Mentre cercavo di orientarmi (i.e. di capire qualcosa) nelle prove dell’esistenza di Dio di Anselmo d’Aosta, la mia guida, Sofia Vanni Rovighi, ha puntato il dito su un episodio della sua vita, come dice lei stessa, «degno di essere ricordato»1.
Anselmo è priore dell’abbazia benedettina di Bec, in Normandia, quindi siamo intorno al 1070, quando parlando con un abate in visita, «ritenuto molto pio», viene a discutere dell’educazione dei ragazzi (gli oblati) presenti nel chiostro. L’abate si lamenta: «Sono perversi e incorreggibili. Noi non cessiamo di frustarli giorno e notte, ma non fanno che peggiorare». Ah, non fate che frustarli? ribatte Anselmo. E quando crescono come diventano? chiede. «Stupidi e brutali», risponde l’abate. Ah, bel risultato, commenta Anselmo, da uomini che erano ne fate animali. «E noi che cosa possiamo fare?» insiste l’abate. «In tutti i modi li obblighiamo a migliorare, ma non otteniamo nulla.»
«Li obbligate?» Provocato, Anselmo risponde: «Ma ditemi un po’, signor abate [Dic quaeso michi domine abba]…» E attacca una tirata che dimostra a un tempo e la sua indignazione – assai precoce – di fronte a tale scempio e la sua visione positiva della natura umana. Gli oblati sono come piccoli alberelli piantati nell’orto della Chiesa, ma cosa succede se dopo aver piantato un albero lo comprimete da ogni parte, impedendogli di stendere i suoi rami? Crescerà storto, per forza. Allo stesso modo i ragazzi, senza poter godere di alcuno spazio di libertà, «oppressi in maniera scriteriata, accumulano, incrementano e nutrono pensieri perversi, che si attorcigliano in loro come spine»; e quel ch’è peggio, mentre crescono nel corpo, «maturano in loro anche l’odio e il sospetto della cattiveria dappertutto. […] E siccome sono stati cresciuti a non provare vero amore nei confronti di nessuno, non riescono a vedere nessuno, se non con sguardo accigliato e torvo».
«Perché siete loro così ostili?» Incalza Anselmo, e cambia immagine. Avete mai visto un orafo trasformare una lamina d’oro in un gioiello soltanto a martellate? Oltre alla severità occorrono anche «il conforto e l’aiuto di un’amorevole pietà e mansuetudine paterna». Qui l’abate tenta una sortita: «Ma quale conforto e quale aiuto? Ci diamo da fare per spingerli ad assumere comportamenti seri e maturi [graves et maturos mores]». Ma bene, ma bravi! riparte Anselmo. Come no, date del pane e del cibo solido a un neonato, vedrete se «più che esserne rifocillato, non ne sarà strozzato». L’anima, come il corpo, a seconda dell’età e della costituzione, ha bisogno di cibi differenti. L’«anima robusta» manda giù anche le cose più indigeste, l’«anima fragile… ha invece bisogno del latte, ossia della mitezza degli altri, della benignità, della misericordia, degli inviti gioiosi al bene… e di molte altre cose simili» (un paio di corsivi miei).
«Se vi adatterete in questo modo nei confronti di quelli che dipendono da voi», conclude Anselmo, «[…] li conquisterete tutti a Dio, per quanto dipende da voi.» La «tirata», lunga poco meno di cinquanta righe (fitte) a stampa, stende l’abate, letteralmente: costui infatti scoppia in lacrime e, «prostrandosi a terra, ai piedi di Anselmo, riconobbe di aver sbagliato e di essere colpevole».
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- L’episodio è narrato da Eadmero, nella Vita di sant’Anselmo, 1, XXII, che si può leggere in Eadmero e Giovanni di Salisbury, Vite di Anselmo d’Aosta, a cura di I. Biffi, A. Granata, S.M. Malaspina e C. Marabelli, con la collaborazione di A. Tombolini, Jaca Book 2009, pp. 67-71.