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La stanza degli specchi (Beatrice di Nazareth, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

«Alla maniera dell’onda del mare che non sopporta alcuna costrizione e fuoriesce con forte impeto dai propri confini»: è una delle molte immagini con le quali l’anonimo estensore della sua vita restituisce efficacemente la forza della mistica del sentimento (o mistica sponsale) di Beatrice di Nazareth (1200-1268)1.

Bambina precocissima nella devozione e nella volontà di penitenza, Beatrice mostra anche tali doti di intelligenza che la madre non ha dubbi sull’opportunità di farla studiare, circostanza non comunissima all’inizio del XIII secolo, seppure in ambiente borghese. Il padre, rimasto vedovo, conferma senza esitazione la decisione materna e affida la piccola di sette anni alle beghine di Zoutleeuw, nel Brabante fiammingo, dove l’ingeniosa filia – così viene ricordata nei documenti – comincia a studiare. Beatrice, poi, è oblata a dieci anni, a Bloemendael, quindi novizia a sedici, nel monastero di La Ramée, professa a venticinque a Maagdendael e infine corista a trentasei all’abbazia cisterciense di Nazareth, presso Lier, dove reggerà la carica di badessa per trent’anni, dal 1237 fino alla morte.

Le visioni che la consegneranno alla storia, e che ispireranno la sua opera sui Sette modi di amare Dio, testo capitale anche dal punto di vista linguistico («la prima opera in prosa della letteratura in medio nederlandese»), appartengono al periodo del noviziato; un periodo in cui Beatrice, oltre a vedere l’invisibile, a soffrire nel corpo i segni della grazia2, a disciplinarsi con rigore inaudito, con altrettando rigore mette in atto una serie di strategie per approfondire la conoscenza di se stessa: allo scopo di scovare le proprie manchevolezze, infatti, «iniziò a un certo punto a esaminare con gli occhi della circospezione gli angoli della sua volontà e del suo affetto, perché non si nascondesse in essi qualche ignoranza o negligenza che offendesse gli occhi della divina maestà e provocasse l’ira di quella contro di sé».

Risultato della sua ricerca sono anzitutto due peccati: la pigrizia e l’incostanza («la sua inseparabile compagna»). Per combatterli Beatrice «costituì nel suo cuore due piccole celle» dove sistemare una serie di «strumenti» utili a contrastarli. Ed è così che nella stanza riservata all’incostanza, quella inferiore, troviamo le «normali miserie della condizione umana, che, contate nel numero di sei, [Beatrice] dispose ciascuna in ordine per ricordarle con devozione nell’ufficio». 1. Il peccato, una dura condizione cui nessuno può sfuggire, «nemmeno un infante che sia sulla terrra da un solo giorno»; 2. Le passioni, i bisogni (fame, sete, freddo, nudità) e i dolori del corpo; 3. L’instabilità della nostra natura; 4. L’esilio in questo mondo di dolore e vanità; 5. La tenebra del mondo e l’oscuramento della verità; 6. La morte, che ci condurrà al giudizio divino (Beatrice la definisce comunque «odiosa e ineluttabile» anche se rappresenta l’unica via di uscita da quel mondo in cui saremmo, appunto, esiliati).

Nella mente della mistica cisterciense (nel suo cuore, direbbero altri) si sviluppa una complessa geografia di luoghi – stanze, chiostri, giardini – che riflette forse anche i suoi studi e nella quale ci si addentra (in particolare nel secondo libro della Vita) con interesse e con novecentesca simpatia per l’indefessa volontà di autoanalisi: «Occupata giorno e notte in queste riflessioni, quando si cimentava per raggiungere una più piena conoscenza di sé, e non ci riusciva al meglio, secondo il desiderio del suo cuore, escogitava sempre qualcosa di nuovo e, a suo parere, più adeguato, attraverso cui sperava di arrivare meglio alla conoscenza di sé, all’abbassamento e all’umiltà».

Tra tutti, lo stratagemma psicologico che forse mi ha colpito di più è quello, semplice e potente, dei cinque specchi, nei quali «si sforzava con una profonda meditazione di vedere il volto dell’uomo interiore»: «Il primo fu il cielo sopra di sé, il secondo la terra sotto di sé, il terzo il prossimo accanto a sé, il quarto il Signore Gesù davanti a sé con le braccia spalancate sulla croce3, il quinto, infine, il costante ricordo della morte dentro di sé».

Con una piccola variante, glielo rubo.

(2-fine)

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  1. Beatrice di Nazareth, I sette modi di amare Dio, seguito da Anonimo, Vita di Beatrice, a cura di F. Paris e E. Tealdi, Paoline 2016.
  2. Se si raggruppano i «sintomi» citati dal suo biografo, questo è l’elenco che ne risulta: palpitazioni, svenimenti, tremori, dolori al petto, oppressione, catalessi, febbri, paralisi, ma anche sangue dal naso e riso smodato…
  3. «Fissando su di lui [Gesù] il nostro sguardo per vederci come in uno specchio, che cosa possiamo dire di noi?», scrive Anna Maria Cànopi (in Gesù Cristo nostra vita, Nerbini 2019, p. 38).

 

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Una sera di gennaio, del 1217 (Beatrice di Nazareth, pt. 1/2)

Nel monastero cisterciense femminile di La Ramée, nel Brabante francofono, si sta celebrando compieta. Tra le monache raccolte in coro c’è la giovane Beatrice. Diciassettenne, veste l’abito, caparbiamente perseguito, da poco più di un anno, dopo i voti professati nel monastero di Bloemendael, ed è stata mandata alla Ramée affinché «imparasse l’arte dello scrivere». Qui ha incontrato Ida (di Nivelles), «donna di grande valore, monaca dello stesso luogo», cui si è legata di profonda amicizia spirituale, e che le ha preconizzato l’incontro a tu per tu con il Signore: «Ti voglio bene con l’indissolubile affetto della carità», le ha detto poco prima di Natale, «non tanto per i meriti e le virtù per i quali ti vedo onorata nel presente, quanto per quelli per cui so con assoluta certezza che sarai innalzata da Dio nei tempi futuri».

Sono i primi giorni di gennaio, l’immginazione può dunque aggiungere il freddo e la semioscurità della chiesa. Beatrice sta ascoltando l’antifona al Magnificat dei primi Vespri della Circoncisione del Signore, medita con attenzione le parole del canto e, all’improvviso, prorompe «nell’eccesso della mente». Rapita, vede la Trinità «risplendente oltre la meraviglia nell’onnipotenza del suo nitore di insigne e sempiterna virtù», vede Davide con i cantori, vede la Gerusalemme celeste, le schiere dei santi, gli angeli, la Gloria…

Intanto l’ora si è conclusa, e le monache lasciano il coro per salire al dormitorio. Beatrice, ignara di quello che avviene intorno a lei, rimane al suo posto, sola, «inclinata verso il basso sulla panca». Starà dormendo, pensa una consorella e, «andandole più vicino, le tirò leggermente il bordo dell’abito che la copriva». Niente, neanche una piega. La monaca allora «insistette, tirando con più decisione il vestito per destarla dal sonno e riprovando a chiamare quella che era sicura stesse dormendo»: Beatrice, Beatrice

E Beatrice, infastidita, «tornò in sé e si riebbe». Ritornata alla realtà – «richiamata alla miseria della condizione umana» –, è disorientata, turbata, scoppia a piangere e risponde «male a quella che l’aveva svegliata». La consorella è spaventata, dispiaciuta, ma dopo compieta non si può parlare, così, per riappacificarsi, le posa silenziosamente il capo in grembo, le asciuga le lacrime, la rincuora a sguardi e gesti.

Un quarto d’ora dopo Beatrice è nel suo giaciglio e ripensa a quello che le è successo, richiamando «alla memoria dove fosse stata e che cosa avesse visto». La letizia indicibile che prova al ricordo si unisce a una sensazione di benessere mai sentita: le lacrime continuano a scorrere, ma sono di gioia. Nel piccolo monastero, tuttavia, «si era già diffusa la voce che qualcosa di nuovo le era accaduto, nel corpo o nella mente», e un drappello di monache, guidate proprio da Ida, si presenta ai piedi del suo letto: Beatrice, che succede?

Beatrice non può raccontare quello che ha visto, era per lei sola, e allora, non sapendo cosa fare, «quando le vide avvicinarsi in gruppo… subito eruppe in riso tanto che la forza del suo cuore non poté sostenere la loro presenza». Se ne vergogna, e chiede a Dio che la lampada del dormitorio si spenga e che lei resti celata. Cosa che, miracolosamente, avviene: il buio spinge le consorelle ad andarsene. Beatrice è libera di tornare alla novità della grazia che aveva ricevuto, «mentre le altre dormivano o comunque ignoravano cosa le accadesse».

Così passa quella notte di gennaio del 1217, in cui Beatrice, travolta dalla sua prima visione, «volente o nolente, si trovava a ridere tanto smodatamente che supplicava continuamente il Signore… che non fosse percepito dalle altre il suono della risata», e in cui, sconvolta da una dolcezza inesprimibile, «ripetutamente nella stessa notte, le sembrò di volare nell’aria».

Estasi mistica o sogno lucido e vivissimo? In fondo non ha importanza, perché anche senza rispondere alla domanda tanti sono i gesti e i momenti che ci vengono incontro da quella sera fredda e semibuia: l’affetto di Ida, gli scricchiolii del coro, l’abito tirato, due volte, la testa poggiata, la piccola delegazione di sorelle, il primo riso mal trattenuto, la lampada, l’oscurità tesa del dormitorio e infine quella risata spiegata, di gioia, che risuona nella notte – fino a oggi, verrebbe da dire.

(1-segue)

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Vita di Beatrice, I, XI, 54-58, in Beatrice di Nazareth, I sette modi di amare Dio, seguito da Anonimo, Vita di Beatrice, a cura di F. Paris e E. Tealdi, Paoline 2016, pp. 135-39.

 

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L’inferno sono io (Caterina Vegri)

Dopo averle «assaggiate» nell’eccellente antologia delle Scrittrici mistiche italiane, sono andato a leggere per intero Le sette armi spirituali di Caterina Vegri, «tra le opere più significative ed orginali della letteratura della pietà della prima metà del Quattrocento», come scrive la curatrice Cecilia Foletti, responsabile di un apparato molto dotto ed esauriente. Mi aveva colpito la figura di Caterina Vegri, cioè santa Caterina da Bologna, e più ancora, non essendo studioso del periodo (di alcun periodo, in realtà), mi aveva colpito la sua lingua spigolosa e corrusca.

L’opera, che viene datata al 1438, venne scoperta soltanto nel 1463, alla morte dell’autrice, che l’aveva tenuta nascosta nella sua cella del monastero clarissiano del Corpus Domini di Bologna, e incontrò subito una notevole fortuna, come testimoniato dai molti manoscritti e dalle precoci edizioni a stampa (il primo incunabolo è del 1475).

Il tema del combattimento spirituale è al centro del testo, cosa che ne fa, si può dire, uno dei precedenti diretti del famoso trattato di Lorenzo Scupoli, di un secolo e mezzo più tardo, ma divide lo spazio con l’analisi capillare delle tentazioni che può subire chi desidera avvicinarsi alla vita religiosa (a questo proposito va ricordato che il «trattatello» è concepito pur sempre come un aiuto per le novizie) e soprattutto con il formidabile resoconto delle esperienze mistiche di Caterina, le sue visioni e i dubbi e gli insegnamenti che ne traeva.

L’ultima visione che la santa racconta è quella del giudizio universale e le fornisce lo spunto per una delle confessioni più feroci che mi sia mai capitato di leggere. «Ma orra, tornando al core mio», scrive Caterina, passando dalle considerazioni generali al proprio esame, «e considerando che in talle dì de l’ultimo iuditio serà a tuti manifesto le humane colpe, non voglio al prexente ocultare le mie, anci manifestarle, sapiando che le colpe confessate è in parte purgate e meglio perdonate.» L’accusa di se stessi, l’autodenuncia dei propri difetti e peccati, della propria nullità, è un classico che mi ha sempre attirato, con motivazioni ambivalenti, ma qui i toni mi paiono raggiungere livelli di tale violenza da non poter essere registrati come semplice osservanza dei dettami di un genere.

Qui Caterina non dice di essere una peccatrice impenitente, qui dice proprio di essere la peggiore di tutte, di tutte quelle mai esistite e che mai esisteranno. La sua colpa maggiore, la sua «falsitade» è stata quella di non aver desiderato che tutti la conoscessero per quello che realmente è: «cioè superba, arogante, presuntuosa, maldicente, sensuale, goloxa e commo immondo animalle privata de ogno lume de raxone e principale caxone e acatatrice de ogno ruina e scandalo e manchamento de bene che per l’universo mondo sia stato e sia nel presente e deba esser per l’avenire» (X, 9). Caterina confessa peraltro di non aver avuto che una conoscenza parziale della sua «vilissima nichilitade», per la quale dovrebbe essere «tenuta e nominata la mazore pecatrice», che se l’avesse avuta non avrebbe osato alzare gli occhi al cielo. Nonostante sia stata chiamata al servizio di Cristo, non è stata capace di imitarlo, cioè di cercare la croce, «amando chi me avesse odiata, e honorrare suavemente qualuncha persona m’avesse desprexiata… e cordialmente dire bene de chi male avese dicto de mi, sapiando che iustamente meritava che più tosto me foxe sputato nella faza, che mostrato benivolentia» (X, 13).

Caterina arriva a dire che l’inferno stesso, che forse ha appena visto, non è un luogo abbastanza infimo per accogliere la sua «pestifera carogna». Ce ne vorrebbe un altro peggiore, e con una mossa singolarissima Caterina lo individua, questo luogo ancora più orrendo, in se stessa: «E pertanto, non trovando in mi alcuna iustitia seguita che forra de mi nonn è locho sì abominabile né oribile che a mi se convegna, se no mi medesma. E perzò romanerò purre in mi commo in più calizenoxo e ffetente locho che trovare se possa».

Condannata a restare in se stessa, cosa che a Caterina accadrà per altri venticinque anni rispetto a quando scrisse queste parole. Leggendole oggi, mi pare che ci sia qualcosa di profetico in senso più generale, qualcosa che mi tocca al di là dei secoli e delle sempre necessarie contestualizzazioni. È sempre una sconfitta, per lo meno lessicale, quando si supplisce alla mancanza di chiarezza con la parola «qualcosa», ma non so come altro dire. Dunque il vero inferno, più che gli altri, siamo noi, anzi sono io.

Caterina Vegri, Le sette armi spirituali, a cura di C. Foletti, Editrice Antenore 1985.

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Lacrime, sudore e sangue

Uso molta prudenza quando faccio una gita in territorio mistico, più del solito, e tendo a seguire guide di comprovata esperienza, come Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, curatori di uno dei libri più belli (sì, belli, per concezione, realizzazione, struttura, ricchezza, leggibilità, ecc.) sull’«argomento»: le Scrittrici mistiche italiane.

Salvo i casi più noti, la lettura del volume si traduce in una scoperta dopo l’altra – già i nomi allineati nell’indice raccontano qualcosa: Umiliana Cerchi, Umiltà da Faenza, Villana de’ Botti, Osanna Andreasi, Domenica del Paradiso, Battistina Vernazza… dal 1235 di Chiara d’Assisi al 1973 di Angela Gavazzi. E presi per mano da introduzioni e note si può concentrarsi ora su labirinti teologici, ora su espressioni della corporeità più terrena, sempre su una lingua rigogliosa e piena di tensioni («Si ricorderanno i lessicografi che questi testi sono una riserva unica di lingua orale autentica, perché direttamente ripresa nella sua forma originaria almeno nelle trascrizioni delle estasi?» commenta padre Pozzi), che è stata sistematicamente esclusa dai percorsi della storia letteraria come comunemente la si studia.

Per cominciare, il corpo, la strada più agevole da percorrere, perché lì, tra l’altro, le metafore attingono più direttamente al quotidiano e si trovano fotogrammi estremamente vividi. E sempre lì si potrà osservare il sospetto e l’inesorabile volontà di controllo, da parte di un apparato ecclesiastico maschile, su certe manifestazioni che un tempo (XIII secolo) erano segni inequivocabili di estasi mistica, e oggi ad alcuni potrebbero sembrare quasi scene di un film di esorcismi. Un paio di esempi, tra i tanti, dopo aver letto un terzo del volume.

Benvenuta Bojanni (nata nel 1255, a Cividale) si sveglia dopo una notte tormentosa e «si accorse di molte gocce di sangue sul velo che teneva in capo e provò allora a vedere se avesse perso sangue dal naso, e poiché questo non era assolutamente accaduto, si accorse che erano state le sue lacrime ad aver preso il colore del sangue». Va in chiesa e si mette a pregare, non riesce a trattenere il pianto e «versò tanta moltitudine di lacrime che la parte del velo con cui si asciugava le lacrime si trovò inzuppata come se fosse stata tirata fuori dall’acqua». Se qualcuno avesse dei dubbi, può avere conferma da una testimone oculare, infatti «sulla panca su cui giaceva abbattuta, si vedevano rivoli e tracce di lacrime, come attesta la devota Giacomina, sua fedele segretaria [secretaria], che pregava vicino a lei». La stessa Benvenuta, va ricordato, che talvolta il demonio sollevava e gettava a terra «con tanta violenza… che il manto le sfuggiva via dal corpo», e che lei a sua volta buttava per terra e «postogli un piede sul collo prendeva a rimproveralo con oltraggiose parole, mentre sedendosi sopra di lui non lo lasciava fuggire».

Vanna da Orvieto (nata nel 1264), invece, è afflitta da episodi di immobilità assoluta, in cui mette per così dire in scena ciò che medita della Passione di Cristo o del martirio dei santi: quando il suo pensiero va a Paolo, «il suo corpo apparve come quello di uno che si dispone per essere decapitato, inchinato e con il collo proteso». Tanto che in quei momenti di fissità «se alcuno non conoscendola l’avesse veduta, l’avrebbe creduta morta… Avresti anche potuto vedere in quel momento come le mosche, che con voli fastidiosi e continue punture così spesso non danno pace, passeggiavano a schiere sfacciatamente sui suoi occhi». Talvolta è assalita da un calore sovrumano e «tutto il corpo si scioglieva in un sudore straordinario, tanto che bisognava che ella avesse sempre pronto un panno per asciugarsi di continuo il corpo del sudore che grondava»; altre volte si blocca come Cristo in croce («concrocefissa») e «mentre lei era in questa penosa estensione, [si] poteva udire uno scricchiolio delle ossa così forte da sembrare che si staccassero dalle loro giunture».

Scrittrici mistiche italiane, a cura di Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi (prima ediz. 1988), Marietti 1820 2004.

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La nube (della non conoscenza)

E così, verso la fine del XIV secolo, un religioso inglese, strenuamente attaccato al proprio anonimato, se ne esce con questo breve trattato dedicato alla vita contemplativa, una specie di manuale ad uso del novizio, e alla «conoscenza» del Signore ottenibile soltanto attraverso, appunto, la «non conoscenza». «Ché se mai lo vedrai o sentirai in questa vita, sempre sarà in questa nube e questa oscurità.»

Se da un lato non posso accettare un inno a tale «oscurità», dall’altro non posso non ammirare la lingua che lo esprime e l’intelligenza che lo intona. È una delle risposte più chiare che mi sia capitato di leggere alla mia velleità di ragionare sulla fede. Una dichiarazione, certo, e non un’argomentazione – non vale, mi viene da dire –, ma comunque una risposta. Poiché l’ostacolo della vita contemplativa è anzitutto «la vista acuta e chiara dell’intelligenza naturale», «perché l’amore può raggiungere Dio anche in questa vita, ma la conoscenza no», perché «non c’è né mai ci sarà in questo mondo essere tanto puro e tanto in alto rapito a contemplazione […] senza che vi sia tra esso e il suo Dio un’alta e meravigliosa nube di non conoscenza».

La strada da percorrere per arrivare lassù sarebbe quella della preghiera (che è il coronamento della lettura e della riflessione), una preghiera concisa, di poche parole, anzi di «una breve parola di una sola sillaba»: sin, peccato. Cioè quel «bubbone di cui non sai nulla, ma che è null’altro che te stesso». Già, perché se intendo bene l’anonimo autore, il vero male è semplicemente essere: «Tutti hanno motivo di dolore, ma più di tutti colui che sa e sente che egli è».

Da bravo nipotino dell’Illuminismo mi irrito molto. L’oscurità è affascinante e il mistero può essere di conforto, ma soltanto perché c’è una zona sempre più ampia di luce alla quale so di poter tornare.

La nube della non conoscenza, a cura di Pietro Boitani, Adelphi 1998.

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