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«Ma ditemi un po’, signor abate». Sant’Anselmo e i giovani

Mentre cercavo di orientarmi (i.e. di capire qualcosa) nelle prove dell’esistenza di Dio di Anselmo d’Aosta, la mia guida, Sofia Vanni Rovighi, ha puntato il dito su un episodio della sua vita, come dice lei stessa, «degno di essere ricordato»1.

Anselmo è priore dell’abbazia benedettina di Bec, in Normandia, quindi siamo intorno al 1070, quando parlando con un abate in visita, «ritenuto molto pio», viene a discutere dell’educazione dei ragazzi (gli oblati) presenti nel chiostro. L’abate si lamenta: «Sono perversi e incorreggibili. Noi non cessiamo di frustarli giorno e notte, ma non fanno che peggiorare». Ah, non fate che frustarli? ribatte Anselmo. E quando crescono come diventano? chiede. «Stupidi e brutali», risponde l’abate. Ah, bel risultato, commenta Anselmo, da uomini che erano ne fate animali. «E noi che cosa possiamo fare?» insiste l’abate. «In tutti i modi li obblighiamo a migliorare, ma non otteniamo nulla.»

«Li obbligate?» Provocato, Anselmo risponde: «Ma ditemi un po’, signor abate [Dic quaeso michi domine abba]…» E attacca una tirata che dimostra a un tempo e la sua indignazione – assai precoce – di fronte a tale scempio e la sua visione positiva della natura umana. Gli oblati sono come piccoli alberelli piantati nell’orto della Chiesa, ma cosa succede se dopo aver piantato un albero lo comprimete da ogni parte, impedendogli di stendere i suoi rami? Crescerà storto, per forza. Allo stesso modo i ragazzi, senza poter godere di alcuno spazio di libertà, «oppressi in maniera scriteriata, accumulano, incrementano e nutrono pensieri perversi, che si attorcigliano in loro come spine»; e quel ch’è peggio, mentre crescono nel corpo, «maturano in loro anche l’odio e il sospetto della cattiveria dappertutto. […] E siccome sono stati cresciuti a non provare vero amore nei confronti di nessuno, non riescono a vedere nessuno, se non con sguardo accigliato e torvo».

«Perché siete loro così ostili?» Incalza Anselmo, e cambia immagine. Avete mai visto un orafo trasformare una lamina d’oro in un gioiello soltanto a martellate? Oltre alla severità occorrono anche «il conforto e l’aiuto di un’amorevole pietà e mansuetudine paterna». Qui l’abate tenta una sortita: «Ma quale conforto e quale aiuto? Ci diamo da fare per spingerli ad assumere comportamenti seri e maturi [graves et maturos mores]». Ma bene, ma bravi! riparte Anselmo. Come no, date del pane e del cibo solido a un neonato, vedrete se «più che esserne rifocillato, non ne sarà strozzato». L’anima, come il corpo, a seconda dell’età e della costituzione, ha bisogno di cibi differenti. L’«anima robusta» manda giù anche le cose più indigeste, l’«anima fragile… ha invece bisogno del latte, ossia della mitezza degli altri, della benignità, della misericordia, degli inviti gioiosi al bene… e di molte altre cose simili» (un paio di corsivi miei).

«Se vi adatterete in questo modo nei confronti di quelli che dipendono da voi», conclude Anselmo, «[…] li conquisterete tutti a Dio, per quanto dipende da voi.» La «tirata», lunga poco meno di cinquanta righe (fitte) a stampa, stende l’abate, letteralmente: costui infatti scoppia in lacrime e, «prostrandosi a terra, ai piedi di Anselmo, riconobbe di aver sbagliato e di essere colpevole».

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  1. L’episodio è narrato da Eadmero, nella Vita di sant’Anselmo, 1, XXII, che si può leggere in Eadmero e Giovanni di Salisbury, Vite di Anselmo d’Aosta, a cura di I. Biffi, A. Granata, S.M. Malaspina e C. Marabelli, con la collaborazione di A. Tombolini, Jaca Book 2009, pp. 67-71.

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Per chi verrà o per chi è assente (Guglielmo di Saint-Thierry e le mani)

Nel suo trattato sulla Natura del corpo e dell’anima, composto intorno al 1140, Guglielmo di Saint-Thierry, per illustrare il rapporto che intercorre tra la seconda e il primo, si dilunga sull’esempio delle mani. Che non sia, come si suol dire, «farina del suo sacco», ce lo ricorda lui stesso: «Devi sapere che quanto leggi non è mio. Io ho raccolto qui, in un solo scritto, passi tratti in parte da libri di filosofi e medici, in parte da libri di dottori della Chiesa». E in questo senso il trattato di Guglielmo1 è molto utile per avere un’idea dello stato delle conoscenze condivise sulla fisiologia del corpo umano alla metà del XII secolo. Per la parte dedicata all’anima, in cui si trova l’esempio delle mani (II, 66 e segg.), la fonte primaria è il De opificio hominis di Gregorio di Nissa, che Guglielmo legge nella traduzione latina di Giovanni Scoto Eriugena, il De imagine.

Il modo in cui l’animo, l’anima, la sostanza intellettuale, «si accosta» al corpo è beninteso «sovrarazionale e inintelligibile» e «non può essere detto né inteso», tuttavia si può dire che l’animo produca i suoi effetti come se stesse suonando uno strumento musicale, essendo tale strumento il corpo, le parti del quale sono quindi concepite perché possano essere «suonate» dall’anima.

Si prendano ad esempio, appunto, le mani, che sono una prerogativa esclusiva dell’essere umano: «Sono molte le funzioni, di pace o di guerra [corsivo mio], per le quali la natura ha costruito le mani, ma di esse ha dotato il corpo umano anzitutto per una precisa necessità della ragione» (ah, la tentazione odierna di dimenticare l’evoluzionismo per una mezz’oretta…). Se non le avessimo, dovremmo mangiare come i quadrupedi, «il collo dovrebbe allungarsi per raccogliere il cibo da terra, il naso si ridurrebbe come quello dei bruti, davanti alla bocca sporgerebbero labbra callose, pesanti, spesse, adatte a strappare l’erba, le parti carnose attorno ai denti sarebbero solide e dure, come nei cani e negli altri animali che si cibano di carne», e così non potremmo articolare la voce, ma beleremmo o muggiremmo, e così via. L’animo, che accoglie tramite i sensi tutte «le sensazioni che penetrano in lui da ogni parte» (e che lui «annota nella memoria»), e che nel suo intimo è muto, grazie alla voce può invece esprimersi, permettendoci anche di «conversare fra di noi» e di esercitare la ragione. Le mani hanno quindi sollevato la bocca da un incarico che l’avrebbe compromessa. Ma non solo.

Con le mani abbiamo potuto mettere a punto la scrittura, altro mezzo esclusivo di espressione. «Sia le mani sia la bocca servono dunque alla ragione. Le mani scrivendo per chi verrà o per chi è assente, la bocca formulando in parole con la massima facilità e prontezza tutto quello che la ragione suggerisce nell’interiorità.» Le labbra si aprono e si chiudono, come quelle di un suonatore di flauto, che grazie ai movimenti delle dita trae dal suo strumento una melodia: «In tal modo la natura umana articola le parole; la loro disposizione però è opera della ragione».

Sarebbe bello poter condividere la fiducia di Guglielmo.

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  1. Guglielmo di Saint-Thierry, La natura del corpo e dell’anima (De natura corporis et animae), a cura di A. Siclari, Nardini 1991.

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Tutta la materia del mondo, ovvero: Come ti spiazza Pacomio

Rientrando al suo monastero, dopo una visita ad alcuni fratelli, il santo Pacomio viene avvicinato da un giovane monaco, che gli confida una situazione, diciamo così, irregolare: «In verità, padre, da quando sei partito… fino a ora non ci è stata cucinata né della verdura né della farinata». No problem, risponde Pacomio, ci penso io.

Fatto il suo giro di ispezione, Pacomio entra in cucina e vede il cuoco intento a intrecciare stuoie: E da quand’è «che non cucini ai fratelli della verdura?» «Da due mesi», risponde il cuoco. E si può sapere perché, replica Pacomio. Non mi pare che la regola dica questo, anzi, «i precetti e i santi padri ordinano che al sabato e alla domenica si cucini della verdura per i fratelli», o sbaglio? Lo so, lo so, risponde il cuoco. Guarda, io l’avrei fatto anche ogni giorno, ma poi quelli per la storia dell’astinenza non toccano niente e si finisce col buttare via tutto. Tra l’altro, «spendiamo quaranta sestarii di olio al mese [più di venti litri] per la consueta pietanza cotta dei fratelli». Sicché ho smesso, per evitare tutto quello spreco, tanto quelli mangiano soltanto un’insalata condita «con aceto e olio, aglio e verdura minuta». E allora ti sei messo a fare stuoie… osserva Pacomio. Sì, «per non starmene seduto a far nulla».

Be’, ragionevole, no? No, niente affatto.

Appreso che con quel «sistema» erano state fabbricate cinquecento stuoie, Pacomio le fa portare e, sotto lo sguardo sbalordito del cuoco e dei suoi aiutanti, le fa gettare nel fuoco. Ecco, «come voi avete trascurato la regola che vi era stata assegnata riguardo alla cura dei fratelli, a causa di un pensiero ispiratovi da Satana, così anch’io ho bruciato il lavoro delle vostre mani, affinché comprendiate che cosa vuol dire disprezzare le leggi dei padri date per la salvezza delle anime». E se non avete capito, considerate che c’è un’enorme differenza tra rinunciare a qualcosa che si può avere liberamente e rinunciare a qualcosa per necessità o per forza. Nel primo caso, per l’astinenza si riceverà una ricompensa, «ma se non viene servita [ai fratelli] nessuna pietanza cotta, non sarà loro accreditata alcuna astinenza per ciò che non hanno neppure visto».

E poi, aggiunge Pacomio, che saranno mai ottanta sestarii d’olio. Non stiamo parlando di malati o di bambini, sono monaci adulti e in salute: «Che tutta la materia del mondo intero vada pure in perdizione, e non sia sottratta all’anima un’unica e semplice virtù!»

(L’episodio è tratto, con qualche «licenza», dai Paralipomeni alla vita di Pacomio, in Pacomio, servo di Dio e degli uomini. Fonti greche sulla vita di Pacomio e dei suoi discepoli, introduzione generale di W. Harmless, introduzione, traduzione e note a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2016, pp. 388-90.)

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Tre guerre, tre paradisi, tre inferni (e finale con tamburelli)

Non si sa mai dove si va a finire quando si segue il filo delle note e delle citazioni…

Stavo leggendo, finalmente, la Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx quando, seguendo appunto il concetto di «reclusione», «esclusione», «separazione», e il richiamo del numero 3, sono finito su un breve detto del «padre» del monachesimo, che alla dimora nel deserto, forma primaria di separazione dal «mondo», associa la fine di tre delle grandi «guerre» che ci devono impegnare. «Chi abita nel deserto e vive nella quiete», dice infatti abba Antonio, «è liberato da tre guerre: quella dell’udito, quella della parola e quella della vista. Gliene resta una sola: quella del cuore.» La reclusione è quindi strumento efficacissimo per concentrarsi sul «combattimento spirituale» decisivo. Favorendo il quale, la cella e il chiostro, allora, derivazioni dirette del deserto delle origini, rappresentano una parziale anticipazione della condizione di beatitudine che attende il fedele penitente. Sono in qualche misura una forma di paradiso. Anzi tre, come dice un anonimo del XII secolo scovato da Jean Leclercq: «Il paradiso della Chiesa ha tre paradisi: il paradiso dell’eremo, il paradiso del chiostro e il paradiso della reclusione, cioè del recluso». E possono anche essere chiamati paradiso «perché in essi ci si dà alla lectio, alla meditazione, all’orazione, alla compunzione e alla contemplazione». In pieno accordo con Guglielmo di Saint-Thierry, che accomuna cielo e cella alla medesima sorgente, precisando che «sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle. E che cos’è? È dedicarsi a Dio, godere di Dio». Antonio non sarebbe stato d’accordo con questo sviluppo, e non lo era san Bernardo, che ci richiama invece alla moltiplicazione degli inferni, compreso quello claustrale. In uno dei Sermoni vari, quello per l’Avvento, l’abate di Chiaravalle dice che «c’è infatti un triplice inferno». Il primo è quello della punizione, della pena senza remissione, dove non si condona niente a chi ha offeso Dio: è quello dell’esazione, «perché vi si esige fino all’ultimo spicciolo». Il secondo è quello dell’espiazione, in altre parole il purgatorio, «destinato alle anime che devono purificarsi». Infine il terzo, quello dell’afflizione e della «povertà volontaria», dove chi rinuncia al mondo anticipa la penitenza «così da non passare dalla morte al giudizio, ma dalla morte alla vita». In questo «inferno beato della povertà» nacque, visse e morì Gesù stesso, e vi raduna quelli che sottrae alla perdizione. Ma non solo: «In questo inferno ci sono giovani adolescenti [adulescentulae novae], cioè le anime degli incipienti, fanciulle che suonano tamburelli [iuvenculae profecto tympanistriae], con gli Angeli principati che le precedono con cembali armoniosi e le seguono con cembali di giubilo».

E così, partito dal deserto, sono finito in mezzo a un corteo di ragazze e angeli musicanti…1

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  1. La citazione di Antonio viene dai Padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, II, 2, a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2013, p. 95; l’anonimo del XII secolo è citato da J. Leclercq in un articolo del 1943 segnalato da Domenico Pezzini nell’introduzione a Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, Paoline 2003, p. 11; il parallelismo di Guglielmo di Saint-Thierry si trova nella Lettera d’oro. Lettera ai fratelli del Monte di Dio¸ introduzione e note di G. Como, traduzione di D.  Coppini, Paoline 2004, p. 158; il sermone di san Bernardo si può leggere in Sermoni diversi e vari, introduzione di J. Leclercq, traduzione e note di D. Pezzini (Opere di San Bernardo, IV), Scriptorium Claravallense, Città Nuova, 2000, pp. 631-647.

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bernardus.abbas@clairvaux.fr

Tra il novembre del 1151 e il marzo del 1152 Pietro il Venerabile, abate di Cluny, compie un viaggio in Italia. Dopo essere passato da Venezia, per onorare san Marco e visitare un monastero associato a Cluny, prosegue verso Sud per incontrare papa Eugenio III (incontro che avviene a Segni, in febbraio), cui Bernardo di Chiaravalle aveva preannunciato la visita dell’abate cluniacense. Tornato a Cluny alla fine di marzo, e sbrigato il lavoro accumulatosi, Pietro scrive a Bernardo per raccontargli come è andata (si tratta della lettera 192 del suo epistolario, che alcuni studiosi datano al maggio 1152). Spesso, in vista della «pubblicazione», le lettere dei personaggi più illustri venivano riviste, ma in questo caso, eccezionalmente…

… disponiamo della minuta, o, più esattamente, della mail con la quale Pietro anticipa a Bernardo i punti principali del suo resoconto. E che comincia così:

* * *

A: Bernardo (bernardus.abbas@clairvaux.fr)

Da: Pietro (petrus.abbas@cluny.com)

Re: Trasferta italiana

Carissimo Bernardo, scusami.

Non me ne volere per il ritardo con il quale ti rispondo. Quando mi hai scritto ero sommerso dal lavoro, da una tale quantità di rogne che spuntavano da ogni parte (sei abate anche tu, sai a cosa mi riferisco), che potevo a malapena respirare, figurati scrivere. Immaginati una diga che si rompe, e l’acqua di un torrente che si riversa; poi, mentre ero in viaggio, si è formato un lago, quasi sconfinato, tanto che in quel momento mi veniva da gridare, come il Salmista: Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Così il ritardo si è accumulato, e proprio a te, cui sono tanto debitore di affetto, dolcezza, amicizia e attenzione – praticamente tutto –, non ho risposto. Lo faccio ora, che finalmente tiro un po’ il fiato, sperando che tra non molto potremo anche vederci, cosa che mi riempie sempre di gioia. [Pietro e Bernardo si incontrano effettivamente, a Cluny, probabilmente in giugno.]

Il viaggio è andato bene, sia lode al Signore che ci ha protetti: con la Sua grazia, il tuo sostegno e le preghiere dei tuoi (che sono sicuro sono state abbondanti), siamo andati e tornati sani e salvi, abbiamo ricevuto quello che il nostro cuore desiderava e le nostre richieste sono state esaudite. Hai presente Isaia? Direi che per noi, letteralmente, il terreno accidentato si è trasformato in piano e quello scosceso in pianura. Persino le Alpi e tutti quei posti dove la neve non va mai via sembravano aver dimenticato il loro orribile aspetto. L’aria, Bernardo, l’aria invernale che al ritorno in Gallia ho trovato più sgradevole del solito, carica di freddo e di pioggia, durante tutto il tempo che siamo stati in Italia, sia per terra sia lungo il fiume (e già, per qualche giorno e qualche notte abbiamo viaggiato in barca sul Po), è stata sempre piacevole e serena, a parte quattro o cinque giorni. Ci eravamo preoccupati per le strade fangose? Anzi, eravamo davvero spaventati dai racconti di quelli che ci avevano messo in guardia? Ebbene, le abbiamo trovate invece quasi sassose per la siccità.

Un paio di fratelli che viaggiavano con noi, uomini di vita pura e semplice, sono finiti in acqua, e li davamo già per spacciati quando, per miracolo (absit iniuria verbis) li abbiamo tirati fuori, per così dire, vivi dalle fauci della morte. E senti cosa è successo a me. Giunto nei pressi di un ponte, il mio mulo si è fermato, le zampe bloccate dal fango, come se fossero incollate (be’, sì, qualche volta le strade non erano del tutto asciutte, sai com’è). Così, contrariamente al mio solito (lo sai che sono molto, molto… prudente), sono sceso di sella e mi apprestavo a proseguire a piedi, quando sono scivolato e, niente, stavo per «finire nell’abisso». È stata la mano di Dio, la cui forza, va detto, si è aggiunta a quella del mulo, a salvarmi: in un baleno mi sono ritrovato di nuovo in piedi sul ponte. E così, a parte lo spavento, non mi sono fatto niente. Cioè, come sono partito, così sono tornato, ma non per la fortuna, bensì perché ho avuto il Signore sempre al mio fianco. Insomma, non mi è successo nulla, nulla che non volessi, se non per debolezza o addirittura morte degli animali, di cui, ahimè, Dio non si cura.

Tutto bene dunque lungo la strada, ma ancor di più presso il papa. L’ho trovato bene: buono all’inizio, migliore durante l’incontro, ottimo alla fine. Sì, ti devo confessare che l’ho trovato veramente ottimo, pieno di vigore e in gran forma apostolica, per dir così. E mentre l’espressione del suo volto cambiava a seconda delle circostanze, delle persone e degli avvenimenti, e ad alcuni sorrideva e ad altri non sorrideva affatto, nei miei confronti non si è mai mostrato diverso. Ti assicuro: come mi ha accolto all’arrivo, così era quando me ne sono andato. Ho anche notato che la faccia più austera o triste che spesso era costretto ad assumere per altri motivi, quando si rivolgeva a me, privatamente o pubblicamente, si trasformava dal cipiglio del giudice al sorriso del padre. Bene, dài…

* * *

♦ La lettera 192, quella vera, «all’illustre e singolare uomo del nostro tempo, signor Bernardo, abate di Chiaravalle», si trova nell’originale latino in The Letters of Peter the Venerable, edited with an introduction and notes by Giles Constable, vol. I, Harvard University Press 1967, pp. 443-48.

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Un piccolo cetriolo

«Un fratello, mentre attraversava il deserto in direzione di Scete, arrivò al fiume Nilo e, poiché era affaticato dal cammino ed era ormai l’ora della grande calura, si spogliò dei suoi vestiti e scese per fare il bagno.» «Un giorno un fratello chiese qualcosa a un diacono, e questi gli disse: “Adesso non ho tempo!”» «Un anziano aveva un discepolo provato e un giorno, per un moto di insofferenza lo cacciò fuori.» «Una volta, mentre parlavo di ciò che è utile ad alcuni fratelli, sprofondarono in un sonno così profondo che non riuscivano più a muovere neanche le palpebre.» «Una volta gli capitò di essere un po’ trascurato.» «I padri dicevano che una volta, mentre i fratelli mangiavano durante un’agape fraterna, un fratello si mise a ridere.» «Un fratello interrogò abba Poimen dicendo: “Che cosa devo fare? Quando sto seduto nella cella sono preso dallo sconforto”.» «Gli dissero: “Abba, come fai a sopportare questi bambini senza ordinare loro di smettere di parlare senza freno?”» «Un anziano a Scete che era molto resistente alla fatica fisica, ma non molto preciso nel ricordare le parole, si recò da abba Giovanni Nano per interrogarlo sulla dimenticanza. E dopo aver udito da lui una parola, ritornò alla sua cella; si dimenticò però ciò che gli aveva detto abba Giovanni e si recò di nuovo a interrogarlo…» «Raccontarono di un anziano che un giorno provò il desiderio di mangiare un piccolo cetriolo»…1

Nei racconti dei Padri del deserto mi piacciono moltissimo i particolari di contorno o, più esattamente, le circostanze, i dialoghi, le battute che servono a introdurre il tema morale che il racconto svolge e «risolve». Mi piacciono perché sono frammenti che possono essere trasportati di peso dal IV al XXI secolo, sono situazioni familiari – «come comporta la natura umana», dice splendidamente san Girolamo – che si ripetono con minime variazioni lungo la scarpata dei secoli (il che è confortante e sconfortante al tempo stesso): tristezze, insofferenze, dimenticanze, risposte brusche, piccole voglie, pigrizie, stanchezze: un tappeto sempre calpestato e sempre ritessuto.

Ai Padri si chiede la parola che salva, li si ascolta e li si guarda colmi di ammirazione, ci si congeda da loro «edificati», ma i miei veri fratelli sono quelli che si addormentano mentre l’abba parla nel cuore della notte.

Per la cronaca occorre aggiungere che il monaco citato in apertura, che cedette al fresco richiamo delle acque del Nilo, venne poi assalito da «una bestia feroce chiamata coccodrillo». Un anziano che passava di lì, visto lo scempio, chiese al coccodrillo perché avesse mangiato un monaco, e «la bestia gli disse con voce umana: “Io non ho mangiato un abba, ma ho trovato un secolare e l’ho mangiato: il monaco eccolo là”. E accennava all’abito».

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  1. Le citazioni sono tratte da: I Padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, introduzione, traduzione e note a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2013.

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La sventurata aspettava il segnale (Aelredo a Watton)

È lo stesso Aelredo di Rievaulx, mite cantore cisterciense dell’amicizia monastica, e dell’amicizia tout court, a raccontare con cautela la storia terribile di una «certa ragazza» (niente nome, solo puella quaedam) del monastero gilbertino di Watton (Yorkshire), accaduta intorno alla metà del XII secolo. La racconta in una lettera a un destinatario ignoto per prevenire in qualche misura lo scandalo che i nemici della virtù e dell’ordine potrebbero suscitare, e lo fa perché ne è stato in parte testimone oculare e perché ha saputo il resto da persona «la cui maturità e santità non le avrebbero permesso di mentire»1.

La bambina entra in monastero come oblata all’età di quattro anni, con la benedizione del vescovo di York, e, raggiunta l’adolescenza, comincia a comportarsi da… adolescente: nessun amore per la religione, nessun rispetto per la disciplina, nessun timore di Dio; e ancora, a mano a mano che passa il tempo, ammicca, è sboccata, si muove in maniera indecente, non si cura delle punizioni, morali o corporali che siano, fa gestacci e dà il cattivo esempio. Ciò nonostante è costretta a restare, per paura, e a mantenere un’apparenza di «onestà». Una ragazza ribelle, una bomba pronta a esplodere o, per usare altri termini, la preda perfetta del diavolo.

Che infatti si presenta nelle forme, avvenenti, di un giovane converso (?) che entra con altri nel chiostro per fare dei lavori. È il diavolo, certo, che ha combinato la «cosa», ma le parole di Aelredo (suo malgrado?) raccontano qui, in un primo momento, la storia eterna: lei lo guarda, lui la guarda; qualche cenno del capo, poi qualche gesto («res primum nutibus agitur, sed nutus signa sequuntur»), quindi una, due, tre parole e infine un breve e dolce dialogo amoroso – e il sostantivo che «scappa» al monaco dice tutto: «Tandem rupto silentio conserunt de amoris suavitate sermonem». E qui Aelredo fa un’osservazione che merita di essere sottolineata. Entrambi i giovani alimentano l’un l’altro il seme della lussuria, «ma lui pensava allo stupro, mentre lei, come disse in seguito, pensava soltanto all’amore» («et ille stuprum meditabatur, illa vero postea dicebat, de solo cogitabat amore»).

Comunque la miccia è accesa, la premessa della tragedia è posta. I due si parlano ancora, si accordano per un incontro, lui lancia un sasso sul tetto del dormitorio («e tu, infelice ragazza, cosa pensavi? Cosa ti spingeva a prestare orecchio alle tegole con tanta attenzione?»), lei cede, e infine («chiudete le vostre orecchie, vergini di Cristo, copritevi gli occhi») esce dal dormitorio vergine per rientrarvi poco dopo adultera, esce colomba e finisce tra gli artigli del falco («è gettata a terra, la bocca coperta in modo che non possa chiamare e, già corrotta nella mente, viene corrotta nella carne»). Sperimentata la voluttà, il male impone di essere ripetuto, sicché la cosa si ripete, le monache si insospettiscono (che sono tutti ’sti sassi?), lei resta incinta, lui scappa, lei confessa, le monache perdono la testa: la picchiano, alcune vogliono bruciarla, altre scuoiarla; la superiora riprende il controllo della situazione: la puella quaedam viene imprigionata, frustata e pesantemente incatenata, a pane e acqua.

Ma la gravidanza diventa evidente: che fare? La cosa migliore è rimandare la ragazza, che è diventata un’immonda prostituta («meretrix adulterino fetu gravida»), a chi l’ha traviata. Ed è lei, stremata, a indicare il luogo dove avrebbe potuto ritrovare il giovane se mai fosse uscita dal monastero. Alcuni membri dell’ordine maschile preparano l’agguato, uno si traveste da monaca, catturano il giovane (che, vista la figura velata «sicut equus et mulus, quibus non est intellectus, irruit in virum quem feminam esse putabat»), lo massacrano di botte e lo consegnano alle monache. La punizione deve essere esemplare. Le monache lo portano al cospetto della sventurata, obbligano costei a evirarlo e – lasciamo parlare il latino di Aelredo – «una de astantibus, arreptis quibus ille fuerat relevatus, sicut erant foeda sanguine in ora peccatricis projecit».

Aelredo inorridisce, ma non può condannare apertamente, così, dopo otto righe di premesse bibliche, dice: «Non lodo il gesto, bensì lo zelo; non approvo lo spargimento di sangue, bensì l’indignazione delle sante vergini nei confronti di tale turpitudine», e cambia argomento.

La giustizia, anzi, la vendetta è consumata. Il ragazzo viene restituito ai confratelli e la ragazza, spezzata come possiamo solo immaginare, viene rimessa in cella, e di nuovo incatenata. Qui il suo pentimento giunge a compimento – come la sua gravidanza, assai faticosa e complicata dalla prigionia e dalle angherie2 –, tanto che la notte prima di quello che ormai è un parto imminente, la giovane ha una (seconda) visione: il vescovo stesso le si presenta insieme con due donne dal volto bellissimo… La ragazza offre al prelato piena confessione del suo peccato e poi le sembra («ut sibi videbatur») che le due donne si allontanino insieme col vescovo recando un bambino avvolto in panni candidi. Quando si desta il suo ventre è vuoto e il corpo perfettamente integro.

Sulle prime, le monache la accusano di ulteriore empietà: maledetta, cos’hai fatto? Ma non v’è alcun segno che la incolpi di alcunché, non v’è traccia di neonati e, anzi, una delle pesanti catene che la imprigionavano si è spezzata. La giovane racconta la sua visione e le monache chiamano il superiore della congregazione che, a sua volta, chiama proprio Aelredo. Seguono giorni, di racconti, testimonianze, nuove accuse, verifiche di catene, preghiere, finché Aelredo torna al suo monastero, «lodando e glorificando il Signore per tutto quello che avevo visto e udito e quello che mi era stato raccontato dalle sorelle». Qualche giorno dopo una lettera lo informa che anche l’altra pesante catena che inchiodava a terra la giovane si è spezzata: bene, «ciò che Dio ha sciolto, tu non legherai».

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  1. Ho letto il De sanctimoniali de Wattun, «Le monache di Watton», nella Patrologia latina, vol. 195, cc. 780-96, aiutato nella comprensione da una traduzione in inglese di John Boswell.
  2. Tra l’altro, la descrizione dei particolari fisici della gravidanza fornita in queste pagine è stata oggetto di studi che ne hanno approfondito gli aspetti di storia della medicina.

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Righe storte e fogli mossi

Commentando la finezza psicologica di Evagrio nel cogliere le insidie dell’acedia anche nei dubbi che tormentano il religioso o la religiosa, Gabriel Bunge fa di sfuggita un’osservazione degna di nota. Bisogna ricordare, sottolinea infatti, che insieme «a motivi nobili e autentici, in ogni decisione entra in gioco anche una quantità di ragioni superficiali o addirittura impure». Accanto a queste, quindi, nella risposta a una vocazione (e forse in ogni buona scelta) si rivela una «elezione per grazia», e solo agli increduli la particolare combinazione di debolezza umana e forza divina «sfuggirà per sempre». La convinzione che si tratti sempre e soltanto di «fattori umani» è un’illusione, un’illusione demoniaca e fatale «alla quale molti soccombono, e non da oggi».

La verità è che «Dio scrive diritto anche su righe storte», dice Bunge, e questa espressione me ne ha riportata subito alla memoria un’altra che ho letto di recente. È del gesuita Jean-Pierre de Caussade, cui si attribuisce uno dei testi più famosi della spiritualità cristiana, quell’Abbandono alla Provvidenza divina ricavato probabilmente dalla sua corrispondenza rivolta alle visitandine di Nancy e diffuso a partire dal 1860.

Considerando l’inutilità di tante «parole e idee confuse» per riconoscere la volontà di Dio e la Sua azione, mentre si dovrebbe «far uso soltanto di quello che Dio ci dà da patire e da fare», Caussade lamenta l’insensatezza e la curiosità che ci spingono a leggere gli scritti che celebrano la Sua storia, invece di lasciare che Egli la prosegua «scrivendo sui nostri cuori diversamente che con l’inchiostro». In questo modo «teniamo la carta in una agitazione continua», e Dio non può scrivere.

Non ti muovere! sembra dire Caussade, se vuoi che Dio scriva sulla tua anima. Non ti preoccupare, ribatte Bunge, anche se il foglio si muove e la riga è storta, Dio scriverà ugualmente.

E chi scriverà sul foglio del miscredente, ammesso che ne abbia uno anche lui? Se lo scriverà da solo? E per chi? In quale archivio finirà, se ci finirà, quel foglio?

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♦ Gabriel Bunge, Akèdia. Il male oscuro, nuova edizione interamente rifatta sulla quarta edizione tedesca ampliata [1995], a cura di V. Lanzarini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1999, pp. 88-89; Jean-Pierre de Caussade, L’abbandono alla Provvidenza divina, traduzione di M. Calasso, Adelphi 1989, p. 121.

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Colpo di scena bernardino

Per diversi anni la situazione è stata questa.

Non che la cosa impedisse letture e consultazioni altrove, ma certo quel «buco» turbava l’appassionato di cose monastiche, soprattutto per il sospetto che mai, forse, sarebbe stato riempito. Nel piano dell’opera, che ancora si poteva leggere negli ultimi cataloghi della casa editrice Città Nuova, alla pagina «Opera Omnia di San Bernardo», il volume terzo, Sermoni per l’anno liturgico, Sermoni sul salmo «Qui habitat», era sempre dato «in preparazione», in due tomi. Poi, un bel giorno di febbraio del 2021, a oltre trentacinque anni dalla data di pubblicazione del primo volume dell’opera, in una delle tante newsletter editoriali che riceve, il suddetto appassionato ha letto: «Con la traduzione dei 128 Sermones per annum giunge al termine l’Opera Omnia bilingue di Bernardo di Clairvaux. Il primo volume raccoglie i sermoni dall’Avvento alla Quaresima; il resto seguirà nel secondo».

[Diffuse espressioni di giubilo.]

Ed eccolo qui, bello nella sua pur «dimessa» versione in brossura.

[Vasto consenso generale.]

A commento di questa piccola cosa ripiegata sotto gli ampi strati dei drammi e delle tragedie mondiali, riporto due brani dall’elegantissima Premessa che Ferruccio Gastaldelli, direttore originario dell’impresa, antepose nel 1984 al primo volume, contenente i Trattati.

«Alle soglie di quest’opera omnia di san Bernardo mi sembra giusto ricordare l’occasione piuttosto insolita che ne è all’origine. Il suo primissimo avvio risale al 1963, quando Raffaele Mattioli, andando alla ricerca di un angolo quieto per la sua sepoltura, scoperse alle porte di Milano il piccolo cimitero monastico dell’abbazia di Chiaravalle, ormai abbandonato da secoli. Affascinato dalla semplicità di quel luogo, chiese all’abate Giovanni Rosavini di concedergli una fossa, davanti ad una cappella che secondo la tradizione ospitò per qualche tempo la salma di una donna eretica del Duecento, la boema Guglielma. Il Mattioli si spense il 27 luglio 1973, e le sue spoglie giacciono dal 1974 nella fossa che s’era scelta, vigilate da un’abbagliante Resurrezione di Manzù. Le opere che ora si pubblicano sono il contraccambio che quell’uomo munifico e la sua famiglia rendono all’ospitale abbazia, fondata appunto da san Bernardo nel 1135.»

[A giustificare quest’impresa] «C’è un altro interesse, forse maggiore, ed è l’eredità che questo mistico ha lasciato nei suoi scritti. Non vi si trovano visioni estatiche né vaghezze emotive, ma una personale esperienza di Dio e una acuta percezione della condizione umana. San Bernardo riconosce la grandezza originaria dell’uomo e insieme ne conosce la quotidiana degradazione. Da questa consapevolezza prende avvio la sua riflessione che riscatta dalla regio dissimilitudinis i grandi momenti dell’esistenza: la coscienza di sé, la libertà, l’amore, il desiderio, le passioni. Sono temi che a nessuno possono apparire estranei. Non sembra superfluo allora riproporre questa dottrina, che se è un itinerario a Dio, è pure e prima ancora un ricupero dell’uomo [questo corsivo è mio]. A chi la cerca e a chi la studia mi auguro che questo lavoro riesca utile, o almeno non li deluda.»

[Vivissimi applausi all’indirizzo del prefatore.]

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♦ San Bernardo, Sermoni per l’anno liturgico / 1, introduzione, traduzione e note di Domenico Pezzini, Città Nuova 2021.

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Pergamene sottili e disgraziati caratteri

Devo al notevolissimo saggio di Charles Dumont sulla «sapienza cisterciense secondo san Bernardo», Sulla via della pace1, l’attenzione riportata su molti passi bernardini di grande bellezza e verità. La centralità dell’esperienza nella riflessione di san Bernardo, l’osservazione instancabile delle dinamiche psicologiche, che si traduce in una profusione di immagini, similitudini, metafore, tutte animate dal desiderio di farsi capire dal suo lettore, e sarebbe forse più corretto dire dal suo ascoltatore, poiché sempre è avvertibile la voce dell’abate che sta parlando ai suoi monaci, penso sia una delle ragioni principali della sua «attualità»: se, per un qualsiasi motivo, ci si dispone ad acoltarlo, è difficile non esserne coinvolti. Personalmente, poi, è il Bernardo che squaderna i moti meno nobili dell’animo, con tagliente severità e compassione fraterna, a incidere di più nella mia lettura. E se in ogni occasione, alla luce impietosa gettata sulla ferita, Bernardo fa seguire la somministrazione, se così si può dire, del rimedio, a chi non crede all’efficacia di tale rimedio, rimane il più delle volte il dolore dell’incisione, forse comunque consigliabile invece dell’inconsapevolezza.

L’«incisione» più profonda in questa circostanza l’ha prodotta, probabilmente, un passo sulla memoria del grande sermone Ad clericos de conversione2. Lungo la via della pace, quale la percorrono in particolare i monaci, Bernardo indica infatti come «terza incombenza», dopo l’illuminazione della ragione (sulla verità) e la purificazione della volontà (dalle passioni), la disinfestazione della memoria dal ricordo dei peccati commessi, non perseguendone la dimenticanza, bensì implorandone la remissione all’Unico la cui indulgenza senza limiti può, senza cancellarli, tuttavia spegnerli.

Questo è il rimedio che Bernardo offre, senza incertezze, alla ferita sempre aperta della memoria, la cui lenta, inesorabile infezione descrive con poche righe di straordinaria evidenza visiva, tremende e sublimi. Quand’anche ci si tenga a distanza dai concetti di peccato, colpa, contrizione e remissione, sono parole che mi pare parlino a tutti. Eccole, senza ulteriori commenti:

«Dopo che la volontà s’è cambiata e il corpo è stato assoggettato, come se la sorgente delle nequizie fosse stata in certo modo essiccata e turato il buco, rimane ancora una terza incombenza, quella di purificare la memoria e di svuotare la latrina. Come potrà sparire dalla mia memoria la vita mia? Una pergamena modesta e sottile ha forse assorbito l’inchiostro; con quale metodo potrà essere cancellato? Perché non s’è limitato a tingere la superficie, ma ha imbevuto di sé tutta la pergamena. Sarebbe inutile tentare di grattar via le lettere: si strapperebbe la carta prima di riuscir a cancellare i disgraziati caratteri. Forse l’oblio potrebbe cancellare la memoria, se per esempio la mia mente fosse offuscata e io non riuscissi più a ricordarmi le colpe commesse. Ma non verificandosi questa eventualità, quale rasoio potrebbe fare in modo che, pur rimanendo intatta la memoria, scompaiano le macchie che la sconciano?»3

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  1. Charles Dumont, Sulla via della pace. La sapienza cisterciense secondo san Bernardo, introduzione di B. Olivera, traduzione a cura delle monache trappiste di Vitorchiano, Jaca Book 2000 (ediz. orig. Au chemin de la paix. La sagesse cistercienne selon saint Bernard, 1998).
  2. San Bernardo, Ai chierici sulla conversione, a cura di E. Paratore e J. Jolivet, in Sentenze e altri testi («Opere di San Bernardo» II), Scriptorium Claravallense – Città Nuova 1990. Scrive Ferruccio Gastaldelli nella Premessa al volume: «[Questi testi ci presentano] un san Bernardo inedito, spoglio dei paludamenti della scrittura e delle grandi occasioni, colto invece nella spontaneità della sua predicazione quotidiana ai monaci. I quali ne trascrissero le parole all’ascolto, tramandandoci un Bernardo più vivo, se non più autentico, di quello che offrono le opere maggiori».
  3. Ai chierici sulla conversione, XV, 28 (p. 197).

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