa bramosia di sapere. Per dire, sono proibite tutte le edizioni delle sacre scritture curate da Erasmo («contrarie alla religione certosina»); viene scoraggiato lo studio eccessivo del greco («Vi sono infatti alcuni che […] affermano anche che nessuno possa giungere alla vera conoscenza e comprensione delle Sacre Scritture se non è istruito nella lingua greca. E così trascorrono il tempo concesso per le letture sacre, cedendo a una certa curiosità d’animo, nelle lettere greche, oltre che in quelle ebraiche»); va bene lo studio, soprattutto per i monaci maturi e formati, ma alcune materie vanno evitate, in primis l’alchimia e l’astrologia («Ingiungiamo solennemente, pena la reclusione, che [il monaco] non si immischi nelle previsioni fallaci dell’astronomia», 1462), ma anche in certa misura la medicina e il diritto (che spinge a occuparsi di questioni cavillose e infruttuose).

Da tali preoccupazioni derivano così elenchi di libri «giusti» e di edizioni corrette, l’introduzione dell’approvazione del priore generale per la stampa di testi liturgici, il divieto di porre aggiunte o correzioni in margine ai libri concessi, l’adozione delle disposizioni dell’Indice di Paolo IV (1559) e di quelli successivi, l’obbligo per i padri visitatori di controllare i libri presenti nelle biblioteche e nelle celle dei monasteri («Ordiniamo che i visitatori di ciascuna Provincia, nonché i convisitatori, quando visitano le case a loro affidate, verifichino i libri conservati sia nelle singole celle sia nelle biblioteche comuni, e che lo facciano con la massima cura possibile», 1567); le grandi imprese di pubblicazioni uniformi dei testi fondativi e statutari. E così via, in buona sostanza fino al XVIII secolo.

D’altra parte, la lettura del monaco certosino ha sempre e soltanto uno scopo, ben chiaro anch’esso sin dalle origini. Lo afferma Bernardo, priore di Portes, nella famosa lettera a un monaco recluso, del 1128-30: «Accostati alla lettura devotamente e con desiderio spirituale, affinché tu possa udirne qualcosa che valga come esempio per la tua conversione, oppure, come il Signore si degnerà di fartene dono, tu possa essere ristorato dalla dolcezza dei discorsi e dei misteri divini. Leggi tutte le sacre Scritture di cui potrai disporre con questa diligenza e con tale intenzione, non per gonfiarti di sapienza, ma per essere edificato nella carità». E con una bella immagine lo suggerisce lo stesso Guigo, in una lettera sulla vita solitaria dei medesimi anni: «Si dedica [il monaco] alla lettura, soprattutto di opere canoniche e religiose, nelle quali conta più il midollo del significato che la schiuma delle parole [in quibus eam magis occupat medulla sensuum quam spuma verborum]».

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  1. Emanuela Garibaldi, «Eterno cibo delle nostre anime»: la disciplina della lettura nelle fonti normative dell’ordine certosino, in «Benedictina» 69 (2022), n. 1-2, pp. 55-93.
  2. Le consuetudini di Guigo I, XXVIII, 3-4, in Fratelli nel deserto. Fonti certosine II. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2000.

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Uomo avvisato, mezzo salvato (Dice il monaco, CII)

Dice Pacomio, il padre del monachesimo cenobita, intorno (diciamo) al 330:

Ti prego vivamente di avere in abominio la vanagloria. La vanagloria è l’arma del diavolo. In questo modo fu ingannata Eva. (Il diavolo) le disse: «Mangiate il frutto dell’albero, si apriranno i vostri occhi e diventerete come dei». Ascoltò, pensando che fosse la verità, inseguì la gloria di Dio e le fu tolta anche quella umana. E anche tu, se insegui la vanagloria, essa ti rende estraneo alla gloria di Dio. Ma per Eva non era stato scritto per avvertirla di questa guerra, prima che il diavolo la tentasse; per questo il Verbo di Dio venne, si incarnò nella vergine Maria per liberare la stirpe di Eva. Tu invece, riguardo a questa guerra, sei stato ammaestrato nelle sante Scritture dai santi che ti hanno preceduto. Perciò, fratello mio, non dire: «Non ne avevo sentito parlare», oppure: «Non mi era stato detto nulla di questa cosa né ieri, né l’altro ieri».

♦ Pacomio, Catechesi, 24, in: Pacomio e i suoi discepoli. Regole e scritti, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1988, pp. 214-15.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 3/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui, la seconda qui)

Tra le molte suggestioni prodotte dalla lettura della Regola delle recluse1 ce n’è una di ordine – oserei dire – psico-teologico che mi ha attirato particolarmente.

Analizzando i rischi che la reclusa corre ascoltando dicerie e pettegolezzi che il Tentatore, per tramite di qualche persona solo apparentemente pia, le offre alla finestra della cella, Aelredo dice che, «ritornata alla quiete, la poveretta rimugina nel suo cuore, trasformate in immagini, le cose che le sue orecchie vi avevano inserito, e trasforma in incendio violento quel fuoco che era stato attizzato dalle chiacchiere precedenti. Nei salmi balbetta come fosse ubriaca, nella lettura le si appanna la vista, barcolla nella preghiera». Il punto decisivo mi pare essere quel «trasformate in immagini», che sposta il problema sulla dimensione, appunto, visiva. Dimensione che rimanda a uno degli aspetti costitutivi della reclusione volontaria: ci si rinchiude per non vedere il «mondo presente» e quindi poter intravedere quello «futuro», si oscura l’aldiquà per gettare una prima luce sull’aldilà. O, ancora, si esclude il «visibile» per affacciarsi all’«invisibile».

Già Pietro il Venerabile, indirizzando la sua lettera sulla vita eremitica (la 20 del suo epistolario) al monaco Gisleberto, gli augura «nell’angustia della cella la vastità del cielo»; mentre Guglielmo di Saint-Thierry, scrivendo ai fratelli certosini, nella sua Lettera d’oro (31), ricorda che «la porta chiusa non significa nascondiglio, ma ritiro segreto», e che «la dimora del cielo e quella della cella si assomigliano; poiché, come il cielo e la cella mostrano una qualche parentela nel nome, così ce l’hanno anche nella pietà. Sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle».

Ora, nel corredo standard del materialista il «vedere», con riferimento preciso al «visibile», è un’acquisizione non più rinunciabile: si deve poter vedere, in ogni declinazione possibile, dall’esperienza dei sensi all’esplorazione geografica, dal controllo delle fonti all’esperimento scientifico, fino al giornalista che «va a vedere» il fatto prima di riferirne, ecc. Nondimeno il materialista non è insensibile ai pericoli dell’interferenza, del rumore di fondo che inquina la percezione, e quindi osserva la reclusione volontaria (stravolgendone il significato propriamente cristiano) come strumento di depurazione del «segnale», alla ricerca di ciò che non è immediatamente visibile. Ma di quale «segnale» si tratta?

Aelredo non si stanca di mettere in guardia dagli attacchi che provengono dall’interno, anche quando si sia chiusa la porta all’esterno, perché «il male che portiamo incluso nelle nostre membra spesso risveglia istinti temibili» (il corsivo è mio, con una speciale considerazione per quell’«incluso»); e Pietro il Venerabile è ancora più esplicito quando ricorda che «il mondo, passando per un accesso familiare [cioè, con tutta evidenza, l’immaginazione] si offre agli occhi dell’anima con tutte le sue cose», e così rivela un «invisibile» ben diverso da quello che il recluso si aspettava: «In questo modo, mentre imperversano nelle zone arcane della sua mente sensazioni di cose svariate, poiché l’animo non vede niente di quello che pensa se non una celletta vuota, dormicchiando per la noia, cerca rimedio a questa noia miserevole non in Dio ma nel mondo, non in sé ma fuori di sé; il che gli procura un danno ancora più grave».

Istinti temibili, noia, zone arcane della mente: concetti ed espressioni quanto mai familiari al materialista novecentesco, anche quello modestamente attrezzato, no?

(3-fine)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 2/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui)

Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx1, infatti molte «ignorando o non prendendo sul serio il motivo di questa istituzione, ritengono che si sufficiente rinchiudere tra quattro pareti soltanto il loro corpo, lasciando invece che lo spirito sia libero di dissolversi in mille divagazioni», eccetera eccetera; e poi stanno sempre a parlare con qualche «vecchia garrula e pettegola», si fanno raccontare le cose del mondo e poi ci rimuginano, si figurano quanto hanno ascoltato, si preoccupano delle loro proprietà, dei soldi, scrivono lettere, fanno regalini o addirittura «mandano cinture e borse intessute e ricamate con colori variopinti a giovani monaci e chierici». Insomma, fanno entrare dalla finestra (quella maledetta finestra) quel mondo turpe che si sarebbero lasciato alle spalle, e con esso il Tentatore e il suo veleno. Anche le attività più apparentemente nobili sono pericolose, come occuparsi dell’insegnamento di ragazzi e ragazze, trasformando la cella in una scuola. La scena descritta da Aelredo merita di essere riportata per intero: «La reclusa siede alla finestra [appunto], mentre le ragazze si raggruppano nel portico [del chiostro, quindi]. Le guarda una a una, e secondo i loro comportamenti infantili, ora si adira, ora ride, ora minaccia, ora blandisce, ora picchia, ora bacia, ora tira vicina una che piange per essere stata castigata, le accarezza il volto, se la stringe al collo, la trascina a sé con abbracci, la chiama “figliola mia, tesoro”». Si guardi da tutto questo, la reclusa! Per le sue necessità si scelga «una donna anziana» e posata che faccia la guardia alla porta e che tenga al suo servizio «una ragazza più forte e capace di fare i lavori faticosi, che porti l’acqua e la legna, faccia cuocere le fave e gli ortaggi o, se una malattia lo richiede, prepari cibi più sostanziosi». Tu, mia amata sorella reclusa, sposa di Cristo, «tu sta seduta, sta zitta, aspetta».

Sistemati gli aspetti pratici (orari, lavoro manuale, letture, digiuni, abbigliamento), nella seconda parte Aelredo passa in rassegna la «disciplina interiore delle virtù». La verginità, anzitutto, il tesoro più prezioso, poi la castità (che non può prescindere dalle privazioni e dalle mortificazioni, che non devono spaventare, «come se la fiamma della libidine fosse più tollerabile dei bruciori di stomaco»), l’umiltà (occhio, che «c’è anche una sorta di vanità nel compiacersi di una cella curata con eleganza») e infine la carità. Ma come può la reclusa nella sua condizione esercitare l’amore per il prossimo? Con la volontà buona e con la preghiera: «Abbraccia dunque tutto il mondo nell’unico grembo dell’amore, e lì pensa a tutti quelli che sono buoni, e rendi grazie, e insieme guarda a quelli che sono cattivi, e piangi». L’unico modo santo in cui il mondo può rientrare nella cella è tramite l’orazione, che rappresenta la sola prospettiva dalla quale la monaca deve osservarlo e amarlo, senza distinzioni: i poveri, gli orfani, le vedove, i tristi, i pellegrini, le vergini, i naviganti, i monaci tentati, i prelati carichi di responsabilità, persino coloro che sono in guerra: tutti costoro sfilano in corteo nella preghiera della reclusa.

La terza e ultima parte della Regola accoglie tre meditazioni sui beni passati, presenti e futuri, o più esattamente attesi: tre testi molto belli che possono anche essere letti separatamente dal resto e che ebbero larga fortuna, tanto da essere attribuiti ad altri autori e da essere inseriti nella diffusissima raccolta di Meditazioni intestata a sant’Anselmo. Le meditazioni mirano a suscitare una serie di immagini capaci di accendere sentimenti di devozione e pietà, creando una «memoria affettiva» cui attingere durante la quotidiana lotta per la conquista delle virtù: un metodo che anch’esso avrà larga fortuna. Quella sul passato è una ricapitolazione dei principali episodi evangelici, durante la quale dobbiamo immaginarci testimoni diretti dei fatti, insieme con gli apostoli, col paralitico, con l’adultera o presenti all’ultima cena come quattordicesimi convitati. La seconda meditazione, rivolta al presente, è per così dire quella più autobiografica, in cui si passa in rassegna il bene che si è ricevuto e il male che si è fatto (e Aelredo confessa apertamente il suo), e la certezza che l’aiuto di Dio non mancherà mai a chi lo chieda. La terza meditazione si concentra infine sui cosiddetti «novissimi», cioè morte, giudizio, inferno e paradiso. Qui, se ripensiamo a quanto accennato sull’esperienza, possono sorgere dei problemi. Aelredo si affida, comprensibilmente, alla Scrittura, ma conclude la parte sull’«eterno riposo» che attende i beati con un commento molto significativo: «Per la verità, cosa sarà quel riposo, quella pace, quella felicità… la penna non lo può descrivere perché l’esperienza non l’ha ancora insegnato».

Similmente il paradiso si disegna al negativo, per tutto quello che in esso mancherà, che non è altro che ciò che affligge gli esseri umani, in sintesi: la vita, riassunta in un brutale elenco, non privo di un dettaglio inatteso: nessun lutto, o pianto, «o dolore, o timore, nessuna tristezza, nessuna discordia o invidia, nessuna tribolazione, nessuna tentazione, nessun cambiamento di tempo, né un cielo coperto di nuvole, nessun sospetto, né ambizione, né adulazione, né calunnia, nessuna malattia, né vecchiaia, né morte, non povertà, né tenebre, nessun bisogno di mangiare o bere o dormire, nessuna fatica, nessuna debolezza».

La formula con la quale Aelredo definisce il paradiso è memorabile: «Cosa sarà questo regno noi non riusciamo a immaginarlo, tanto meno a esprimerlo in parole o a metterlo per iscritto. Questo so, che niente mancherà di quello che tu desideri e che niente ci sarà che tu non voglia».

(2-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 1/3)

RegolaDelleRecluse Sappia, la monaca reclusa, «di non essere sola quando è sola. Allora infatti è con Cristo, il quale non si degna di stare con lei quando è nella folla». Se ne stia dunque sola, seduta, in silenzio e ascolti e parli soltanto con Gesù. La prima parte della Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx1 – delle tre di cui è composta – è dedicata al comportamento esteriore che la monaca reclusa deve tenere per potersi dire veramente tale. Siamo nella seconda metà del XII secolo e il fenomeno della reclusione volontaria, soprattutto femminile, per quanto piccolo, non è trascurabile. Nata nel deserto delle origini, sviluppatasi lungo tutto il Medioevo eremitico e cenobitico, sfocia infine nella sua «epoca d’oro» tra XI e XIV secolo, quando la dimensione cittadina che assume ne esalta la vocazione paradossale e contraddittoria2, quella cioè di ricercare e vivere la solitudine in mezzo alla gente, di fuga dal mondo dentro il mondo stesso3. È così che i reclusori che punteggiano le città (a Foligno, per fare un solo numero, nel 1370 sono censite 62 «incarcerate») diventano quasi dei punti di riferimento per la popolazione dei laici, rappresentando il segno di una fede vissuta nel sua forma più pura, esercitando una specie di protezione sulla popolazione e al tempo stesso fornendo una sorta di anticipazione della promessa di beatitudine futura: le recluse e i reclusi (molti meno) sperimentano un assaggio del paradiso e lo additano agli occhi di chi è ancora alle prese con le miserie dell’aldiqua. Lo rappresentano e in qualche misura ne riferiscono anche, stanti i rapporti che hanno con i laici che li visitano e ne cercano la parola ispirata.

Per molti secoli, tuttavia, la reclusione volontaria si appoggia, per così dire, ai monasteri, che ospitano al loro interno celle dalle quali, con il consenso della badessa o dell’abate, monache e monaci non escono mai, pur intrattenendo, per forza di cose, alcuni contatti con il resto delle comunità4. Per quanto «fuori dal mondo», le recluse devono pur mangiare (poco), devono pur fare qualcosa (oltre pregare), sono sepolte, sì, ma pur sempre vive. Si dà, quindi, la necessità di una «regola per le recluse», e Aelredo, secondo le ricostruzioni degli studiosi, arriva per terzo, dopo Grimlaico, egli stesso recluso, che redige una Regola dei solitari verso la fine del IX secolo, e Pietro il Venerabile, il sommo abate cluniacense, che qualche tempo dopo il 1134 scrive a Gisleberto (o Gilberto), recluso a Senlis, una lunga lettera, tradizionalmente tramandata come un trattato sulla vita eremitica.

La Regola di Aelredo, che viene datata intorno al 1160, è dedicata alla sorella maggiore (di cui purtroppo non si conosce il nome) e questo le conferisce un tono di particolare partecipazione emotiva che, insieme con le notazioni autobiografiche che Aelredo vi sparge, ha suscitato altrettanta partecipazione anche nei lettori più recenti. Anche senza considerare Aelredo come «il più poliedrico degli autori della prima generazione cistercense» (D. Pezzini), e che anch’egli ha vissuto un’esperienza di semi-reclusione (circostanza decisiva per un cistercense: si scrive e si parla di ciò di cui si ha esperienza) quando, da abate di Rievaulx, tormentato da una serie di malanni, si era fatto costruire una specie di eremo a lato del chiostro (il suo biografo lo chiama mausoleum, tugurium e secretarium) nel quale riceveva i confratelli, e mettendo infine da parte la sua fama di cantore dell’amicizia monastica, la lettura della Regola delle recluse, anche astraendo dal suo contesto storico, è interessantissima.

Anzitutto, forse, per la concretezza (anch’essa decisamente cistercense) con la quale Aelredo attacca il suo argomento. Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx…

(1-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003. L’estesa introduzione di Domenico Pezzini è quanto di più utile per un primo orientamento sul fenomeno della reclusione volontaria.
  2. Jean Leclercq sintetizza ottimamente come l’eremitismo rappresenti il paradosso di una vocazione «a praticare l’obbedienza senza superiore, la carità senza fratelli, e l’apostolato senza azione».
  3. Una dimensione che in varie forme si è perpetuata sino ai giorni nostri, ad esempio in realtà che vengono definite «monachesimo interiorizzato» o «eremitismo urbano».
  4. Scrive lo studioso inglese Giles Constable (citato da Pezzini) che la presenza di celle per reclusi nei monasteri «in certi casi funzionava come valvola di sfogo per attività religiose incompatibili con la vita di comunità, e anche, bisogna aggiungere, per membri della comunità che risultavano essi stessi incompatibili».

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Tre guerre, tre paradisi, tre inferni (e finale con tamburelli)

Non si sa mai dove si va a finire quando si segue il filo delle note e delle citazioni…

Stavo leggendo, finalmente, la Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx quando, seguendo appunto il concetto di «reclusione», «esclusione», «separazione», e il richiamo del numero 3, sono finito su un breve detto del «padre» del monachesimo, che alla dimora nel deserto, forma primaria di separazione dal «mondo», associa la fine di tre delle grandi «guerre» che ci devono impegnare. «Chi abita nel deserto e vive nella quiete», dice infatti abba Antonio, «è liberato da tre guerre: quella dell’udito, quella della parola e quella della vista. Gliene resta una sola: quella del cuore.» La reclusione è quindi strumento efficacissimo per concentrarsi sul «combattimento spirituale» decisivo. Favorendo il quale, la cella e il chiostro, allora, derivazioni dirette del deserto delle origini, rappresentano una parziale anticipazione della condizione di beatitudine che attende il fedele penitente. Sono in qualche misura una forma di paradiso. Anzi tre, come dice un anonimo del XII secolo scovato da Jean Leclercq: «Il paradiso della Chiesa ha tre paradisi: il paradiso dell’eremo, il paradiso del chiostro e il paradiso della reclusione, cioè del recluso». E possono anche essere chiamati paradiso «perché in essi ci si dà alla lectio, alla meditazione, all’orazione, alla compunzione e alla contemplazione». In pieno accordo con Guglielmo di Saint-Thierry, che accomuna cielo e cella alla medesima sorgente, precisando che «sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle. E che cos’è? È dedicarsi a Dio, godere di Dio». Antonio non sarebbe stato d’accordo con questo sviluppo, e non lo era san Bernardo, che ci richiama invece alla moltiplicazione degli inferni, compreso quello claustrale. In uno dei Sermoni vari, quello per l’Avvento, l’abate di Chiaravalle dice che «c’è infatti un triplice inferno». Il primo è quello della punizione, della pena senza remissione, dove non si condona niente a chi ha offeso Dio: è quello dell’esazione, «perché vi si esige fino all’ultimo spicciolo». Il secondo è quello dell’espiazione, in altre parole il purgatorio, «destinato alle anime che devono purificarsi». Infine il terzo, quello dell’afflizione e della «povertà volontaria», dove chi rinuncia al mondo anticipa la penitenza «così da non passare dalla morte al giudizio, ma dalla morte alla vita». In questo «inferno beato della povertà» nacque, visse e morì Gesù stesso, e vi raduna quelli che sottrae alla perdizione. Ma non solo: «In questo inferno ci sono giovani adolescenti [adulescentulae novae], cioè le anime degli incipienti, fanciulle che suonano tamburelli [iuvenculae profecto tympanistriae], con gli Angeli principati che le precedono con cembali armoniosi e le seguono con cembali di giubilo».

E così, partito dal deserto, sono finito in mezzo a un corteo di ragazze e angeli musicanti…1

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  1. La citazione di Antonio viene dai Padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, II, 2, a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2013, p. 95; l’anonimo del XII secolo è citato da J. Leclercq in un articolo del 1943 segnalato da Domenico Pezzini nell’introduzione a Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, Paoline 2003, p. 11; il parallelismo di Guglielmo di Saint-Thierry si trova nella Lettera d’oro. Lettera ai fratelli del Monte di Dio¸ introduzione e note di G. Como, traduzione di D.  Coppini, Paoline 2004, p. 158; il sermone di san Bernardo si può leggere in Sermoni diversi e vari, introduzione di J. Leclercq, traduzione e note di D. Pezzini (Opere di San Bernardo, IV), Scriptorium Claravallense, Città Nuova, 2000, pp. 631-647.

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