Ancora i padri del deserto? Certo, sempre. L’occasione mi è stata offerta questa volta dall’ottimo volume di Graham Gould, La comunità1, che attraverso una lettura minuziosa dei Detti dei padri esplora gli aspetti apparentemente contraddittori dell’esperienza del monachesimo primitivo egiziano, con particolare riguardo ai rapporti personali e alla contrapposizione, anch’essa apparente, tra solitudine e comunione.
È assai utile, a inizio lettura, essere richiamati sul fatto che le raccolte dei Detti, come via via sono state affidate alla scrittura, siano intese anche come «un archivio duraturo» dello sviluppo di una comunità desiderosa di «salvaguardare una visione chiara» delle proprie origini2. Molto frequenti, in questo senso, sono i Detti che prendono la forma rivelatrice di «Abba Tizio dice che abba Caio diceva…» Né va dimenticato che molti testi, raccontando di incontri, colloqui e anche frizioni tra i fratelli, finiscono proprio con l’illustrare la natura dei loro rapporti.
La prima dimensione affrontata dall’analisi di Gould è quella del rapporto tra maestro e discepolo. Una relazione che, a guardarla con gli occhi di oggi, suscita al tempo stesso nostalgia, per la sua progressiva scomparsa, e preoccupazione, per le distorsioni che ancora può generare. Anzitutto il maestro, l’abba, aveva il compito di insegnare al discepolo, il nuovo arrivato, i fondamenti pratici della vita monastica (non c’era una Regola da far leggere e rileggere, come avrebbe prescritto san Benedetto) e di illustrargli i problemi che avrebbe incontrato. È una preparazione, e affinché sia efficace il discepolo vi si deve sottomettere con assoluta obbedienza, riconoscendo l’autorità e la saggezza di chi ha maggiore esperienza di lui: «[Abba Isaia] disse ancora di coloro che iniziano bene la vita monastica e si sottomettono ai santi padri: “Come accade alla porpora: la prima tintura non si scolora. E come i rami teneri si innestano e si piegano facilmente, così avviene dei novizi che vivono nella sottomissione”». Le tentazioni sono pericolose per i novizi perché sono sconosciute, non ne hanno fatto ancora estesa esperienza, e «nessuno può essere di aiuto a se stesso soprattutto quando è oppresso dalle passioni». Dopo un atto di volontà di prima grandezza come quello di voler cambiare vita, curiosamente, si potrebbe dire, «la rinuncia alla propria volontà costituisce la pietra miliare del vero progresso nella vita monastica».
L’obbedienza richiede anche la necessità di rivelare i pensieri, cioè l’apertura del cuore, altro aspetto cui guardiamo oggi con la medesima, inestricabile mescolanza di nostalgia e preoccupazione di cui sopra. C’è una speciale risonanza contemporanea, per così dire, in questa vicenda dell’apertura. Un detto della serie anonima contiene un dialogo illuminante al riguardo. Un monaco racconta che da giovane era afflitto da un pensiero, ma non si risolveva a parlarne con un anziano: andava a trovarlo, ma poi si bloccava, finché lo stesso anziano prese l’iniziativa: «Egli si voltò e vedendomi tormentato mi batté il petto e mi disse: “Che hai? Anch’io sono un uomo”. Come disse queste parole, parve che il mio cuore si aprisse. Caddi ai suoi piedi e lo pregai tra le lacrime dicendo: “Abbi pietà di me”. L’anziano mi disse: “Che hai?”. Risposi: “Non sai che ho?”. Ed egli disse: “Occorre che sia tu a dirmelo”. Allora con grande vergogna gli manifestai la mia passione ed egli mi disse: “Perché per tanto tempo ti sei vergognato a parlarmene? Non sono anch’io un uomo? Tuttavia, se vuoi, ti dico quello che so”». L’equilibrio qui è molto delicato, ma ugualmente il momento è bellissimo.
Inutile sottolineare, ribaltando la prospettiva, la responsabilità che deriva al maestro da questo tipo di rapporto. Responsabilità che ha il suo perno nel discernimento, il quale a sua volta «implica l’abilità dell’abba di distinguere tra le diverse capacità spirituali di persone differenti e di comportarsi, rispetto alle loro tentazioni, in modo adeguato». La parola dell’abba dunque non è mai generica, ma sempre personale, ed è basata sulla propria esperienza, e deve sempre accompagnarsi all’esempio, in «una testimonianza concorde di parola e vita».
Vi sono alcuni di esempi di fallimento del rapporto, o di insofferenza da parte di uno dei due «attori». Alcuni anziani, ad esempio, manifestano una certa riluttanza all’insegnamento e talvolta reagiscono col silenzio alle domande (cosa che rappresenta comunque un insegnamento). Nel complesso, però, prevalgono la comprensione e la carità, che si traducono anche in una sorprendente flessibilità di fronte ai vari casi che si presentano. L’abba è colui che è capace di trovare il modo giusto, per quanto strano possa essere, di rispondere alla richiesta di aiuto del discepolo, come in questa magnifica storia, sempre dalla serie anonima, così riassunta da Gould: «Un anziano incoraggiò il suo discepolo a resistere alla tentazione della fornicazione, ma quando il discepolo gli rispose: “Abba, non riesco più a resistere al peccato”, l’abba cambiò tattica, passando dall’incoraggiamento al coinvolgimento. “Anch’io sono tentato, figliolo. Andiamo insieme, facciamo la cosa e ritorniamo nella nostra cella”. Quando arrivarono alla casa della prostituta, l’anziano entrò, con il pretesto di incontrarla per primo, ma una volta dentro la convinse a non contaminare il fratello. Allorché il fratello entrò (presumibilmente credendo che l’anziano avesse già peccato), ella lo persuase a pregare prima di peccare e, “dopo venti o trenta metanìe”, il fratello, preso da compunzione, uscì incontaminato».
(1-segue)
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- Graham Gould, La comunità. I rapporti fraterni nel deserto, traduzione di G. Dotti, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2001 (trad. di The Desert Fathers on Monastic Community, 1993).
- «Abbiamo a che fare con un prezioso archivio della vita concreta, in parole e opere, delle comunità monastiche di Scete e del basso Egitto», pag. 43.