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Confessioni di un monaco: «Il vento soffia dove vuole», pt. 2/2

ilventosoffia(la prima parte è qui)

C’è un punto preciso nella riflessione del priore generale di Camaldoli Alessandro Barban1 sul quale mi sono sentito, se così si può dire, chiamato in causa in maniera più diretta, un punto che riguarda, come era prevedibile, il «dialogo possibile» con i non credenti, cui è dedicato uno specifico capitolo.

Dopo aver ripercorso i vari momenti di questo dialogo, ricordando in particolare famose iniziative come gli «Itinerari e incontri» di Monte Giove, o la «Cattedra dei non credenti» e il «Cortile dei Gentili», e stigmatizzando le posizioni dei cosiddetti «atei devoti», Alessandro Barban prende le mosse da una domanda emersa nel colloquio svoltosi a più riprese tra papa Francesco e Eugenio Scalfari, una domanda posta dal pontefice: «Lei, laico non credente in Dio, in che cosa crede?»

E per darle il massimo peso il monaco se la rivolta contro: «Le esperienze di fede non sono mai uguali. Spesso mi sono trovato a camminare con dei credenti e poi mi sono reso conto che la mia esperienza di fede forse non era proprio uguale alla loro». Al tempo stesso Barban riconosce di aver sentito in certe occasioni maggiore affinità con dei non credenti, di averne condiviso gli stessi dubbi e le stesse domande. Ed ecco il punto cruciale: «Alcune volte ci sono dei non credenti che mi dicono: “Io non ho avuto il dono della fede”. Ma la fede non è un pacchetto che ci viene regalato, bensì è una risposta. E allora la differenza tra io che credo e tu che non credi è minima: io mi affido a questo Assoluto che non vedo e non tocco».

Una risposta. Dunque possiamo riconoscerci, ed essere vicini, nelle domande, e poi confrontarci, e talvolta anche separarci, nelle risposte. È una formula di innegabile qualità, cui va riconosciuta anche una forte concretezza. A patto, però, e anzitutto, di rimanere nel campo delle domande e delle risposte minuscole e plurali, e non della Domanda (che non esiste) e della Risposta, maiuscola e singolare, quale spesso è quella pronunciata dalla fede. «Partiamo tutti allo stesso livello», argomenta il priore. «Solo che la risposta alla vita, alle grandi questioni, comporta un affidamento, una percezione, un’intuizione rispetto a qualcosa che è sconosciuto, inedito», e il non credente sarebbe colui che non vince il «timore di consegnarsi», che vuole mantenere il controllo e basarsi su elementi certi e verificabili. «Lo rispetto», dice ancora Barban, «però è un impoverimento. Ecco perché credo che la differenza tra un credente e un non credente risieda proprio in questa esperienza di Dio che arricchisce la nostra umanità. Una differenza non di giustificazioni e di prove, ma di un deficit che chiamerei assenza di Assoluto.»

Assenza di Assoluto. Sì, posso essere d’accordo, e posso anche ammettere che certe volte questa assenza si faccia sentire, soprattutto sotto forma di una strana nostalgia che credo derivi da tanta cultura stratificata, ma mi sento anche di dire che non vi è alcun timore di consegnarsi a chicchessia. Mi pare invece che gran parte degli atteggiamenti che, assolutizzati, spesso ho incontrato nel discorso dei credenti, possano essere esercitati nella minima porzione di spazio e di tempo assegnataci, senza trascendenze. Anzi, è poprio lì che sono manchevole, è proprio lì che c’è molto da fare: non nell’ascolto di Qualcuno che non ho mai sentito, bensì nell’ascolto di persone di cui potrei fare nome e cognome; non nell’affidarsi a Qualcuno che non ho mai visto, bensì nell’avere fiducia in questo e quell’individuo che incontro ogni giorno.

L’assenza di assoluto non mi sembra allora un deficit, poiché è il frutto di una presenza di concreto: di un’incredibile, disarmante, disperante sovrabbondanza di concreto.

(2-fine)

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  1. Alessandro Barban e Gianni Di Santo, Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco, Rubbettino 2014.

 

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Confessioni di un monaco: «Il vento soffia dove vuole», pt. 1/2

ilventosoffiaHo letto con ritardo le «confessioni» di Alessandro Barban, priore generale della Congregazione camaldolese dal 2011, raccolte, elaborate e pubblicate dal giornalista Gianni Di Santo1: se l’avessi fatto per tempo forse avrei capito meglio, tra le altre cose, l’origine di certe osservazione polemiche rivolte a Camaldoli che mi è capitato di leggere più di recente2.

Il tratto che colpisce sin dalle prime pagine può essere riassunto in una coppia di concetti: apertura e inclusione. Apertura mentale e di cuore verso ciò che accade, ciò che si dice, ciò che si scopre nel mondo, ma anche apertura direi quasi fisica del monastero, luogo di silenzio e preghiera, ma non impermeabile alle persone e alle cose; inclusione di persone, appunto, di concetti, di prospettive, di pratiche e soprattutto di domande. Niente di particolarmente inatteso, se non fosse che queste due aspirazioni si traducono in una serie di affermazioni che, pur scontando un tono un po’ volontaristico, sono, queste sì, abbastanza inattese. «Solo un autentico cristianesimo e un neoilluminismo laico potranno delineare e inverare l’avvenire dell’Europa di domani»; «Le religioni avranno una sola chance: quella di essere voci critiche e di elaborazione per un discorso profondo di spiritualità per il bene dell’umanità» (dove già l’uso del plurale religioni è da sottolineare); bisogna «mettere al centro della società e della storia… quelli che sono emarginati per il colore della pelle, per la loro religione, perché sono analfabeti, perché sono donne, o omosessuali. I lontani per definizione. Gli “altri” da noi»; e ancora: «Ci sarà una competizione, speriamo pacifica, tra le fedi rispetto ai problemi che sorgeranno, e alla capacità delle loro risposte di essere sapienti e profetiche». In questa sfida, che il priore ritiene apertamente accolta, se non addirittura lanciata, dal pontificato di papa Francesco, il cristianesimo potrà offrire soprattutto i valori evangelici fondamentali – libertà, giustizia, pace e fraternità –, e la Chiesa che li incarna, o che dovrebbe incarnarli,  potrà ricevere un valido aiuto dal monachesimo.

La chiave del contributo che il monachesimo può dare, se ho capito bene, è quella di mostrare una concreta esperienza di fede (i monaci come «persone che abbiano fatto veramente esperienza di Dio»), di riportare l’attenzione sull’essenza del cristianesimo come condotta di vita, più che come dottrina, un’esperienza legata a un corpo e a un momento (storico) – «È possibile», si chiede Barban, «riformulare e ripresentare, qui e ora, la sostanza e l’essenza del cristianesimo?»

«Prima di domandarsi in quale Dio credo», osserva ancora il priore, «potremmo porre la questione: in quale uomo-donna credo?, e che uomo-donna sono?» In questa prospettiva per così dire antropologica diventa cruciale il richiamo costante alla figura di Gesù uomo, individuo singolare capace di rispondere alle domande plurali degli individui di oggi. E Camaldoli è uno dei luoghi emblematici di questa «pluralità», perché attira persone mosse da bisogni molto diversi e, forse paradossalmente, si apre alle domande più diverse, rispondendovi non con una «presenza integralista», ma con empatia e comunicatività. Così, all’apertura e all’inclusione si aggiunge inevitabilmente il dialogo: «Le posizioni di forza o integraliste [di nuovo] non sono più convincenti, anzi sono insostenibili in una società plurale. Si devono cercare le risposte più vere alla luce della fede e della Sacra Scrittura: è un cammino che si sta facendo. E in questi ambiti nuovi dobbiamo saper dialogare con i non credenti e con le altre religioni. Dialogare con serenità: altrimenti rischiamo di diventare fanatici che è il rischio più pericoloso».

Not quite your everyday priore, direbbero gli inglesi.

(1-segue)

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  1. Alessandro Barban e Gianni Di Santo, Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco, Rubbettino 2014. Un libro «scritto e pensato insieme, ma il “singolare” è tutto del priore.»
  2. Ad esempio in Beniamino Lucis, Ci salverà il monachesimo. Nel ritorno alle origini il rinnovamento della Chiesa, Fede & Cultura 2015.

 

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Monachesimo 2.0 (Dice il monaco; XLII)

Dice Alessandro Barban, priore generale della Congregazione camaldolese, nel 2014:

Per il monachesimo contemporaneo è importante parlare il linguaggio degli uomini di oggi, e conoscere ciò che sta avvenendo nella cultura e nella scienza. Non in modo dilettantesco, ma studiando seriamente. Nella tradizione monastica non c’è stata solo la specificità di un approfondimento di tipo spirituale, ma è stata sempre coltivata all’interno di una notevole ricerca culturale. Quando il monachesimo si è impoverito culturalmente, si è anche impoverito spiritualmente. Quando il monachesimo ha interpretato la fuga mundi in senso storico come separazione dal mondo, ha sempre rischiato l’irrilevanza, l’insignificanza e l’evasione. Quando invece la ricerca culturale è stata forte, se n’è arricchito anche lo spirito. Pertanto, siamo chiamati in questo tempo di svolta a non rimanere fermi sugli allori gloriosi del passato, ma a intraprendere un incontro e una conoscenza più diretta con la rete, con le università e il laboratori di ricerca.

Alessandro Barban e Gianni Di Santo, Il vento soffia dove vuole. Confessioni di un monaco, Rubbettino 2014, p. 73.

 

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