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Perduta di vista la terra (Dice il monaco, CX)

Dice il cappuccino Benedetto da Canfield, nel 1610:

La volontà di Dio è un mare spirituale sul quale ciascuno può navigare secondo la dimensione della sua nave, di modo che le barchette delle anime deboli dei principianti remano nei porti, sulle acque basse della volontà esteriore; i barconi dei progrediti veleggiano, spingendosi più al largo, nella profondità della volontà interiore, e i potenti vascelli dei perfetti, perduta di vista la terra, navigano nel mare aperto della volontà essenziale.

♦ Benedetto da Canfield, Regola di perfezione, I, I, 8, a cura di M. Vannini, Edizioni Biblioteca Francescana 2022, p. 19.

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Le mille cose che ogni giorno ci capitano (Benedetto da Canfield e la volontà di Dio)

RegolaDiPerfezione Ho poi cominciato a leggere la Règle de Perfection del cappuccino Benedetto da Canfield1, e già nelle prime pagine, com’era prevedibile, data la struttura dell’opera, mi sono imbattuto in un argomento che, per così dire, mi sta a cuore: la definizione e la conoscenza della «volontà di Dio», alla quale generazioni di monaci e di monache, tra gli altri, hanno cercato di corrispondere.

Anzitutto, «per la migliore comprensione di questa materia», occorre distinguere tale volontà, ma non come fa la Scolastica, bensì con una «divisione mistica» in esteriore, interiore ed essenziale. Va da sé che quella che mi interessa di più è la prima, che così viene definita: «La volontà esteriore di Dio è il beneplacito divino, conosciuto attraverso la legge e attraverso la ragione, regola di tutti i nostri pensieri, parole e opere nella vita attiva». Qui il beneplacito è il compiacimento di Dio «quando facciamo del bene e osserviamo i suoi comandamenti»; la legge è un concetto assai capiente, nelle nove precisazioni di Benedetto, che vanno dai comandamenti alle norme ecclesiastiche, dalle Regole degli Ordini religiosi alle disposizioni vescovili, dagli «ordini dei padri e delle madri» alla «legge dei Magistrati»; la ragione interviene in tutte quelle cose non sancite dalla legge (gli esempi sono curiosi, «sposarsi o mantenersi celibi, intraprendere un viaggio o non uscire di casa, sedere o restare in piedi, parlare o tacere, e mille altre cose che ogni giorno ci capitano»), e la sua azione si può riassumere in discrezione, pietà, consiglio.

La definizione va bene, ma il discernimento è tutta un’altra storia, Benedetto ne è consapevole e dedica un capitolo (il VI: «Regola per conoscere e praticare la volontà di Dio in ogni cosa») per esporre «qualche regola più specifica». Dunque, tutte le cose da fare o non fare, ammettere o resistere, ecc., sono o comandate, o vietate, o indifferenti («e non può capitare nulla che non sia compreso in uno di questi tre tipi»). Le prime due categorie sono facili, c’è la legge, per la terza bisogna procedere a un’ulteriore distinzione in cose piacevoli per la natura umana, contrarie o indifferenti. Nel primo caso si deve resistere, mentre nel secondo accettare, perché la mortificazione è sempre gradita. Nelle situazioni dubbie – gradevole o sgradevole? – l’importante è decidere prontamente per il sì o per il no, «piuttosto che discutervi a lungo, con distrazioni, rompimento di testa e perdita di tempo». Nel terzo caso è l’intenzione che fa la differenza: «In tutte le cose indifferenti [Dio] vuole che conosciamo e facciamo la sua volontà non dando altro mezzo se non l’applicazione della nostra intenzione». Tanto che sarà più gradita una passeggiata, fatta con la sola intenzione di piacergli, che tre ore di orazioni, fatte per dimostrarsi più pii degli altri2.

Nel capitolo VII Benedetto, oltre a rispondere ad alcuni dubbi e a segnalare alcune eccezioni, aggiunge un’interessante digressione sugli appartenenti a un Ordine. I religiosi, quando considerano la vastità della volontà di Dio («La volontà di Dio è un mare spirituale sul quale ciascuno può navigare secondo la dimensione della sua nave» – molto bello), pensando di essere impegnati in altissime vicende, non devono tralasciare le piccole cose, «per piccole che siano», che preservano la condizione monastica e la circondano «come un giardino la sua siepe». Infatti, «le buone abitudini e le costituzioni del proprio ordine religioso, anche se non ne costituiscono la vera essenza, sono comunque la muraglia e la controscarpa a sua difesa».

E questa, conclude provvisoriamente Benedetto da Canfield, è la vera vita attiva e contemplativa, non separata («come molti la considerano»), bensì unita, perché nella pratica e nella costanza le mille cose che ogni giorno ci capitano si trasformano da opere esteriori in interiori, da materiali in spirituali, da oscure in luminose: la contemplazione e l’azione si saldano, «senza pregiudizio né impedimento dell’una sull’altra». Soltanto per i monaci?

A questo punto non sarebbe male approfondire cosa succede se alla «purezza interiore d’intenzione» si toglie il riferimento alla volontà di Dio, se legge e ragione non hanno come obiettivo il «beneplacito divino», ma io di certo non posso farlo.

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  1. Benedetto da Canfield, Regola di perfezione, a cura di M. Vannini, Edizioni Biblioteca Francescana 2022.
  2. «Come una piccola quantità d’oro supera di valore una gran massa di piombo, così la purezza interiore d’intenzione supera di molto l’opera esteriore in valore di fronte a Dio.»

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Meteoriti provenienti da regioni lontane dello spazio

Uno è lì, bello tranquillo (per modo di dire), che si legge la sua bella introduzione all’opera di un frate cappuccino inglese di fine ’500 – introduzione di gran pregio, che rispetta il canone di: cenni biografici sull’autore, tempi di composizione dell’opera, suoi temi principali e fonti, ricezione e fortuna – ed ecco che arriva il colpo a sorpresa. Si chiede infatti l’insigne studioso, estensore dell’introduzione: «Che senso ha, oggi, riprendere in mano e leggere la Règle de Perfection?». Già, perché si tratta della Regola di perfezione di Benedetto da Canfield (stampata nel 1610), ottimamente curata da Marco Vannini nel 2022 per le Edizioni Biblioteca Francescana – e forse potrei chiedermelo anch’io, perché leggerla, oggi…

Di questo «capolavoro che diede forma a tutta la mistica del XVII secolo» proverò a dire qualcosa più in là; per intanto mi preme generalizzare quella domanda: non è forse quello che mi chiedo ogni volta che prendo in mano uno dei «miei» libri di monaci? Continua il Vannini: «È stato infatti più volte autorevolmente notato come la letteratura mistica del Seicento, in specie quello francese, sia per noi oggi una sorta di meteorite proveniente da regioni lontane dello spazio […]. Ciò vale indubbiamente anche per la Régle de Perfection, un genere letterario che ci sembra appartenere a un altro mondo». Non posso forse, in qualche misura, sostituire alla «letteratura mistica del Seicento» i detti dei Padri del deserto, o i sermoni di san Bernardo, o le costituzioni certosine? E i motivi addotti dallo studioso – concetti desueti (come suona alle nostre orecchie la perfezione?), linguaggio astruso, spiritualità ignota agli uomini e alle donne di oggi, eccesso di citazioni bibliche – non possono essere estesi con qualche aggiustamento a molti testi monastici, medioevali e non solo? Non è il caso quindi di lasciare che su tali testi si depositi la polvere del passato e dell’erudizione?

«Ma noi pensiamo che non sia affatto così», afferma con vigore il Vannini. «Crediamo, anzi, che la lettura della Régle de Perfection [di questi testi, aggiungo io] sia di grandissimo interesse esistenziale». È sufficiente aggiornare il lessico, «ovvero dire con un linguaggio oggi comprensibile il significato reale, profondo, del libro. […] Occorre leggere la Régle non come un testo teologico, ma psicologico, relativo alla conoscenza dell’anima».

Che sia uno studioso come il Vannini a fare affermazioni del genere mi conforta molto, se penso alla strada che si tenta in queste note. Per alcuni, con ogni probabilità, non si potrà prescindere completamente dal contenuto teologico di questi testi (e in fondo non lo fa nemmeno il Vannini), ma quella prospettiva può rappresentare il terreno d’incontro fra, per semplificare, chi crede e chi non crede, l’unico che mi riesce di individuare e che mi piacerebbe fosse rivendicato anche dalla «laicità». Non piace «conoscenza dell’anima»? Benissimo cambiamo: psiche, interiorità? Eh, ma non è la stessa cosa… Va bene, parliamone: sull’«anima» troveremo un compromesso, ma intanto restiamo intesi sulla «conoscenza» della cosa, no?

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