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«Però farò come mia alma brama» (Voci, 6)

santaeufrosinaIl tema della donna che si traveste da uomo per entrare nel monastero che altrimenti le sarebbe precluso ha avuto una larga diffusione, sin dai tempi del monachesimo delle origini, e frequentando la letteratura monastica vi ci s’imbatte facilmente. Mi è capitato di recente con la storia di santa Eufrosina: partendo dalle Vite dei Padri, e transitando dai relativi volgarizzamenti di Domenico Cavalca, sono approdato all’interessante Rappresentazione di santa Eufrosina vergine. La quale essendo maritata si fuggì tra monaci come maschio, & ivi stette trent’otto anni, & alla sua morte fu conosciuta dal padre, si come ella volse, di autore ignoto e stampata a Firenze nel 1585 da Giovanni Baleni1.

La giovane Eufrosina è stata promessa dal padre Panuzio a un «degno sposo», e in vista delle nozze, ormai imminenti, proprio il padre la conduce presso un monastero in modo che l’abate possa istruirla sulle virtù cristiane. Oltre che dalle parole dell’abate, tuttavia, Eufrosina è molto colpita anche da quello che vede, tanto che comincia a meditare di abbracciare la vita religiosa, ma al tempo stesso non vuole disubbidire al padre. In preda ai dubbi, un giorno, di nascosto al padre, fa venire a casa un monaco di quelli che aveva visti e…

Giugne il frate in camera, e la serva è per casa a far le faccende e ‘l frate & Eufrosina si pongon ginocchione, e di poi il frate la benedice, & pongonsi a sedere, & Eufrosina dice.

 

O padre mio questa pompa fallace

del mondo cieco indotto ha il padre mio

a maritarmi benché sia capace

della fede christiana, & tema Dio,

hor di mandarmi a marito gli piace

ch’altra herede non ha che me ma io

non mi vorrei col mondo avviluppare

anzi alla religion volevo entrare.

 

Ma temo allui esser disubidiente

hora i non so che partito mi prenda

mai non dormi la notte precedente

orando a Dio chel cor del ver m’accenda,

& come mi spirò in lui confidente

mandai pel primo, hor prego condiscenda

dapoi che mandò te al mio consiglio

a darmi o padre il tuo fedel consiglio.

 

Risponde il monaco.

 

Figliuola quel consiglio che chiesto hai

primi chel dia, Christo nel suo parlare

ha detto nel vangel come tu sai,

chi el padre suo non vuol rinunciare

& la madre, & sé proprio, che giamai

non si potrà mio discepol chiamare,

dunque non so che altro debba dire

se non chel buon pensier si vuol seguire.

 

Non lasciar perder questa ispirazione

non ricever in van la grazia data,

se vincer credi la gran tentazione

che dalla carne vien quando è impugnata

fuggiti, & entra nella religione

lascia il padre, la roba, & la brigata,

non ti curar di questa gran ricchezza

ma come cosa vil quella disprezza.

 

Lasciala al padre tuo che se vorrae

di sue sustanze heredi, & successori,

credimi certo assai ne troverrae

di quei c’ha Dio sien per lui intercessori

spedali, e chiese, & vedove assai ci hae

pupilli, & pellegrini, & chieditori,

lascia la roba, & fa ch’a ciò non pensi

lasciala a lui ti dico, ei la dispensi.

 

Non perder tu per questo l’eccellente

anima tua, segui Dio, che ti chiama.

 

Risponde Eufrosina, & dice.

 

Io spero in Dio, e nel tuo orar fervente

però farò come mia alma brama.

 

Risponde il Monaco.

 

Fa dunque presto, e non sia negligente

che così debbe far chi Dio brama.

 

Risponde Eufrosina

 

Così vo fare, hor ti priego per Dio

che mi tondi le treccie o padre mio.

 

Il monaco s’inginocchia, & fa orazione a Dio con le man giunte, & poi si rizza, & piglia le forbice, & sedendo Eufrosina, & porgendoli e capelli, lui gli taglia, & gettagli in terra, & nel tagliargli dice.

 

Figliuola hor è tagliata la radice

si che dal mondo debbe esser partita

seguita Christo, & faratti felice

il quale è via, verità, & vita.

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  1. La rappresentazione, il cui titolo rivela già il succo della storia, si può leggere qui.

 

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Dell’acqua, un prato, un bel posto

Tra le varie qualità soprannaturali che Gregorio Magno attribuisce a Benedetto da Norcia nella sua Vita e miracoli del venerabile abate Benedetto, contenuta nel secondo libro dei Dialoghi, c’è quella di capire al volo se una persona tenuta al digiuno lo abbia invece rotto; qualità che, volendo, si potrebbe anche attribuire a quella spiccata capacità di osservazione che il padre del monachesimo dimostra ampiamente nella sua Regola.

Gregorio la esemplifica raccontando due episodi molto spiritosi1. Nel primo un gruppetto di confratelli si trova fuori del monastero «per una commissione» (ad responsum) e, avendo fatto tardi, nonostante il divieto della Regola2 «andarono da una pia donna che essi sapevano abitare là vicino, ed entrati da lei cenarono». E che sarà mai, no? Il guaio, però, è che, rientrati piuttosto tardi al monastero, a Benedetto che chiede loro dove abbiano mangiato, decidono di mentire: noi? da nessuna parte! L’abate li sbugiarda all’istante e scende persino nei dettagli: «Non siete stati in casa di quella tale donna? Non avete preso cibo da lei? Non avete bevuto tanti bicchieri?» Mortificati e anche spaventati, i monaci si gettano ai piedi di Benedetto e confessano tutto. E vengono perdonati.

Il secondo episodio vede protagonista il fratello, «laico, ma di sentimenti religiosi», di Valentiniano, uno dei discepoli più vicini all’abate. Costui ogni anno va a trovare il fratello al monastero, digiunando durante il viaggio in segno di penitenza per i suoi peccati. In uno di questi brevi ma sentiti pellegrinaggi viene avvicinato da «un altro viandante» (alter viator) che gli dice: «Vieni, fratello, mangiamo: se no, veniamo meno per la stanchezza». Il fratello di Valentiniano rifiuta, ricordando all’occasionale compagno di viaggio il suo voto. Dopo un po’ quello ci riprova, e ancora il buon uomo rifiuta. Infine, «dopo che ebbero percorso molto altro cammino», si trovano in un bel prato, con tanto di sorgente, e il tentatore torna all’attacco. Questa volta il fratello di Valentiniano cede e «acconsentì a mangiare».

Alla sera ha appena messo piede nel monastero e subito Benedetto lo apostrofa: «Che hai fatto, fratello? Il malvagio nemico, che ti ha parlato per tramite del tuo compagno di viaggio [conviator], non è riuscito a persuaderti né la prima né la seconda volta, ma c’è riuscito alla terza e ti ha imposto la sua volontà?» Finale obbligato: gettarsi ai piedi, vergognarsi, pentirsi – perdono.

Dunque era stato il demonio che, infilatosi nei panni di un passante qualsiasi, aveva indotto al peccato il fratello di Valentiniano, ma va detto che il modo in cui l’ha fatto, le parole che ha usato sono quanto di più umano si possa immaginare. Quando infatti erano arrivati nel luogo della tentazione il viandate aveva detto: «Ecco dell’accqua, ecco un prato, ecco un bel posto. Qui ci possiamo ristorare e riposare un po’, per avere la forza di terminare il viaggio in buone condizioni». Del tutto ragionevole.

E soprattutto: «Ecce aqua, ecce pratum, ecce amoenus locus», dell’acqua, un prato, un bel posto.

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  1. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli (Dialoghi), introduzione e commento di S. Pricoco, testo critico e traduzione di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2005; vol. I, pp. 147-51.
  2. «Il monaco, che viene mandato fuori per qualche commissione [pro quovis responso] e conta di tornare in monastero nella stessa giornata, non si permetta di mangiare fuori, anche se viene pregato con insistenza da qualsiasi persona, a meno che l’abate non gliene abbia dato il permesso», Regola, LI.

 

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Lascia stare quella gallina («Storia di sant’Antonio abate e del suo culto»)

dalleremoallastalla«Del 1513. Il giorno di S. Pietro il Sig. Prospero Colonna alloggiò nel borgo di S. Iacobo con lo campo de’ Spagnoli fuori della Città di Brescia: & uno di quelli Spagnoli tolse una galina ad una casa dove era dipinta la figura di S. Antonio, e una donna li disse lassa star quella gallina che ella è di S. Antonio & questo Spagnolo fece le fiche a ditta figura, dispreciando S. Antonio con parole, & il Signor Iddio volendo dimostrare parte della sua possanza in questo Spagnolo ad essempio che gli altri non debbano far disprecio ai suoi servi fece che questo Spagnolo cominciò subitamente ad ardere, & si vedeva visibilmente a uscirli il fumo de la bocca, & la cener da li occhi & in breve morì miseramente, talmente che quel corpo stette doi giorni che tutti lo potevano vedere in la Chiesa de S. Antonio di Brescia.»

Al libro di Laura Fenelli dedicato alla storia di sant’Antonio e all’evoluzione del suo culto e della sua iconografia1 devo molte citazioni curiose come questa, devo una gran quantità di informazioni interessanti e di suggerimenti per altre letture, ma devo soprattutto un percorso ricchissimo e in effetti avvincente attraverso le varie forme assunte dall’identità e dall’immagine del santo: dall’anziano eremita che fugge nel deserto e viene attaccato dai demoni, al patrono degli animali da stalla e da cortile che inganna il diavolo; dalle tavole di metà del secolo XIV, ai santini ancora oggi in stampa.

Come questa straordinaria metamorfosi sia accaduta è il filo conduttore del volume, che affronta con coraggio una mole di materiale storico vasta e multiforme. Nella vicenda di Antonio, che solo a un certo punto diventa sant’Antonio abate, s’intrecciano infatti agiografia e iconografia, in un rapporto che non è sempre a senso unico, dalla prima alla seconda, ma talvolta si inverte; storia degli ordini religiosi e della spiritualità laica (nascita, diffusione e declino dell’ordine ospitaliero degli antoniani, eretti ordine di canonici regolari nel 1297 da Bonifacio VIII, ma cui già da prima era affidata la «gestione dell’ambulanza papale», cioè «un ospedale mobile per la corte papale, che aveva il compito di seguire il pontefice nei suoi spostamenti»; e dei quali ebbero a ridire con toni piuttosto duri o ironici, tra gli altri, Dante, Boccaccio e Sacchetti); storia delle reliquie e del loro ruolo simbolico ed economico (intorno alla fine del Quattrocento i corpi di sant’Antonio, perfettamente conservati, diventano due – poi anche tre –, e la controversia che ne deriva giunge fino al 1859, con un pronunciamento finale della Congregazione dei riti); storia della medicina (l’esclusività della cura del fuoco di sant’Antonio, il fuoco sacro da intendersi come l’intossicazione da segale cornuta e non come l’odierno herpes zooster, da parte degli antoniani si affermò tra Trecento e Quattrocento, ed è molto interessante il fatto che, una volta ammessi negli ospedali, i pazienti dovessero assumere uno stile di vita simile a quello dei canonici, nel cibo – cosa che faceva parte della terapia –, nelle vesti e nei doveri liturgici. Sempre da un punto di vista terapeutico, e collegata al possesso delle reliquie «autentiche», è altrettanto interessante la questione del saint vinage – la «bevanda ricavata ogni anno, il giorno dell’Ascensione, versando vino nella cassa contenente le ossa di sant’Antonio – e del grasso di maiale utilizzato come eccipiente nel balsamo di sant’Antonio per lenire le ulcere cutanee – cosa che si collega al privilegio degli antoniani di allevare i maiali anche in città, e alla singolare e stabile presenza del maiale tra gli attributi del santo nelle sue rappresentazioni); e ancora storia dell’arte, filologia (la Vita di Antonio di Atanasio, la Leggenda di Patras, la Leggenda di Teofilo), storia del folclore e delle tradizioni popolari (l’abruzzese Stòrije di sand’Anduone e le innumerevoli canzoni popolari) …

Anche da questo confuso elenco, che non gli rende ragione, emerge la dovizia del libro, che deriva da una tesi di dottorato2 e che in una certa misura ne risente: talvolta l’esposizione è quasi sopraffatta dalla quantità di dati e notizie che si sovrappongono, dalle prospettive di ricerca che si affiancano, ma alla fine prevale, direi, lo stupore per l’incredibile stratificazione di concetti, riferimenti e rimandi che si presenta a chi indaghi la figura e la vicenda del santo, e la sua altrettanto incredibile estensione temporale: sedici secoli in cui succede di tutto senza che si smarrisca un fondo comune, poiché, come conclude l’autrice, «l’Antonio contadino, l’Antonio burlone che va all’inferno per gabbare il diavolo, l’Antonio che protegge le stalle e i raccolti, l’Antonio che spegne gli incendi che minacciano le case coloniche è, nei fatti, lo stesso Antonio che nella biografia atanasiana coltiva il suo orticello contro i demoni, che sfida Satana nel deserto, che insegna ai suoi compagni come sopravvivere in un ambiente ostile, che risana prodigiosamente chi gli si rivolge».

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  1. Laura Fenelli, Dall’eremo alla stalla. Storia di sant’Antonio abate e del suo culto, Laterza 2011.
  2. Sant’Antonio abate. Parole, reliquie, immagini, tesi di dottorato in Storia medievale presso l’Università degli studi di Bologna, a.a. 2006-07 (che si può leggere qui).

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Nella medesima notte: Paterno e Scubilione amici per sempre

Dopo quella di Eutizio e Fiorenzo, e quella di Romano e Lupicino, grazie al già citato articolo di Edoardo Ferrarini1 sono andato a leggere la storia di Paterno e Scubilione, un’altra storia di amicizia monastica nel contesto della letteratura agiografica altomedievale. La storia, bella e struggente, è narrata indirettamente da Venanzio Fortunato nella sua Vita di san Paterno, ed è accessibile nella ricca edizione curata da Paola Santorelli2. «Indirettamente» perché la Vita di san Paterno è in realtà un esempio di agiografia episcopale, nella quale però lo spazio dedicato alle imprese di Paterno come vescovo è assai minore di quello riservato alla sua vicenda precedente come monaco e abate, e appunto come amico del confratello Scubilione.

Il contesto storico e geografico è molto interessante: siamo nella prima metà del VI secolo (la nascita di Paterno, a Poitiers, è collocata intorno al 480) nella regione della Bassa Normandia, tra Coutances, Saint-Pair-sur-Mer (Pair è forma recente di Paterno), Avranches e il Mont-Saint-Michel. Ci sarebbero molte altre cose da annotare, ma seguiamo Paterno, che già da piccolo entra nel monastero di Saint Jouin de Marnes e in breve, per le evidenti doti, viene nominato cellario.

Si capisce che il ragazzo è destinato a grandi cose, ma a Saint Jouin c’è anche Scubilione, di qualche anno più anziano, e qui scatta qualcosa, perché al di là delle parole usate da Venanzio per raccontare i fatti, in sostanza i due decidono di scappare insieme verso nord, appunto verso la regione di Coutances: «Abbandonati i parenti per amore di Cristo, scelsero con convinzione di diventare pellegrini in Constantino pago condividendo lo stesso alloggio, portando solo il libro dei salmi».

Vanno a vivere in una caverna, ma la fama di santità nasce e si diffonde in fretta. La coppia si muove, cominciano i miracoli, assegnati sistematicamente a Paterno: è lui che concretizza, spesso su passaggio di Scubilione. Come in un caso che ci dice molto delle personalità dei due. Un giorno, pur essendogli rimasta soltanto una mezza pagnotta, Paterno non esita a darla in elemosina: «L’uomo di Dio desiderava dare quel pane in beneficenza piuttosto che riporlo nello stomaco [in ventrem recondere]»; Scubilione «mal sopportò ciò, per il fatto che non aveva trovato, dopo il lavoro, ciò che potesse ristorare la sua stanchezza». Non ti preoccupare, lo rimprovera Paterno, Cristo non dimentica i suoi, e infatti, «senza indugio», arriva un loro discepolo carico di cibarie. E poiché dopo mangiato bisogna anche bere, ecco che Paterno batte una roccia con un bastone e fa sgorgare una fonte.

Che fossero proprio scappati lo si evince anche dal fatto che il loro abate, Generoso, dopo tre anni si mette a cercarli. Quando li trova, a Scissy (l’attuale Saint-Pair-sur-Mer), si raccomanda a Paterno di non eccedere nelle durezze e nelle privazioni, ma gli concede di restare lì, mentre si porta via Scubilione. E qui è bello immaginare ciò che Venanzio ha deciso di non dirci, forse perché non lo sapeva, quando scrive di Generoso che permise a Scubilione «di ritornare dal fratello dopo un breve intervallo di tempo»: che cosa gli avrà fatto cambiare idea?

Il racconto di Venanzio si contrae. Molti anni passano in pochi capitoletti. Paterno diventa sacerdote, cresce in dignità ecclesiastica, altri miracoli, molti monasteri fondati, i due amici si devono separare. E qui Venanzio ci racconta l’unico episodio che può assomigliare a un litigio tra i due. Un giorno Paterno, che è ancora a Scissy, va da Scubilione, che si trova ad Avranches, e gli chiede se può portarsi via due colombe che lui stesso aveva allevato. Scubilione, già abbastanza triste per l’allontanamento dell’amico, gli risponde di no: «Possa io tenerle in cambio della tua presenza qui». Ah sì?, ribatte Paterno. «Rimangano presso colui che amano di più». Dopodiché se ne va e torna a Scissy, e il giorno seguente le due colombe si fanno quasi diciotto miglia (fere decem et octo milia3) per raggiungere Paterno…

Paterno è sempre più famoso, va persino a Parigi, chiamato dal re Childeberto. Infine, a settant’anni, intorno al 550, viene eletto per acclamazione vescovo di Avranches. Fa il suo dovere con grandezza e santità per tredici anni, fino a quando il lunedì di Pasqua, diciamo del 563, si ammala. Il primo pensiero è: Scubilione. L’amico si trova al momento al monastero del Mont-Saint-Michel e si è ammalato nel medesimo giorno. Paterno e Scubilione, allora, «si muovono l’uno alla volta dell’altro per vedersi prima di morire». Ma in quel periodo l’alta marea nella baia di Mont-Saint-Michel è eccezionale e i due cortei restano bloccati sulle rispettive rive. Così, «mentre i santi erano distanti tra loro circa tre miglia, nella medesima notte e con le stesse modalità [eadem nocte pariter], il beato Paterno e il suo santo fratello… lasciarono andare le pie anime dal mondo terreno verso Cristo in un felice viaggio».

I due cortei dirigono allora, l’uno all’insaputa dell’altro, a Scissy, dove arrivano nello stesso giorno e dove Paterno e Scubilione «insieme, nello stesso momento, furono sepolti l’uno con l’altro […] in modo tale che nemmeno l’evento della morte dividesse coloro che sempre una sola vita aveva unito»4.

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  1. Edoardo Ferrarini, «Gemelli cultores»: coppie agiografiche nella letteratura latina del VI secolo, in «Reti Medievali Rivista» XI (2010), 1 (gennaio-giugno).
  2. Venanzio Fortunato, Vite dei santi Paterno e Marcello, introduzione, traduzione e commento a cura di P. Santorelli, Paolo Loffredo i.e. 2015.
  3. In effetti, tra Saint-Pair-sur-Mer e Avranches ci sono circa 23 chilometri.
  4. I loro resti sono ancora lì, vicini.

 

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Lupicino, il massaggiatore

NelDesertoDelGiuraLupicino è il secondo abate del monastero di Condat, situato nei pressi dell’attuale Saint-Claude, nel Giura francese. È succeduto, intorno al 460, al fratello Romano, che il monastero l’ha fondato dopo un’esperienza eremitica proprio con Lupicino. Sono tempi duri, il luogo e il clima lo sono altrettanto, e lui è un asceta formidabile, tanto che il suo anonimo biografo si deve trattenere: «Racconterei imprese ancora più grandi, che egli compì nel campo dell’astinenza, se non sapessi che per i Galli ciò che si tramanda circa le sue azioni sarebbe inimitabile»1.

Tanto per cominciare, indossa una tunica formata da diversi pezzi di pelle cuciti insieme e che non ripara nulla, porta sempre e soltanto zoccoli; «si dice che non abbia mai avuto delle lenzuola né un letto», dorme qualche ora su una panca dell’oratorio e, in caso, assai frequente, di freddo, scalda un pezzo di corteccia che poi mette sotto la tunica; rigorosamente vegetariano, «non permise quasi mai che fosse aggiunta neppure una goccia d’olio o di latte alla sua polentina» (bello quel «quasi»), niente vino, pare nemmeno acqua, menu estivo: «pezzetti di pane macerati in acqua fredda», e così via.

Inflessibile verso se stesso, Lupicino è d’altra parte un campione ingegnoso di carità, come dimostra questo episodio così singolare da sfuggire agli stereotipi agiografici.

C’è, tra i suoi confratelli, un anziano monaco che si è spinto troppo in là nell’ascesi e «aveva reso il suo misero corpo tanto rattrappito per una qualche scabbia e semivivo per l’eccessiva magrezza». È tutto incurvato, bloccato sia nelle gambe sia nelle braccia, non può muoversi da solo, è capace soltanto di un «debole respiro affannoso»; unico cibo un po’ di briciole  di pane «raccolte con attenzione con una spazzolina dopo il pasto dei fratelli e bagnate con un pochino d’acqua»2. Cosa si può fare? si chiede il santo abate.

Un giorno, mentre tutti sono al lavoro nei campi, Lupicino si carica l’anziano monaco sulle spalle e lo porta nell’orto, dicendogli con dolcezza: «È molto tempo che tu, bloccato da una gravissima malattia, non vieni baciato dai raggi del sole e non vedi neanche un po’ di verde neppure con un rapido sguardo». All’aperto stende qualche pelle per terra, vi depone il monaco e si sdraia accanto a lui, imitandone la posizione. Dopodiché, comincia a distendere le membra, poco alla volta, lasciandosi sfuggire qualche espressione di sollievo. Poi, con estrema delicatezza, «come un massaggiatore», fa lo stesso con il fratello rattrappito, che a poco a poco si raddrizza. Non contento, Lupicino corre in cucina e ritorna con «alcuni piccoli pezzi di pane bagnati di vino» e induce il confratello, con l’esempio anziché col comando, a ristorarsi.

Il giorno successivo ripete tutto da capo, «con la sua abituale delicatezza», e il terzo giorno, quando ormai l’anziano monaco riesce quasi a stare in piedi da solo, Lupicino – che: va bene, l’orto è bello, ma ha bisogno di cure – «gli procura un bastone ricurvo alla maniera di una piccola zappa» e, sia che quello stia in piedi o si metta sdraiato, «gli insegna a sarchiare il terreno intorno alle piante col rastrello e con le dita».

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  1. Vita del santo abate Lupicino, in Nel deserto del Giura (La vita degli abati Romano, Lupicino, Eugendo), traduzione, introduzione e note di D. Marchini, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 2016, pp. 47-71.
  2. Il curatore fa notare un interessante parallelismo con la Regola del Maestro (23, 34-48), che impone di raccogliere tutte le briciole in un vaso in modo che, alla fine della settimana, con esse possa essere preparata una pietanza.

 

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Storia triste del puntualissimo orso di Fiorenzo

Un interessante articolo di Edoardo Ferrarini sulla rappresentazione dell’amicizia nella letteratura agiografica altomedioevale1 ha indirizzato la mia attenzione su quattro coppie di santi amici, tutti monaci o eremiti, o comunque tali all’epoca del primo sorgere del sentimento in questione. L’articolo mira a illustrare, senza pretese di completezza, ma con bella scelta d’esempi, come l’amicizia monastica non sia affatto un tema alieno ai racconti di santità, quasi fosse un tratto di debolezza che scalfirebbe l’immagine solida e compatta dell’uomo di Dio. Come spesso accade, il primo moto di interesse è scattato in me grazie ai nomi di questi amici: Eutizio e Fiorenzo, Fulgenzio e Felice, Romano e Lupicino, Paterno e Scubilione. L’altro aspetto interessante è che le fonti citate sono relativamente accessibili, anche in traduzione italiana, sicché sono andato a vederle, a cominciare dalla prima.

La storia di Eutizio e Fiorenzo è narrata da Gregorio Magno nel terzo libro dei suoi Dialoghi2 e inizia dalle parti di Norcia, dove i due vivono nel medesimo oratorio conducendo vita santa. I caratteri sono diversi e mentre Fiorenzo, più contemplativo, si dedica soprattutto alla preghiera, Eutizio va in giro, predica e converte, si fa conoscere, insomma, tanto che, alla morte del loro abate i  monaci di un vicino monastero lo chiamano a guidare la comunità. Eutizio va, Fiorenzo resta, ma dopo un po’ comincia a soffrire la solitudine e invoca il Signore «che gli desse un compagno che vivesse insieme con lui».

«Appena terminata la preghiera, uscì dall’oratorio e trovò davanti alla porta un orso: con la testa chinata verso terra e senza segno di ostilità nei movimenti»: è il nuovo compagno che ha chiesto a Dio, Fiorenzo non ha dubbi, e prega subito l’orso di dargli una mano con le pecore, portandole al pascolo in determinati orari: «E l’orso gli ubbidiva scrupolosamente: mai tornava a mezzogiorno quando doveva tornare alle tre, né alle tre quando doveva tornare a mezzogiorno».

La fama del prodigio si diffonde, e un giorno alcuni monaci di Eutizio, invidiosi perché il loro abate non fa miracoli, mentre il rozzo Fiorenzo è palesemente prediletto dal Signore, tendono un agguato all’orso e lo uccidono. Fiorenzo lo aspetta fino a sera, «e prese a dolersi perché non tornava l’orso che, nella sua semplicità, egli soleva chiamare fratello [quem ex simplicitate multa fratrem vocare consueverat]», infine lo va a cercare e scopre l’orribile verità.

Fiorenzo si dispera, ed Eutizio accorre, anzi lo fa «venire presso di sé per consolarlo», ma l’amico è sconvolto e si lascia andare a una maledizione: «Spero in Dio onnipontente che chi ha ucciso il mio orso, del tutto inoffensivo, riceva davanti agli occhi di tutti la punizione della propria malvagità». Si ricorderà che Dio era solito accogliere con particolare sollecitudine le richieste di Fiorenzo, e infatti «i monaci che avevano ucciso l’orso furono colpiti subito da elefantiasi e morirono col corpo incancrenito [statim elefantino morbo percussi sunt, ut membris putrescentibus interirent]». (Laddove è interessante notare che, essendo la vittima un animale, la pena è «intitolata» a un altro animale.)

Gregorio si premura di commentare che Fiorenzo rimase sconvolto e molto si pentì del sua maledizione, cui Dio acconsentì con un preciso disegno, e se continuò a compiere miracoli durante la sua vita, Eutizio, «che era stato compagno di Fiorenzo nella via di Dio, divenne illustre per i miracoli compiuti soprattutto dopo la morte». Parità.

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  1. Edoardo Ferrarini, «Gemelli cultores»: coppie agiografiche nella letteratura latina del VI secolo, in «Reti Medievali Rivista» XI (2010), 1 (gennaio-giugno); consultabile qui.
  2. Gregorio Magno, Storie di santi e di diavoli, II, a cura di M. Simonetti e S. Pricoco, Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla, 2006, pp. 62-73.

 

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«Diavolo, Mondo e Carne» (Voci, 3)

VitaBeataColombaOgni prode Cavaliero che debba, o per mantenimento del suo honore o per augumento de fama, o per acquistare con le armi gradi e dignità, overo per entrare dopo la vittoria trionfante in Campidoglio, avanti vada al cimento, forbisce le armi, assetta le armature, si metto in punto per combattere, considera qual arme debba usare & haver pronte per la propria diffesa, come per offender l’inimico, considera di vantaggio con prudenza le qualità, le forze, le armi, co’ quali pensa possa essere assalito, e si provede di un Prode e valoroso Patrino.

Ecco dunque hoggi la generosa Guerriera, che essendo comparsa nel Campo di questo Mondo, se li presenta avvanti non un nemico solo, ma tre, e questi potentissimi, che sono Diavolo, Mondo e Carne, e perché si veda quali e di che valore sieno questi nemici, sarà da me descritte le loro qualità insegnatemi però dal Santo Padre Augustino Ad Iulianum Comitem.

Il Diavolo dunque dice il Santo: Quid pravius? Quid malignius, quidve nostro Avversario nequius?, e seguita, il quale ha posto la guerra nel Cielo, fraude nel Paradiso, odio fra i primi fratelli & in tutte le nostre opere semina zizania, poiché nel mangiare vi ha posto la gola, nella generatione la lussuria, nella conversatione l’Invidia, nel governo l’Avaritia, nella corretione l’Ira, nel dominio la Superbia; & è quello che pone nel cuore cattivi pensieri, nella bocca false parole, nei membri operationi inique; nel vegliare ci muove a opere maligne, nel dormire a sporcissimi sogni; l’allegro lo muove alla simulatione, il malinconico alla disperatione, e conclude il Santo, sed brevius loquar omnia mala Mundi sunt sua pravitate commissa, questo è dunque il primo nemico con cui ha da combattere la nostra Beata.

Il secondo potente nemico è il Mondo, il quale descrivendolo Ugone Filioni [?] così dice: Vix est Mundus quamlibet levia tactu che chi tocca appesta. Il Mondo è un vischio che invischia chi troppo in lui si ferma, e li conduce mediante i peccati alla eterna Morte. Mondo è un laccio il quale piglia gl’huomini incauti e gl’involve ne’ piaceri, ne’ lussi, nell’avaritie, nell’ebrietà, nelle lussurie, finché poi li conduce nelle eterne tenebre, onde seguita il detto: Unde mihi vix possibile videtur, uti qui Mundi legibus vivit parvus ab inquinamentis Mundi & immaculatus hinc emigeret.

Il terzo nemico poi è potentissimo, che è l’istessa nostra carne, o come bene dice ne’ morali Gregorio il Santo, non gestamus laqueum nostrum nobiscum circumferimus inimicum, carnem nostram loquor, la quale è nata dal peccato, nel peccato nutrita, la sua origine piena di corruttela, ma molto più vitiata, nella prava & iniqua consuetudine, e quindi è che tam acriter avversus Spiritum concupiscit quod assidue murmurat, & impatiens est disciplinae, quod illicite suggerit, quod nec rationi obtemperat, nec nullo timore inhibetur.

Con questi tre potentissimi nemici, armata dal divino aiuto, entra in campo Colomba.

Vita della B. Colomba da Rieti. Fondatrice del nobilissimo Monastero delle Colombe di Perugia. Raccolta da più Vite stampate e manuscritte, e da Processi fabricati per la sua canonizzatione in Perugia, da Gioseppe Balestra da Loreto, in Perugia 1652. Nella Stampa Camerale, Appresso Sebastiano Zecchini. Libro primo, Capitolo III, «Infantia di Colomba», pp. 19-20 (che si può leggere qui; con un curiosissimo refuso nell’indice).

 

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«Mortificar il corpo, ma non occiderlo» (Voci, 2)

Concludo la lunga serie dedicata a Chiara da Montefalco con le durezze cui la giovanissima Chiara si sottopone nel reclusorio retto dalla sorella Giovanna, come raccontate in un’agiografia assai più tarda rispetto ai fatti (avvenuti intorno al 1280).

VitaBeataChiara

Era solito la B. Chiara ritirarsi ogni notte, mentre l’altre riposavano, in qualche luogo remoto di detto Reclusorio, dove con un flagello di funi, che s’haveva accomodato, si disciplinava fino al sangue. Questo flagello, con il quale Chiara si disciplinava, fu trovato da Tomassa, una delle sue compagne, tutto insanguinato, di che stupita, e giudicando, come era veramente, che il flagello fusse di Chiara, andò dalla Rettrice, alla quale mostrando il detto flagello, la consigliò che volesse riprender Chiara, a ciò desistesse da penitenza tant’austera, esseguì Giovanna quanto le veniva consigliato da Tomassa; onde chiamata Chiara, le disse che cessasse dal disciplinarsi tanto severamente; dovendo ella mortificar il corpo, ma non occiderlo. Ricevè Chiara l’avertimento di Giovanna, e ne la ringratiò; ma perché credeva che fusse stato conseglio di amorosa sorella1, seguì tuttavia ogni notte la solita disciplina con le dette funicelle, ò con un fascio d’ortica, overo di rovispine, mentre havea sospetto di poter esser sentita, la quale disciplina finita, prendeva il mantello di qualche sua compagna con il quale si copriva, a fin che passando la Rettrice non la riconoscesse così facilmente.

Dovendo dare il debito riposo al suo corpo, non volse in questo Reclusorio concedersi altro letto, che la nuda terra, anzi parendogli soverchia delizia stendervelo, per lo più dormiva sedendo con il capo appoggiato al muro, overo ad un legno, che stava nella sua cella alzato, che havendo il traverso sembrava à Chiara il legno della santa Croce.

Il cibo era pane di orzo, e di segala, il quale spesse volte era da lei bagnato nell’acqua, e poi involto nella cenere : vino rare volte bevea : la minestra quando le veniva posta avanti, era da essa resa insipida con l’acqua; risoluta di non voler sentir gusto alcuno ne cibi.

Desiderosa la B. Chiara d’osservare la legge, che si havea proposta, di non gustar mai quel cibo del quale essa n’havesse havuto fantasia, era solito dire al suo corpo, mentre appetiva qualche cibo particolare, queste parole: «Misero corpo, che desideri? Quando mai meritasti tal cibo? Mentre con altro puoi sostentarti, contentati, che questo non l’haverai altrimente». Una volta, essendosi infermata, hebbe desiderio di gustare un poco di casciata, vivanda così chiamata in que’ tempi, hoggi calcione. Si trovava in questo punto dentro il Reclusorio Francesco suo Fratello, al quale in vece della casciata domandò un pezzo di pane duro muffito, volendo in questa guisa mortificare il desiderio della sua carne; ma volendo il Sign. consolare la sua serva, diede a questo pezzo di pane sapore di casciata, & insieme la fece tanto padrona del suo gusto, che d’indi in poi in tempo di sua vita, mai più hebbe desiderio di cibo particolare; in modo, che se tutti i cibi del mondo le fussero stati posti avanti, non haverebbe havuto più desiderio di uno, che dell’altro.

Vita della B. Chiara detta della Croce da Montefalco dell’Ordine di S. Agostino. Descritta dal Sig. Battista Piergilii da Bevagna, seconda edittione, in Foligno, appresso l’eredi d’Agostino Alterii, 1663. Parte prima, Capitolo V, «Delle penitenze che la B. Chiara cominciò e fece in detto Reclusorio», pp. 12-13 (che si può leggere qui).

 

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«Dolcemente e lievemente» (la Vita di Chiara da Montefalco pt. 3/3)

BerengarioDonadio

(la prima parte è qui, la seconda qui)

Ho deciso di riservare un terzo appuntamento con la Vita di Chiara da Montefalco di Berengario di Donadio1 non per affrontare la delicata e complessa questione del cuore della santa, che dopo la sua morte fu trovato piuttosto ingrossato («grosso come la testa di un bambino piccolo») e recante, secondo l’agiografia, i segni della Passione di Cristo – questione assai dibattuta anche da un punto di vista medico. Né per passare in rassegna i circa trenta miracoli post mortem riportati in appendice (conversioni, visioni e guarigioni, di uomini e animali, dall’epilessia al mal di denti) e la lunga serie di intercessioni i cui destinatari – come riportati da un’opera di molto posteriore – sono suddivisi in un irresistibile elenco: «I. Morti resuscitati; II. Paralitici, attratti et impediti in qualche membro del corpo, guariti e liberati; III. Rotti et herniosi liberati; IV. Liberati dal male di pietra; V. Donne liberate dal dolore di madre, flusso di sangue e dolori di parto; … IX. Liberati dalle scrofole et enfiature della gola; … XII. Persone liberate da nemici e dal pericolo d’annegarsi», e così via2). Mi preme invece di annotare quanto occorso a Giocondo di Gonzo, «un frate della regola e dell’Ordine dei Minori, incaricato di predicare alle esequie di Chiara». Tre momenti in particolare.

Fra Giocondo si è preparato il sermone, «come era solito fare per i defunti», ma non appena sale sul pulpito è colto da improvvisa ispirazione e inizia a parlare a braccio, tessendo lodi altissime di Chiara. È proprio scatenato, tanto che suscita più di una perplessità nell’uditorio. Qui la scena è riportata con una tale vividezza che merita la citazione estesa: «Alle sue elevatissime parole, i frati, venuti da molti diversi Ordini, indignati, specialmente i suoi confratelli francescani, cominciarono alcuni a sghignazzare dentro i cappucci, altri a guardare con occhi torvi, mentre altri scuotevano il capo, altri volgevano altrove il viso e altri si dicevano vicendevolmente che passava la misura nel suo elogio». Giocondo si accorge del malumore che serpenteggia tra i suoi ascoltatori, se ne dispiace, ma non demorde, anzi, «buttando via ogni timore… diceva della predetta vergine tutto ciò che non aveva pensato prima ma che gli ispirava il Signore».

Lo scandalo del sermone non si chiude con la fine della funzione. Giocondo rincara la dose in altre occasioni, attirandosi critiche sempre più aspre. È molto amareggiato e comincia anche a dubitare del proprio giudizio. Un giorno, mentre si trova nella sua cella, ha una visione: è proprio Chiara, che gli si avvicina «con volto lietissimo» e gli chiede: «Guardami e vedi se ti sembra troppo quanto hai detto di me nelle prediche». Comincia così una scena la cui accesa sensualità è tenuta a stento entro i limiti dal partecipe Berengario. Giocondo è abbagliato dallo splendore della santa, capisce e non capisce, allora Chiara, «interposti mano e braccio tra il collo del frate, che dormiva leggermente, e il guanciale, con l’altra mano lo toccò dolcemente e lievemente nella parte superiore della guancia dicendo: “Guarda ora e vedi se sono bella”». Un gesto che ripeterà tre volte… Al di là di qualsiasi considerazione, è una scena di grande dolcezza.

Più volte incalzato dalla santa a riconoscere la sua bellezza, e quindi rassicurato su quanto aveva predicato, fra Giocondo pensa a cosa possa essere paragonata la luminosità ineffabile di Chiara. Tutto gli sembra insufficiente, finché «finalmente gli venne da considerare il colore del cielo d’occidente dopo il tramonto del sole, tutto sereno, senza alcuna una nuvola».

(3-fine)

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  1. Berengario di Donadio, Vita di Chiara da Montefalco, a cura di R. Sala, o.s.a., note di S. Nessi, Città Nuova 20093.
  2. Battista Piergilii, Vita della B. Chiara detta della Croce di Montefalco, Foligno 16632.

 

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«Tutte le cose ardono» (la Vita di Chiara da Montefalco pt. 2/3)

(la prima parte è qui)

Quando diventa badessa Chiara è già molto avanti su diverse «strade».

Senz’altro lungo quella della distruzione del proprio corpo: la sua anima, riporta Berengario1, «sosteneva il corpo come fosse non suo, quasi fosse una veste o il corpo di altri non unito alla sua anima: a malapena lo sentiva come proprio». Continua ad andare scalza, dorme seduta o «appoggiata a una pertica che era piantata nella sua piccola cella», si copre un po’ solo quando è malata, mangia malissimo (vegana e crudista). Cede quando il corpo si arrende, e allora dirà alle novizie: «Se io avessi un corpo come avete voi, non mi coricherei mai nel letto».

È avanti lungo la strada dell’umiltà. Oppostasi inutilmente all’elezione, mantiene il suo atteggiamento di servizio e di costante autosvalutazione: «Io sono convinta di essere la donna peggiore del mondo e non vedo nessuna persona peggiore di me»2. Mantiene anche, bisogna dire, la volontà d’acciaio che ha manifestato sin da piccola. Se il più delle volte è esercitata per mortificarsi, altre è in aperto contrasto con lo spirito di obbedienza. Berengario riporta a questo proposito un piccolo episodio molto bello. Chiara ha sempre interpretato la castità in maniera ultra radicale, anche quella dello sguardo: occhi a terra, mantello e cappuccio chiusi, tenda alla grata. Non vedere né essere vista, figuriamoci poi toccare o essere toccata. Un giorno le viene richiesto di accettare un oblato posandogli le mani sul capo: «Bisogna che tu lo riceva con le mani scoperte, come fanno le altre abbadesse», le dice un canonico. «Ma Chiara rispose: “Io non farò così”».

Chiara è senza dubbio avanti, inoltre, sulla strada della scienza. Non è «donna istruita» ma, come i padri delle origini, possiede la piena comprensione delle Scritture e, mentre prima non parlava quasi mai, dopo la morte della sorella e l’elezione è un fiume di insegnamenti per le consorelle. Non solo, e questo è un tratto insolito, è infusa anche di scienza mondana: «Era pure consapevole che di qualsiasi cosa si trattasse – per fare un esempio, anche di un ramoscello di quercia – avrebbe saputo dare con diversi procedimenti tante spiegazioni e cavar fuori tante cognizioni, che se ne sarebbero potuti scrivere molti libri». Il suo sapere brilla in particolar modo nel confronto assai noto con il francescano Bentivenga da Gubbio che, accompagnato da Giacomo da Coccorano, si trattiene a lungo (Berengario parla di due giorni interi) alla grata del monastero della Santa Croce, cercando di convincere Chiara della giustezza dei suoi argomenti a favore dello «spirito di libertà» e dandole della «grossa di cervello». Chiara non si scompone, ribatte punto su punto, ci pensa su e infine denuncia ai superiori dell’Ordine l’eterodossia del frate (che sarà poi inquisito, condannato, su iniziativa di Ubertino da Casale3, e infine incarcerato).

Ancora, Chiara è molto avanti sulla strada della «visione» e della «profezia». Lo spirito profetico si manifesta soprattutto nella forma della comprensione delle «cose occulte delle menti»: intuisce i rimorsi delle consorelle, scorge le colpe nascoste di chi parla con lei, prevede i segreti di chi le chiede consiglio. Le visioni invece si presentano durante «rapimenti» che possono essere molto intensi e spesso sono accompagnati da tremiti anche violenti o improvvise rigidità. Le consorelle si spaventano (la testa ciondolava «come fosse di una morta»), anche perché le visioni lasciano Chiara prostrata e vieppiù indebolita, e giungono al punto di non «parlare di Dio» in sua presenza per non innescare altri episodi. Di cosa Chiara veda e senta «non si può sapere nulla con certezza, nemmeno quanto essa riferiva con grande difficoltà, raramente e in modo incompleto». Qualcosa tuttavia, ogni tanto, trapela, soprattutto quando parla mentre è estatica, come quella volta che:

«Levò le braccia al cielo e si alzò a sedere con ammirazione delle monache, appunto perché per molto tempo non si era potuta muovere. E disse: “Tutte le cose ardono, tutte le cose ardono, e voi che fate?”»

(2-continua)

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  1. Berengario di Donadio, Vita di Chiara da Montefalco, a cura di R. Sala, o.s.a., note di S. Nessi, Città Nuova 20093.
  2. Berengario ci mostra spesso Chiara assorta nella considerazione dei propri peccati e difetti, e della propria nullità nell’immensità divina: «Si vedeva come una catinella in mezzo al mare, immersa nell’acqua e da essa sostenuta».
  3. Si ricorderà, a questo proposito, la scena del Nome della rosa di Umberto Eco, nella quale i legati pontifici si accapigliano con i francescani, tra i quali c’è Ubertino: «“È colpa mia se Ludovico legge i miei scritti? Certo non può leggere i tuoi che sei un illetterato!” “Io un illetterato? Era letterato il vostro Francesco, che parlava con le oche?” “Hai bestemmiato!” “Sei tu che bestemmi, fraticello da barilotto!” “Io non ho mai fatto il barilotto, e tu lo sai!!!” “Sì che lo facevi coi tuoi fraticelli, quando ti infilavi nel letto di Chiara da Montefalco!” “Che Dio ti fulmini! Io ero inquisitore a quel tempo, e Chiara era già spirata in odore di santità!” “Chiara spirava odor di santità, ma tu aspiravi un altro odore quando cantavi il mattutino alle monache!”» (Quinto giorno, Prima).

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