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Una persona che sia una (Anselmo Giabbani, «Colloquio monastico», pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

ColloquioMonastico Dopo la prima parte dialogica, a domande e risposte, anche il resto del volume di Anselmo Giabbani1 è ricco di affermazioni decise e spunti molto interessanti, forse anche di più e di sicuro troppi per poter darne conto adeguatamente. Mi soffermo quindi su un brano scelto a mo’ di esempio, scelto tra quelli che più ho sottolineato: il paragrafo 9 del capitolo VI, La vita contemplativa, dedicato alle Attività del monaco.

Il p. camaldolese parte dalla considerazione, tratta dalla Regola di san Benedetto, che il monaco deve lavorare: ma di che «lavoro» si tratta? La storia mostra come nel tempo «i monaci hanno fatto di tutto», smarrendo però talvolta in questo «fare» il senso della propria identità, cioè allontanandosi da quello che è il suo modello unico e immodificabile, il Cristo, la sua vita. Il monaco deve rifarsi all’attività di Gesù («che guarda più all’essere che al fare») e all’«unità del suo esistere e del suo agire, del suo dire e del suo fare; l’unità della sua persona nella duplice natura umana e divina».

Unità è la parola chiave della riflessione del p. Giabbani, e non soltanto in questo paragrafo, unità che discende appunto da Gesù e si estende, all’individuo, all’umanità, alla Chiesa. Concetto difficile se lo si legge nella storia secolare, anche pericoloso; concetto che si può dire sia stato smontato dai fatti spaventosi della modernità, messo in crisi, tra l’altro, dalle scienze psicologiche e dalle arti. Ecco la prima indicazione precisa del p. camaldolese, uomo del XX secolo e consapevole dei pericoli: «Lavorare a questa unità è la prima attività del monaco cristiano: fare di se stesso molteplice e diviso una realtà unica, una persona che sia una, coerente, libera, responsabile, identica a sé in privato e in pubblico, davanti a sé e davanti a Dio».

Ma unità non è autonomia, e tantomeno isolamento, ed ecco la seconda indicazione precisa: «La seconda attività del monaco è formare una comunità. Gli uomini, esseri sociali per natura, traggono enormi vantaggi dall’essere in comunità, ma incontrano anche gravi difficoltà a costruirsi in comunione con gli altri». Questa attività è minacciata dallo sviluppo sociale contemporaneo, in particolare dal combinato industriale-tecnologico, che produce una «schizofrenia generale» ed è all’origine del «male più profondo che affligge l’umanità del nostro tempo: l’incapacità di vivere e lavorare insieme». Di fronte a tale disgregazione, che ognuno può verificare nelle varie forme di «comunità» cui tende, o che sceglie, o in cui si trova inserito (gruppi, classi, uffici, squadre, assemblee, associazioni, quartieri, ecc.), il p. Giabbani ritiene che «una comunità adunata, per nessun interesse umano, ma per il solo desiderio di vivere insieme, si presenta o dovrebbe presentarsi come antidoto di enorme valore sociale, oltre che evangelico».

Nell’adunata monastica, «la cui unica legge è l’amore di Cristo», occorre che il singolo monaco cerchi e trovi il suo posto per quello che è, e non per quello che pretende di essere; occorre che sia conosciuto e accolto per le sue capacità e debolezze. Il p. Giabbani chiama questo complesso di atteggiamenti «disposizione di umiltà eguale a verità», raggiunta la quale l’unica preoccupazione successiva rimane soltanto quella di «contribuire alla comunione fraterna».

L’unità. Non so se sia più raggiungibile, se mai lo è stata. Nella coscienza-bagagliaio ci entra di tutto, e mi pare che valigie, borse, sacchetti, confezioni vuote, ombrelli e vecchi stracci sporchi siano comunque tenuti insieme, praticamente, dal contenitore, in un modo o nell’altro. Quando si viaggia il bagagliaio di necessità, o di norma, è chiuso, lo si apre soltanto quando ci si ferma, in disparte, e ci si guarda dentro sempre da soli, o al massimo in due. L’unità mi pare un miraggio, ma non posso che ammirare chi vi crede e la persegue mettendosi in gioco integralmente, come fanno i monaci auspicati da Anselmo Giabbani.

(2-fine)

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  1. Anselmo Giabbani, Colloquio monastico, Edizioni Dehoniane Bologna 1983.

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Perché debbono esistere i monasteri? (Anselmo Giabbani, «Colloquio monastico», pt. 1/2)

ColloquioMonasticoIncuriosito dalla lettura del suo libro su «vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo» (L’eremo), ho cercato di leggere qualcos’altro della non estesa bibliografia del p. camaldolese Anselmo Giabbani. Così, ho recuperato Colloquio monastico1, pubblicato nel 1983, quasi quarant’anni dopo L’eremo. Il «colloquio» che compare nel titolo fa riferimento all’intenzione dell’autore di fare il punto sulle «questioni riguardanti la vita monastica» procedendo, almeno in un primo momento, seguendo il metodo delle domande e risposte, «al fine di ricavare il più possibile di chiarezza».

Senza dimenticare che nel frattempo sono passati altri quarant’anni, la lettura del piccolo volume è di grande interesse, e, pur nella concisione, o proprio grazie a essa, le «risposte» del p. Giabbani forse attingono a una dimensione diciamo così sovratemporale. Chi sono i monaci? Che cosa è proprio del monachesimo? E del monachesimo cristiano? Quali sono i cosiddetti valori monastici? Ma esiste una formazione monastica? Il dialogo è serrato, le risposte sono brevi e precise, ma palesemente non dogmatiche, piuttosto frutto del connubio di meditazione ed esperienza che è una delle «specialità» del monachesimo di tutti i tempi (nemmeno gli scienziati, mi pare, hanno riflettuto sulla propria «professione» mentre la esercitavano quanto i monaci; forse gli psicoanalisti, ma con molti meno… secoli di tradizione). Una prima fase del dialogo si conclude con questa domanda e con la relativa risposta: «Perché debbono esistere i monasteri? Non è che debbono esistere a priori; ma esistono perché all’interno della coscienza di alcuni credenti sboccia e s’impone un movimento interiore che richiede di essere sviluppato in un ambiente composto da altri fratelli, presi dallo stesso desiderio. Se questo desiderio non c’è, è giusto che gli ambienti servano ad altri scopi».

Il discorso non si limita, tuttavia, agli aspetti più generali, ma si addentra anche per così dire nell’attualità, e d’altra parte, se si considera l’attività del p. Giabbani tra le persone e le questioni del suo tempo, non poteva essere diversamente. E dunque, quali sono le «esigenze dell’uomo d’oggi» cui il monachesimo può rispondere direttamente o per le quali rappresentare indirettamente una via? Anzitutto il bisogno di unità della persona: l’esperienza di lacerazione, o anche soltanto, divisione interiore tra tentazioni, interessi, «divinità» terrene «è alla base del cammino monastico». In secondo luogo il bisogno di libertà, che dalle circostanze e dai modi della «civiltà moderna» è tanto proclamato quanto in realtà soffocato. L’aspirazione all’amore universale, come si può concretamente attuare «in persone libere che possono mediare senza interessi di alcun genere; in comunità accoglienti, capaci di trasformare la loro presenza in testimonianza evangelica». Infine, un po’ a sorpresa, nientemeno che l’amore di sé, inteso come crescita umana e cristiana: «Gli ostacoli che potrebbero venire contro una simile crescita, umile e disciplinata, non possono essere di origine evangelica», quindi non possono essere monastici.

La mia ammirazione di miscredente va, tra le altre cose, alla precisione delle formule, ad esempio a quell’inciso «umile e disciplinata». L’umiltà, infatti, aggiunge poco oltre il p. Giabbani, «è la verità ontologica, che porta a riconoscersi per quello che si è, e non per quello che pretendiamo di essere», è la verità morale, quindi di comportamento, ed è anche «la verità logica, che ci richiama all’oggettività dei fatti e del pensiero, a esprimere con sincerità quel che si pensa, evitando intrighi e doppiezza». Non oso, non sono in grado, di parlare di verità, ma come negare la sensazione di pulizia che provo davanti a queste parole (che soltanto parole, nel caso specifico, non sono)? Certo, il monachesimo è «verace ricerca di Dio»2, ma ignorerò per questo la bellezza del metodo?

(1-segue)

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  1. Anselmo Giabbani, Colloquio monastico, Edizioni Dehoniane Bologna 1983.
  2. «Cosa si può rispondere a un giovane che vuol farsi monaco? […] Si dichiari apertamente che l’impegno supremo del monaco è la verace ricerca di Dio non sulle vie del sentimento e neppure sulle vie della dialettica, anche se è bene e proficuo conoscere, ma sulle vie che Dio stesso ha percorso per venire verso l’uomo, per cercarlo, per farsi capire dall’uomo, fino a farsi uomo lui stesso.»

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Dove l’eccezione sia la regola («L’eremo» di Anselmo Giabbani, pt. 2/2)

Eremo Giabbani (la prima parte è qui)

È facile associare il concetto di discrezione a quello di eccezione, soprattutto quando si parla di regole, che vanno aggiornate, interpretate, riviste alla luce dei tempi che cambiano. A parte il fatto che la discrezione monastica, che viene esercitata dalle persone che mettono in atto la regola, va per così dire in entrambi i sensi, sia quello di un certo alleggerimento, sia quello di un maggior rigore, nelle pagine del p. Anselmo Giabbani1 la discrezione non ha a che fare con la fiacchezza, bensì essenzialmente con la libertà.

Se negli «ambienti di vita cenobitica» può circolare anche un vero e proprio preconcetto nei confronti dell’eccezione, e la «struttura» nel suo complesso («la regolarità, gli uffici, il pericolo di attirare l’attenzione altrui, ecc.») può in qualche misura trasformarsi in una limitazione della «perfetta libertà» che è il terreno dell’incontro con il Cristo, «nella patria dello spirito, l’eremo», scrive il monaco camaldolese, «questa libertà dev’essere assoluta, altrimenti la vita eremitica perderebbe la sua ragione d’essere. Dovunque ci si può santificare, specialmente nel monastero, ma avere la possibilità di seguire completamente e con tutta libertà le attrazioni dell’amor divino e darsi totalmente alla preghiera e alla mortificazione, questo si può nell’eremo soltanto. Perché la vita monastico-eremitica studia il rispetto dell’individuo, di cui vuole salvata e arricchita la personalità. L’“anima” infatti di questa concezione di vita è la “discrezione”, ossia la legge della diversità delle anime, riconosciuta qui e attuata pienamente nel campo spirituale.» (Il corsivo è dell’autore.)

Già, le anime sono tutte diverse, e pertanto gli individui: «Dio non copia. A lui si deve l’ineguaglianza delle anime». È singolare questo percorso che pare unire la solitudine estrema alla piena manifestazione della propria individualità; un concetto singolare, perché a lasciarlo risuonare emergono molte consonanze e altrettante disarmonie con altre «regioni» del pensiero monastico, in primis il contrasto tra l’annullamento di sé e lo sviluppo del proprio potenziale spirituale. D’altra parte non si può dire che il monachesimo sia mai stato, e sia, un blocco di granito senza differenze e particolarità.

Occorre anche ricordare che la vita dell’eremita, quello camaldolese nello specifico, era resa possibile nella sua sussistenza da una comunità «di sostegno», composta dunque da persone che rinunciavano a una piena libertà? Che perseguivano una libertà vicaria? O che seguivano un’altra strada di salvazione?

Non è difficile estendere per analogia tali domande e la questione al campo laico (è un mio difetto tipico, ma è anche il modo di dialogare con un po’ di vitalità). In tale campo non si darebbe quindi una «situazione» di piena manifestazione della propria individualità paragonabile a questa visione dell’eremo? Poiché quale discrezione si potrebbe applicare alle «regole» del vivere sociale? L’abuso dell’eccezione (ideologica e pratica: «Ma non si può fare un’eccezione?») non è forse una vera malattia della socialità? Ci si limiterà quindi a quei comportamenti che non rientrano nella sfera del diritto? Ma come distinguere? Ci si contenterà, per certi casi, di soddisfazioni vicarie? Si cercherà nel tempo di spostare i limiti di tale sfera, basandosi su quella manovra concettuale che è l’«io sono fatto così», tanto attraente in astratto quanto potenzialmente ambiguissima nella pratica? O confidando nel processo della razionalità collettiva? Io confido.

E non resisto alla tentazione di leggere la seguente conclusione del p. Giabbani cedendo ancora al demone dell’analogia (il corsivo è sempre suo): «In un ambiente strettamente cenobitico, dove la “regola comune” ha lo scopo di “formare”, l’eccezione non ci dev’essere, e se c’è, si chiama per l’appunto “eccezione”; ma gli uomini formano tutti un’eccezione l’uno in confronto all’altro quando hanno raggiunto una certa personalità spirituale, e dovranno allora avere un ambiente e una possibilità di movimento dove l’eccezione sia la regola, o rientri perfettamente nella regola.

«Nello stato monastico tale ambiente è l’eremo.»

(2-fine)

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Anselmo Giabbani o.s.b., monaco eremita camaldolese, L’eremo. Vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo, Morcelliana 1945.

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Le tendenze sregolate della nostra natura («L’eremo» di Anselmo Giabbani, pt. 1/2)

Eremo Giabbani La combinazione di libro vecchio e argomento monastico esercita su di me un’attrazione irresistibile, anche quando il testo porta inevitabilmente i segni del tempo in cui è stato scritto. È il caso in questi giorni del volume L’eremo del camaldolese Anselmo Giabbani1, che ho lungamente inseguito, infine trovato e quindi letto, con grande soddisfazione. Tra l’altro, avevo dimenticato di aver già incontrato la singolare figura del suo autore. Nato nel 1908 a Pratovecchio (provincia di Arezzo), che dista una ventina di chilometri da Camaldoli, e morto 96 anni dopo proprio a Camaldoli, dove era entrato come novizio a 15 anni; priore di Fonte Avellana dal 1938, quindi priore generale dei camaldolesi nel travagliato decennio dal 1951 al 1963; insieme con Benedetto Calati studioso delle fonti camaldolesi e attivo nell’opera di rinnovamento degli statuti e dei regolamenti dell’ordine, nonché padre conciliare durante la prima sessione del Vaticano II; il p. Giabbani è stato una figura di spicco della congregazione, e non solo: dal 1952 alla di lei morte nel 1990, è stato il direttore spirituale di Julia Crotta, cioè di suor Nazarena, ed è in questo ruolo che l’avevo incontrato nel libro che Emanuela Ghini ha dedicato alla ora assai nota reclusa camaldolese del monastero di Sant’Antonio sull’Aventino2.

Il libro andrebbe letto oggi nel contesto più ampio degli anni di guerra in cui è stato portato a termine, e in quello della storia della congregazione camaldolese, tutt’altro che impermeabile alle vicende che si svolgevano al suo esterno, cosa di cui non sono capace. L’ho letto per quello che dice, che è poi in fondo ciò che più o meno faccio sempre (e aggiungerei anche per come lo dice, poiché imbattersi negli imperocché, negli eppoi, nelle spalle indolite, nell’affarraggine, nei bercioni, nel girottolare e nello scapricciare fa parte di quell’attrazione di cui sopra).

E quello che dice, componendo un vasto insieme di citazioni dalle testimonianze della vita di san Romualdo, dalle Costituzioni di san Rodolfo e dalle opere fiammeggianti di san Pier Damiani («Pier Damiano» per l’autore), è che «al centro della concezione monastico-eremitica sta l’eremo», cui dopo l’esperienza cenobitica si deve tendere «come a un gradino superiore in linea della perfezione monastica e religiosa». L’eremo, come immaginato e vissuto da Romualdo e dai suoi primi successori, l’eremo camaldolese, dunque, che in un certo senso sgorga dal cenobio, «assicura la perfetta libertà dell’individuo» allo scopo di perseguire in terra, al massimo grado possibile, l’unione divina. «Nell’eremo non si strascica il giogo del Signore, non ci si rammollisce nelle posizioni acquisite, ma o si corre con esultanza o si scappa. La delizia e l’entusiasmo sono condizioni indispensabili in questa vita che richiede spesso una forza sovrumana e lo sforzo reiterato di ogni giorno.»

Dalle parole del p. Giabbani, che oggi nessuno forse si sentirebbe di far sue, traspare la considerazione della posizione preminente dell’eremo nel cammino verso la più alta contemplazione («A questa condizione [della sua finalità] l’uno e l’altro – l’eremita e l’eremo – trovano il loro posto di superiorità assoluta nel quadro del Monachismo e della società cristiana»). E traspare anche una visione penitenziale che oggi mi pare squalificata, nei testi se non, come si spera, anche nei fatti. Nell’eremo si distrugge, letteralmente, per ricostruire, e lo si fa tramite la mortificazione: «Il desiderio della libertà e della vita gli fa [all’eremita] prendere di mira il mezzo indispensabile all’espandersi di queste nell’anima cristiana: la rinunzia, la morte. La morte di ogni atto peccaminoso, la morte alle tendenze sregolate della nostra natura, la morte ai germi del peccato». Così, ascesi, nel vitto, nel riposo, nell’abbigliamento («Nelle celle non si fa uso di scarpe né di calze»), nella preghiera, nell’autoflagellazione, nel desiderio di patire: «Penitenza, dunque, vuole l’eremo e l’eremita. Non per un principio stoicizzante o per tendenze patologiche lontanissime dallo spirito eremitico; ma solo e unicamente per la fede nella parola di Gesù e la partecipazione unitaria alle sofferenze».

Un terreno estremamente accidentato e impraticabile, oggi, del quale si direbbe che anche il p. Giabbani fosse già allora consapevole, tanto da fare seguire alle pagine sulla mortificazione un vero e proprio inno alla discrezione, «idea madre della concezione monastico-eremitica»: «Se l’austero eremita Pier Damiano credé opportuno accondiscendere tanto all’umana debolezza, nessuna meraviglia che oggi, dopo nove secoli di osservanza eremitica, si trovino nell’eremo maggiori indulgenze introdotte dalla legittima autorità. Il necessario è che siano salvi i principi del vivere eremitico, senza dei quali l’eremo avrebbe un valore puramente archeologico; mentre con la “discrezione” è possibile conservare il carattere della vita eremitica e venire incontro alla fiacchezza umana».

(1-segue)

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  1. Anselmo Giabbani o.s.b., monaco eremita camaldolese, L’eremo. Vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo, Morcelliana 1945. Degna di menzione la «Nota del tipografo», a p. XVIII, in cui si ricorda che «per ben 18 mesi, dal novembre 1943 all’aprile 1945, il lavoro di P. Giabbani è rimasto nella nostra tipografia: e vi abbiamo lavorato anche durante i bombardamenti con interruzioni continue e corse alle cantine di rifugio. All’arrivo del fronte di guerra a Fabriano, i tedeschi irruppero anche nella tipografia Gentile, distrussero i macchinari in vista, buttarono tutto sossopra, rovesciarono per le scale e i magazzini i quadri di composizione in cui era buona parte di questo volume. All’impazzimento di ricerca dei singoli caratteri rimasti decimati si aggiunse la mancanza di energia elettrica e la difficoltà di inviare le bozze all’Autore dovute all’interruzione delle strade ecc., cosicché qualche sedicesimo lo passammo alla stampa senza accurata revisione».
  2. Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa 1945-1990, a cura di Emanuela Ghini, Piemme 1993; ora Itaca 2019.

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A Stairway to Heaven

«Giunto [Romualdo] nelle regioni del territorio di Arezzo e desiderando ardentemente di trovare il luogo adatto al suo proposito, gli venne incontro un uomo di nome Maldolo, dicendo che possedeva un ameno campo sulle Alpi [leggi Appennini], dove una volta, mentre dormiva, aveva visto, come il patriarca Giacobbe, una scala altissima, che con la sua cima toccava quasi il cielo e sulla quale si vedeva salire una moltitudine di esseri bianchi e splendenti. Udite queste parole, l’uomo di Dio, come illuminato da un oracolo divino, subito raggiunse quel campo, vide il luogo, vi costruì le celle…» Maldolo, hai proprio ragione…

Così il priore Rodolfo, nel Libro della regola eremitica1, racconta la leggenda della fondazione dell’eremo di Camaldoli da parte di Romualdo. La visione era dunque di tale Maldolo, ma nel passaggio all’iconografia viene, «comprensibilmente», trasferita allo stesso Romualdo e si diffonde lungo i secoli in una serie notevole di variazioni sul tema: miniature, dipinti e affreschi di cui raccolgo qui qualche esempio (la ricerca in Rete è assai facile).

VisioneRomualdo 03

Nella Visione di san Romualdo (1360-80) di Jacopo da Bologna (alla Pinacoteca nazionale di Bologna) la scala, a pioli, è appoggiata a un altare e buca in alto la volta del cielo dorato verso le stelle. I monaci vi salgono con cautela, aiutandosi con le mani, ben distanziati. Il santo dorme tranquillo (la barba ancora scura) posando il capo su un braccio piegato, in una posizione di grande naturalezza.

VisioneRomualdo 02

Nella Visione di san Romualdo, che Luca Longhi dipinse nel 1579, insieme con il figlio Francesco, sulla volta del refettorio di Classe a Ravenna (ora Biblioteca Classense), il santo si è addormentato leggendo, pardon, rivedendo il testo dell regola, e la scala è ancora una scala a pioli appoggiata alle nuvole e che non dà l’idea di essere proprio sicurissima. Incuranti dei pericoli, peraltro, i monaci si avventurano pure in qualche acrobazia.

VisioneRomualdo 01

Nel Sogno di San Romualdo di Donato Mascagni (chiostro di Santa Maria degli Angeli a Firenze, 1600), l’«uomo di Dio» è ancora correttamente vestito di panno scuro, s’intravedono una decina scarsa di solidi gradini ormai in muratura e i monaci vi salgono a due a due e in definitiva armonia (a giudicare dal passo perfettamente accoppiato).

VisioneRomualdo 04

La Visione di San Romualdo di Andrea Sacchi (1631; Pinacoteca Vaticana) mostra un Romualdo sveglio che racconta la sua visione ai confratelli e addita la scala (poco visibile). I monaci non si voltano a guardare, ma ascoltano il sant’uomo, con attenzione, pazienza, devozione ma anche, almeno in un caso, con una punta di incredulità. Bello il monaco che, coperto da un confratello, si sporge per vedere bene in faccia Romualdo.

VisioneRomualdo 05

Il Sogno di San Romualdo di Giuseppe Bazzani (1750 ca.; Museo diocesano di Mantova) lascia infine intravedere una solidissima scala, sulla quale i monaci (azzurrini, più che bianchi) salgono agevolmente parlottando tra loro.

La mia preferenza, tuttavia, va a una miniatura di cui, ahimè, non sono in grado di indicare la fonte e che illustra la copertina di Camaldoli e l’ordine camaldolese dalle origini alla fine del XV secolo (a cura di C. Caby e P. Licciardello, Badia di Santa Maria del Monte di Cesena 2014). Il santo vi è raffigurato dormiente e seduto all’interno del recinto, formato dalla foresta, dell’eremo già costruito (magnifico il particolare di quello che interpreterei come sistema di distribuzione dell’acqua alle celle e ad altri due edifici). Dalla sua testa (se non dalla soglia dell’oratorio) parte la scala (mobile) sulla quale i monaci marciano a coppie, lo sguardo fisso all’apertura in alto dove la loro lunga attesa alfine si concluderà.

VisioneRomualdo 06

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  1. Libro della regola eremitica, 10, in Privilegio d’amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007, p. 272.

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«Io con l’eremo, quegli inverni…» («Benedetto Calati, il monaco della libertà», pt. 2)

(la prima parte è qui)

I giudizi di Benedetto Calati, che ho definito «assai netti», oltre che di una personalità evidentemente schietta, sono l’esito di lunghe meditazioni («Le mie prese di posizione venivano lentamente, le mie riflessioni, le mie notti») e allo stesso mostrano quanto il monaco camaldolese fosse calato nel, e presente al, suo tempo. Mi pare uno dei punti più importanti della sua visione, spesso ribadito e non in astratto: «Quando predico, non c’è omelia in cui non tocchi questo problema della storia. Vorrei che tutti fossero attenti a questa mia insistenza sulla storia, che non è un pallino qualsiasi, e ora più che mai. Non posso fare una lettura astorica dell’Evangelo». A questo tema, a questo punto fermo (l’astoricità «oggi nel nostro mondo non si può più proporre»), si lega quello della libertà, che è il vero asse portante del pensiero di Benedetto Calati – «il monaco della libertà» dice appunto il titolo del libro. Libertà come progressiva liberazione, esodo si diceva, da schemi, gabbie (concettuali e non solo1), schieramenti2, modelli, divisioni, chiusure, paure: «Io andavo liberandomi», dice p. Calati, e aggiunge poco oltre: «Per me la vita monastica… io ci ho riflettuto molto, il quid della vita monastica è la libertà», che poggia direttamente sul Vangelo: «La libertà evangelica è maestra della libertà, insegna la centralità della coscienza. […] Mi sono sempre più convinto che in questo senso la radicalità del Vangelo è la libertà della coscienza e dello Spirito Santo».

Libertà di coscienza che viene prima di ogni cosa, che incatena alla storia, di fronte alla quale persino il voto religioso andrebbe riveduto (e le pagine sulle donne, l’amicizia, l’amore, il celibato, che potrebbero essere citate con un ammicco, vanno invece lette all’interno di tale quadro di riferimento). Libertà di coscienza che, più o meno paradossalmente non ha importanza, si collega all’idea e alla realtà della comunità: quella monastica per il monaco che qui risponde, quella ecumenica per lo spirito, o meglio per il sentimento religioso che auspica, quella globale per gli individui che, «pur pestandosi i piedi gli uni con gli altri», procedono…

Sono belle – belle anche perché non prive di incertezze – le risposte che p. Calati, in un continuo andirivieni tra cella e mondo, dà alle domande sulla sua vocazione, e indirettamente su comunità ed eremo (argomento camaldolese per eccellenza). Le sue perplessità non sono nascoste: «Io mi sono fatto monaco ad un dato momento, avevo 16-17 anni, ed era una cosa che non ho razionalizzato. Mi sono trovato monaco. La razionalizzazione cresce man mano, qui aiuta la comunità, ecco perché io ho sempre detto che la comunità è importante, all’eremo non sono mai stato. Anche da generale, non ci sono stato. […] Io con l’eremo, quegli inverni…» La comunità è aiuto, e ancor di più: sacramento.

La vitalità, la fede stessa nella vitalità, di p. Calati non lascia indifferenti, nonostante la difficoltà di trattare in concreto di libertà, coscienza, radicalità, e mi rendo conto, mentre ripasso le pagine del volume, di quanta sostanza si sia rappresa in queste parole, come ognuna racchiuda… un anno?, un decennio?, sedimentati. E per un lungo istante mi pare di poter credere alla fondamentale «conseguenza» del suo discorso: la singolarità di ogni individuo, il «mistero che ciascuno racchiude», come dice Raniero La Valle. Ma è solo un istante, ancorché lungo. Ciò nondimeno, quando lo chiudo, il volume, e guardo di nuovo la foto che molto opportunamente il curatore ha voluto fosse riprodotta sulla copertina (traendola dal suo archivio), ho l’impressione di aver ascoltato per qualche ora la voce di un uomo capace, con la massima semplicità e quasi contro la sua stessa intenzione di non voler insegnare nulla a nessuno, di indicare anche a me direzioni nuove, possibilità impreviste.

(2-fine)

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  1. «La libertà. Io rivedevo tutta la mia vita monastica a questo punto [arrivato a San Gregorio al Celio]; tutte le anomalie dei conventi, degli eremi, erano anomalie del Medioevo.»
  2. «Non mi sono mai interessato delle loro posizioni [degli amici laici, politici], non ho mai chiesto: voi cosa avete fatto? Mai, mai, mai. Libertà.»

 

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«Un bicchierino e una caramella» («Benedetto Calati, il monaco della libertà», pt. 1)

Ha fatto molto bene Raniero La Valle a riesumare dai suoi cassetti l’intervista che nel gennaio 1994 Innocenzo Gargano e Filippo Gentiloni fecero a Benedetto Calati e a curarne la pubblicazione1. L’animato colloquio a tre illumina infatti le diverse fasi e le tante forze che composero la vita del grande camaldolese del Novecento, allora ottantenne e da non molto reduce dalla cruciale esperienza come priore generale della Congregazione (1969-1987)2.

È difficile sopravvalutare l’interesse storico di una testimonianza tanto accesa sul Concilio Vaticano II, e gli anni che lo precedettero e lo seguirono, sulla vita della Chiesa in quel tempo, sulle trasformazioni del monachesimo italiano e ancora sulle tante persone che spesero energie, errori e intuizioni in quei frangenti; e tuttavia, dal basso della mia scarsa conoscenza di quelle vicende, sono stato più attratto da altri aspetti della «conversazione», tutti riconducibili alla figura di questo monaco integrale e al tempo stesso aperto a tutto e a tutti.

Mi ha molto aiutato in ciò l’indicazione primaria che il curatore dà nella sua introduzione: «La vita di padre Benedetto è stata vissuta come un esodo. L’esodo vuol dire lasciare la condizione presente e andare verso un futuro ignoto. […] Si direbbe, data la sua condizione monastica, che il suo luogo, la sua modalità di vita fosse la stabilità, e invece è stata l’instabilità, il movimento, spesso impercettibile, ma continuo e inarrestabile, fino alla fine della sua vita». Che sottilissima e interessantissima contraddizione si può forse ravvisare nella scelta di p. Calati di «rinchiudere» e, per così dire, «depositare» la propria inquietudine e la propria ricerca proprio a Camaldoli. E, d’altra parte, si possono forse definire «rinchiusi» i primi, lunghi anni dedicati allo studio e alla lettura?3 Un percorso – non una stasi, quindi – da autodidatta, cominciato con gli Annales Camaldulenses, proseguito con i grossi volumi dei Maurini e con le opere dei Padri: «Per quanti anni sei stato a sfogliare i libri dei Maurini, i libri in folio?» chiede Innocenzo Gargano. «Tutti gli anni dal 1931 fino al ’51, fra Camaldoli e Fonte Avellana, finché non mi hanno fatto procuratore generale, a Roma», risponde Calati. «A Fonte Avellana ero bibliotecario, mi piaceva sempre stare tra i libri. I libri sono stati una passione per me, sono stati un’amicizia.»

Episodio dopo episodio, intanto, mi ha colpito molto il distendersi apparentemente sereno di una vita intera nel corso di una conversazione tutto sommato non lunghissima, la semplice concisione dei tratti con cui vengono evocati momenti e svolte importanti: «Si cucinava una volta al giorno, a mezzogiorno. Siamo cresciuti così. – Il seminario era il luogo di promozione sociale, l’unico luogo. – Prendemmo un treno… che andava a Napoli. Avevamo già scritto a Camaldoli. – Appena arrivati alla farmacia ci diedero un bicchierino e una caramella. – La cella fu pesante per me. – Dicevo: ma cos’ho fatto, cos’ho fatto? – Camaldoli era per tutti un approdo, una vita nuova…» E potrei andare fino in fondo, compendiando tutto grazie a queste «piccole frasi», a questo linguaggio piano e pacifico, in cui sovrabbondano il fare e l’avere.

Linguaggio pacifico, ma che non preclude la possibilità di  giudizi assai netti: come quello di uomini «che non si erano costruiti attraverso la Bibbia, anche se la leggiucchiavano», riferito alla gerarchia ecclesiastica preconciliare; oppure quello sull’eremo, tanto sorprendente se a pronunciarlo è un camaldolese: «Ancora per me l’eremo rimane un assurdo per come è fatto»; o quello sui laureati cattolici che assistevano a Camaldoli all’ufficio in gregoriano con le braccia conserte: «Venivano ai concerti»4; e ancora il letteralismo biblico, che lo faceva «andare in bestia», il Concilio «messo nel cassetto», il cristianesimo portato in India come un «francobollo appiccicato», e così via.

(1-segue)

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  1. Benedetto Calati, Il monaco della libertà, un’intervista nascosta di Innocenzo Gargano e Filippo Gentiloni al monaco camaldolese, a cura di R. La Valle, prefazione di A. Barban, Gabrielli editori 2019.
  2. Grande camaldolese, ma, come sottolinea lo stesso p. Gargano (anch’egli camaldolese), recensendo il volume, «padre Calati non appartiene solo a Camaldoli. La Chiesa e la società italiana lo considerano anch’esse un testimone importante da riascoltare».
  3. «Padre Benedetto era nato nel 1914», ci ricorda La Valle, «perciò quando rilasciò questa intervista aveva ottant’anni, la maggior parte dei quali passati tra la cella, il coro e la biblioteca.»
  4. «Per me il gregoriano, quando sono venuto a Camaldoli nel ’31, era stata una conquista. Mi ero affezionato. Ma c’è da capire. È chiaro poi che di fronte a una Chiesa che prega avrei bruciato tutti i gregoriani immaginabili e possibili» (p. 105).

 

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Ora e sempre, Romualdo

Mi fa sempre piacere «ripassare» Romualdo, figura quasi unica di eremita intermittente e itinerante che i suoi stessi confratelli camaldolesi di oggi, a mille anni di distanza, non esitano a definire dai tratti paradossali. Così, leggendo a distanza ravvicinata tre saggi a lui variamente dedicati1, oltre a imparare tante cose, ho rinfrescato la simpatia che provo per lui: per la sua pungente irrequietezza che gli impedisce di restare a lungo nello stesso luogo; per il suo essere maestro involontario e soprattutto senza opere scritte e perlopiù silenzioso: «Sebbene con la lingua tacesse, egli predicava con la vita», scrive Pier Damiani, suo eccelso agiografo2; e ancora per i suoi molti fallimenti, se così li vogliamo chiamare, in varie iniziative; per la tragicità dello sguardo rivolto a se stesso, unito alla bontà e anche all’ironia di quello rivolto agli altri: «Sebbene il santo  mantenesse con se stesso una tale austerità», scrive ancora Pier Damiani, «mostrava sempre un volto ilare, sempre una faccia serena».

Mi piace il Romualdo santo di pochi miracoli, ma di tanti gesti singolari, concreti e simbolici. Un giorno un confratello va da lui lamentando un terribile mal di testa, Romualdo non si scompone e, «quasi prendendolo in giro, gioioso nel volto come era sempre, attraverso la finestra della cella gli soffiò sulla fronte e fece cenno a tutti gli altri che erano presenti di fare altrettanto»: e il dolore non c’è più. Un’altra volta un presbitero gli passa vicino addirittura urlando per il mal di denti: Romualdo gli guarda in bocca, tocca il punto dolente e gli dice: «Metti una lesina in una canna, perché non danneggi il labbro, e falla toccare qui, e così il dolore scomparirà» – «Nulla di prodigioso, una normale opera di medicina monastica» (Cantarella).

Mi piace il Romualdo che si nasconde, e che nasconde e dissimula le sue doti e i suoi doni, come quello delle lacrime (tra i più insondabili, per me). Riferisce ad esempio un suo confratello, con il quale recitava i salmi in una cella dell’eremo di Biforco, che «almeno tre volte nella notte, ma anche di più, Romualdo fingeva di andare per i bisogni della natura, poiché non poteva trattenere l’abbondanza delle lacrime che gli fluivano e i singhiozzi» – incontinente sì, ma di pianto!

Mi colpisce che Pier Damiani alla morte, avvenuta nel giugno del 1027, gli attribuisca l’età tutto sommato plausibile, per i suoi lettori, di centoventi anni (ne aveva settantacinque). Romualdo fu testimone del passaggio di almeno diciotto tra papi e antipapi, di cinque imperatori e di innumerevoli altre figure storiche: «Romualdo fu un uomo che avanzando negli anni vide morire, spesso prematuramente, molti tra i suoi conoscenti e discepoli. Questo personale anche se non raro destino, questa schiera di personaggi che si affacciarono sulla sua vita e velocemente scomparvero, può aver falsato l’idea della sua reale età nei discepoli dell’ultima fase della sua vita» (Fornaciari).

Tra l’altro, è proprio l’età avanzata che, sempre secondo Pier Damiani, destituirebbe di fondamento le accuse di peccato carnale che gli eremiti di Sitria rivolsero a Romualdo: «La cosa che lascia veramente stupefatti è che soprattutto degli uomini spirituali abbiano potuto credere che un vecchio decrepito, più che centenario, avesse potuto compiere un tale nefando crimine. Anche se ne avesse avuto la volontà [!], infatti, la natura, il sangue frigido e l’aridità di un corpo che aveva perso il suo vigore glielo avrebbero assolutamente negato». «Per Pier Damiani nessuno», commenta Cantarella, «proprio nessuno, nemmeno un santo, può dirsi al riparo dalla calunnia e dunque dalla verisimiglianza della tentazione.»

E infine mi piace il Romualdo massimalista che, forse amplificato dall’ancor più massimalista Pier Damiani, «mai contento dei risultati, mentre faceva alcune cose si affrettava a farne subito altre, tanto che si pensava che egli volesse convertire tutto il mondo in un eremo e associare tutta la moltitudine del popolo all’ordine monastico» – il cielo, e non soltanto quello, in una stanza!

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  1. Glauco Maria Cantarella, La «Vita Beati Romualdi», specchio del monachesimo nell’età di Guido d’Arezzo, in Guido d’Arezzo monaco pomposiano, Atti dei Convegni di Studio, Abbazia di Pomposa – Arezzo, 1997-1998, a cura di A. Rusconi, Olschki 2000, pp. 3-20; Lorenzo Saraceno, Pier Damiani, Romualdo e noi. Riflessioni di un camaldolese alle prese con i suoi auctores, in «Reti medievali» 11, 1 (2010), p. 283-308; Roberto Fornaciari, Elementi di contemplazione e mistica in Romualdo di Ravenna, in «Claretianum» 44 (2004), pp. 111-42.
  2. Vita del beato Romualdo, abate ed eremita, in Privilegio d’amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, introduzione, traduzione e note a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007.

 

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Confessioni di un monaco: «Il vento soffia dove vuole», pt. 2/2

ilventosoffia(la prima parte è qui)

C’è un punto preciso nella riflessione del priore generale di Camaldoli Alessandro Barban1 sul quale mi sono sentito, se così si può dire, chiamato in causa in maniera più diretta, un punto che riguarda, come era prevedibile, il «dialogo possibile» con i non credenti, cui è dedicato uno specifico capitolo.

Dopo aver ripercorso i vari momenti di questo dialogo, ricordando in particolare famose iniziative come gli «Itinerari e incontri» di Monte Giove, o la «Cattedra dei non credenti» e il «Cortile dei Gentili», e stigmatizzando le posizioni dei cosiddetti «atei devoti», Alessandro Barban prende le mosse da una domanda emersa nel colloquio svoltosi a più riprese tra papa Francesco e Eugenio Scalfari, una domanda posta dal pontefice: «Lei, laico non credente in Dio, in che cosa crede?»

E per darle il massimo peso il monaco se la rivolta contro: «Le esperienze di fede non sono mai uguali. Spesso mi sono trovato a camminare con dei credenti e poi mi sono reso conto che la mia esperienza di fede forse non era proprio uguale alla loro». Al tempo stesso Barban riconosce di aver sentito in certe occasioni maggiore affinità con dei non credenti, di averne condiviso gli stessi dubbi e le stesse domande. Ed ecco il punto cruciale: «Alcune volte ci sono dei non credenti che mi dicono: “Io non ho avuto il dono della fede”. Ma la fede non è un pacchetto che ci viene regalato, bensì è una risposta. E allora la differenza tra io che credo e tu che non credi è minima: io mi affido a questo Assoluto che non vedo e non tocco».

Una risposta. Dunque possiamo riconoscerci, ed essere vicini, nelle domande, e poi confrontarci, e talvolta anche separarci, nelle risposte. È una formula di innegabile qualità, cui va riconosciuta anche una forte concretezza. A patto, però, e anzitutto, di rimanere nel campo delle domande e delle risposte minuscole e plurali, e non della Domanda (che non esiste) e della Risposta, maiuscola e singolare, quale spesso è quella pronunciata dalla fede. «Partiamo tutti allo stesso livello», argomenta il priore. «Solo che la risposta alla vita, alle grandi questioni, comporta un affidamento, una percezione, un’intuizione rispetto a qualcosa che è sconosciuto, inedito», e il non credente sarebbe colui che non vince il «timore di consegnarsi», che vuole mantenere il controllo e basarsi su elementi certi e verificabili. «Lo rispetto», dice ancora Barban, «però è un impoverimento. Ecco perché credo che la differenza tra un credente e un non credente risieda proprio in questa esperienza di Dio che arricchisce la nostra umanità. Una differenza non di giustificazioni e di prove, ma di un deficit che chiamerei assenza di Assoluto.»

Assenza di Assoluto. Sì, posso essere d’accordo, e posso anche ammettere che certe volte questa assenza si faccia sentire, soprattutto sotto forma di una strana nostalgia che credo derivi da tanta cultura stratificata, ma mi sento anche di dire che non vi è alcun timore di consegnarsi a chicchessia. Mi pare invece che gran parte degli atteggiamenti che, assolutizzati, spesso ho incontrato nel discorso dei credenti, possano essere esercitati nella minima porzione di spazio e di tempo assegnataci, senza trascendenze. Anzi, è poprio lì che sono manchevole, è proprio lì che c’è molto da fare: non nell’ascolto di Qualcuno che non ho mai sentito, bensì nell’ascolto di persone di cui potrei fare nome e cognome; non nell’affidarsi a Qualcuno che non ho mai visto, bensì nell’avere fiducia in questo e quell’individuo che incontro ogni giorno.

L’assenza di assoluto non mi sembra allora un deficit, poiché è il frutto di una presenza di concreto: di un’incredibile, disarmante, disperante sovrabbondanza di concreto.

(2-fine)

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  1. Alessandro Barban e Gianni Di Santo, Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco, Rubbettino 2014.

 

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Confessioni di un monaco: «Il vento soffia dove vuole», pt. 1/2

ilventosoffiaHo letto con ritardo le «confessioni» di Alessandro Barban, priore generale della Congregazione camaldolese dal 2011, raccolte, elaborate e pubblicate dal giornalista Gianni Di Santo1: se l’avessi fatto per tempo forse avrei capito meglio, tra le altre cose, l’origine di certe osservazione polemiche rivolte a Camaldoli che mi è capitato di leggere più di recente2.

Il tratto che colpisce sin dalle prime pagine può essere riassunto in una coppia di concetti: apertura e inclusione. Apertura mentale e di cuore verso ciò che accade, ciò che si dice, ciò che si scopre nel mondo, ma anche apertura direi quasi fisica del monastero, luogo di silenzio e preghiera, ma non impermeabile alle persone e alle cose; inclusione di persone, appunto, di concetti, di prospettive, di pratiche e soprattutto di domande. Niente di particolarmente inatteso, se non fosse che queste due aspirazioni si traducono in una serie di affermazioni che, pur scontando un tono un po’ volontaristico, sono, queste sì, abbastanza inattese. «Solo un autentico cristianesimo e un neoilluminismo laico potranno delineare e inverare l’avvenire dell’Europa di domani»; «Le religioni avranno una sola chance: quella di essere voci critiche e di elaborazione per un discorso profondo di spiritualità per il bene dell’umanità» (dove già l’uso del plurale religioni è da sottolineare); bisogna «mettere al centro della società e della storia… quelli che sono emarginati per il colore della pelle, per la loro religione, perché sono analfabeti, perché sono donne, o omosessuali. I lontani per definizione. Gli “altri” da noi»; e ancora: «Ci sarà una competizione, speriamo pacifica, tra le fedi rispetto ai problemi che sorgeranno, e alla capacità delle loro risposte di essere sapienti e profetiche». In questa sfida, che il priore ritiene apertamente accolta, se non addirittura lanciata, dal pontificato di papa Francesco, il cristianesimo potrà offrire soprattutto i valori evangelici fondamentali – libertà, giustizia, pace e fraternità –, e la Chiesa che li incarna, o che dovrebbe incarnarli,  potrà ricevere un valido aiuto dal monachesimo.

La chiave del contributo che il monachesimo può dare, se ho capito bene, è quella di mostrare una concreta esperienza di fede (i monaci come «persone che abbiano fatto veramente esperienza di Dio»), di riportare l’attenzione sull’essenza del cristianesimo come condotta di vita, più che come dottrina, un’esperienza legata a un corpo e a un momento (storico) – «È possibile», si chiede Barban, «riformulare e ripresentare, qui e ora, la sostanza e l’essenza del cristianesimo?»

«Prima di domandarsi in quale Dio credo», osserva ancora il priore, «potremmo porre la questione: in quale uomo-donna credo?, e che uomo-donna sono?» In questa prospettiva per così dire antropologica diventa cruciale il richiamo costante alla figura di Gesù uomo, individuo singolare capace di rispondere alle domande plurali degli individui di oggi. E Camaldoli è uno dei luoghi emblematici di questa «pluralità», perché attira persone mosse da bisogni molto diversi e, forse paradossalmente, si apre alle domande più diverse, rispondendovi non con una «presenza integralista», ma con empatia e comunicatività. Così, all’apertura e all’inclusione si aggiunge inevitabilmente il dialogo: «Le posizioni di forza o integraliste [di nuovo] non sono più convincenti, anzi sono insostenibili in una società plurale. Si devono cercare le risposte più vere alla luce della fede e della Sacra Scrittura: è un cammino che si sta facendo. E in questi ambiti nuovi dobbiamo saper dialogare con i non credenti e con le altre religioni. Dialogare con serenità: altrimenti rischiamo di diventare fanatici che è il rischio più pericoloso».

Not quite your everyday priore, direbbero gli inglesi.

(1-segue)

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  1. Alessandro Barban e Gianni Di Santo, Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco, Rubbettino 2014. Un libro «scritto e pensato insieme, ma il “singolare” è tutto del priore.»
  2. Ad esempio in Beniamino Lucis, Ci salverà il monachesimo. Nel ritorno alle origini il rinnovamento della Chiesa, Fede & Cultura 2015.

 

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