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Imbottigliata e conservata (Dice il monaco, XCIX)

Dice Michael Casey (n. 1942), monaco trappista australiano dell’abbazia di Tarrawarra:

La tradizione benedettina è più che un vocabolario specializzato o un codice di condotta – per quanto ammirevole. È la trasmissione della vita. Mentre la continuità è la sua essenza, la sua missione è incompleta se non diventa un agente di cambiamento – se non fa la differenza per coloro che la ricevono. È una storia continua di un complesso di credenze, valori e pratiche che si sono cristallizzate nel testo del VI secolo conosciuto come Regola di san Benedetto. Oltre al suo contenuto oggettivo c’è un elemento che varia da persona a persona che è il cuore del suo potere di iniziare un processo di trasformazione. La tradizione non esiste al di fuori delle persone, non può essere imbottigliata e conservata. Essa è elettrica: la scintilla salta da una persona all’altra.

E in unintervista dello scorso anno risponde a questa domanda:

«Padre Michael, nei passaggi decisivi della storia la presenza monastica ha sempre avuto un’importanza decisiva. Tuttavia nel cambiamento epocale che stiamo vivendo il monachesimo registra oggi un ruolo abbastanza marginale.»

Certo, è vero: pensi a esempio che gran parte della classicità e della cultura umanistica che oggi studiamo nelle scuole e nelle università è giunta a noi attraverso la preservazione e trasmissione operata da generazioni di monaci. Ma, vede, i monaci custodiscono la memoria, la tradizione. Non è compito dei monaci cambiare il mondo, e neanche, in verità, cambiare le persone. Ai monaci non è richiesto di essere numerosi, e tantomeno di saper imporre un’egemonia culturale. Io penso piuttosto ai monaci come a un piccolo gruppo di uomini e donne, dal profilo ordinario, che cercano di vivere in semplicità il Regno di Dio. Null’altro che questo. La Grazia che i monaci possono trasmettere oggi al mondo viene da qui: essere ordinari, piccoli, semplici. La santità che i monaci ricercano nella loro vita semplice deve riuscire attrattiva, noi non dobbiamo convincere o convertire nessuno.

Michael Casey, La Regola e la tradizione. Un viaggio personale, lectio magistralis in occasione del Dottorato honoris causa consegnato dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 6 aprile 2022, in: «Vita Nostra» 23, a. XII (2022), n. 2, p. 37.

♦ Roberto Cetera, Uomo della tradizione. Il monaco secondo padre Michael Casey, in: «L’Osservatore Romano», 20 aprile 2022.

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Vai a vedere i trappisti (Due vocazioni)

Il racconto della propria vocazione, da parte di monache e monaci contemporanei, è un genere a sé stante. Si tratta di solito di testi brevi, anche brevissimi, semplici, spogliati di ogni retorica e rivestiti di pudore, nei quali la vividezza del ricordo si unisce spesso alla difficoltà di scendere in quei particolari che una mentalità per così dire giornalistico-moderna vorrebbe conoscere: e ci dica, cosa è successo quando…?

Ne ho incontrati due, di recente. Il primo si trova nel discorso di auto-presentazione che Bernardus Peeters ha fatto al capitolo generale dei Cisterciensi della Stretta Osservanza, dopo esserne stato eletto Abate Generale: «Fratelli e sorelle, dopo l’elezione, molti di voi, ma soprattutto le comunità che non hanno potuto essere qui, mi hanno chiesto di raccontarvi qualcosa di più su di me. Capisco questa necessità e cercherò di dirvi qualcosa che vi permetterà di conoscere meglio il vostro Abate Generale»1.

Dopo un inizio molto precoce (chierichetto di sei anni che rimane colpito dalle parole Deus caritas est viste sul piviale di un sacerdote), il giovane Bernardus è orientato a diventare missionario, «finché con la mia classe non sono andato a visitare un’abbazia benedettina». Il sentimento provato si riassume in una frase: Questo è il tuo posto, «sapevo che era lì che Dio mi voleva» – Simple as that, si direbbe in inglese. Ma i benedettini non saranno la sua nuova famiglia: conoscendo la comunità, infatti, e parlando col maestro dei novizi, Bernardus sente che gli sarebbe mancato l’equilibro tra lavoro e preghiera: «Io volevo fare qualcosa con le mani». E così, dopo Dio, è un uomo che, se così si può dire, completa la vocazione: «Il maestro dei novizi mi disse: “Vai a vedere i trappisti, credo che facciano ancora lavori manuali”. Così ho fatto e ho scoperto la comunità di Tillburg [Brabante], dove sono entrato nel 1986». Degli undici novizi suoi «colleghi», è stato l’unico a rimanere, ha studiato, è diventato priore (nel 1997), ha diretto il birrificio, è stato eletto abate (nel 2005), e adesso è AG dei trappisti. Simple as that.

Il secondo racconto è un accenno ancor più breve, e l’ho trovato in un’intervista a Michael Casey, anche lui trappista, rilasciata lo scorso aprile, in occasione del Dottorato honoris causa ricevuto dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo2.

Dopo aver ribadito l’importanza di godere della semplicità («Sottolineo “godere”. Non basta vivere sobriamente. Occorre saper gustare e gioire di questa sobrietà»), d. Casey ricorda le parole di un turista che, dopo aver visitato la sua abbazia, gli disse: «Mi sembrate tutti felici della vostra vita essenziale. Si sente qualcosa nell’aria qui da voi». Così, alla domanda: Come si diventa monaci? d. Casey fa un balzo all’indietro: «Anche se sono passati tanti anni ricordo bene la mia vocazione». Vocazione che si coagulava intorno al desiderio di essere qualcosa, invece di fare qualcosa. «Poi una domenica con la mia famiglia facemmo una visita a un monastero [galeotta dunque fu dunque ancora una visita] e capii subito che lì c’era quel “qualcosa”. Non gli aspetti esteriori, le apparenze, ma quell’“aria” che dicevo prima [e che] può essere sentita anche da un non credente».

Confermo: vero; vago, ma vero.

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  1. Bernardus Peeters, Chi è il vostro nuovo Abate Generale?, in: «Vita Nostra» 23, a. XII (2022), n. 2, pp. 6-9.
  2. Roberto Cetera, Uomo della tradizione. Il monaco secondo padre Michael Casey, in: «L’Osservatore Romano», 20 aprile 2022.

(Questo è un video molto interessante, in francese, in cui due novizi benedettini si raccontano un po’, in vista della professione solenne presso l’abbazia di En-Calcat, ricordando anche il momento della loro vocazione. Qui il testo, sempre in francese.)

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Il secondo posto

Rivolgendosi agli educatori benedettini, suoi confratelli, riuniti in conferenza internazionale, Michael Casey, trappista dell’abbazia di Tarrawarra, in Australia, sceglie due parole chiave per articolare il suo discorso: onore e umiltà1. Due parole tratte dalla «tradizione benedettina» che, per il monaco australiano, «più che un vocabolario specializzato o un codice di condotta, per quanto ammirevole, è la trasmissione della vita», la dimensione del passaggio da persona a persona essendo al centro stesso di tale complesso di concetti, regole, atteggiamenti e scopi. «La tradizione separatamente dalle persone non può essere imbottigliata e conservata, essa è elettrica: la scintilla salta da una persona all’altra.»

La riflessione dedicata all’onore prende spunto da una «ingiunzione» che san Benedetto include nell’elenco degli strumenti delle buone opere, tanto veloce da passare quasi inosservata: «Onorare tutte le persone [gli uomini]» (Regola, 4, 8). Cosa significa qui «onorare»? Secondo Casey onorare un altro «significa essere pronti a prendere il secondo posto in sua presenza, significa dargli spazio per occupare lo spazio disponibile, fare un passo indietro per permettergli di crescere, diminuire affinché egli possa aumentare»; e l’interpretazione di quello «spazio» è potenzialmente illimitata: lo spazio del discorso, lo spazio nei propri pensieri, desideri e opinioni, sul marciapiede, sul mezzo pubblico, nel proprio paese e nel proprio Paese, nel mondo. Onorare tutti, badando in special modo ai «deboli» e agli «immeritevoli»; «trattare tutti con uguale onore significa trattare tutti in modo diverso», perché nessuno è intercambiabile. Nessun monaco lo è per il suo abate, e qui, come ovunque dovrebbe, l’onore prende il posto dell’autorità assoluta: «Questo è, credo», dice Casey, «un elemento cruciale della nozione benedettina di autorità: non è principalmente una struttura di comando, ma qualcosa di più sottile che implica l’espressione esplicita e frequente delle credenze e dei valori che incarnano l’identità della comunità, in modo che possano essere assorbiti e assimilati dai monaci.» Onore a tutti, attenzione alla diversità, espressione esplicita e frequente, offerta di spazio – un compito eccelso, di cui so di non essere capace.

La trattazione dell’umiltà è ancora più delicata perché «sono state scritte», esordisce Casey, «così tante sciocchezze sull’umiltà nel corso degli anni che sento una certa riluttanza nell’usare questo termine». Due sono i punti controintuitivi da cui muove il monaco trappista: anzitutto l’umiltà non è una virtù, in secondo luogo è una qualità essenzialmente interiore e a sé riferita. L’umiltà apre la strada a una «forma di esistenza… meno tossica» grazie al riconoscimento di una realtà più grande (e trascendente) di noi. Ed è significativo che Casey proponga una specie di «aggiornamento» dell’umiltà rispetto al modello proposto da s. Benedetto («il modo in cui l’umiltà era espressa in quella cultura può non essere rilevante per noi; può persino essere in qualche modo ripugnante»), un aggiornamento non meno benedettino nello spirito. L’umiltà benedettina del XXI secolo è: a) solidarietà con i nostri simili, con i quali condividiamo tutto, in particolare la debolezza e la contraddittorietà; b) ammirazione della grandezza («Vivere alla presenza di Dio è una garanzia per sviluppare un apprezzamento realistico della propria posizione relativa nell’universo. Ammirare è uscire da se stessi», dice il rabbino capo della Gran Bretgna Jonathan Sacks, citato da Casey2); c) apprezzamento di quello che abbiamo ricevuto, come individui e come comunità. Again, un altro compito giusto di cui so di non essere capace.

Seguendo questi spunti, conclude Michael Casey rivolgendosi agli educatori, ma in fondo non solo, «la tradizione benedettina viene portata nel presente, con una nuova e vibrante espressione, e trasmessa alla prossima generazione. Possiamo ancora assistere a una nuova fioritura dell’amore delle lettere e del desiderio di Dio. E questo felice risultato, mi sembra, è nelle vostre mani.» Proprio una responsabilità da niente.

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  1. Michael Casey, Educazione benedettina: due parole, intervento alla Conferenza internazionale degli educatori benedettini, Sydney, ottobre 2019; in «Vita Nostra» 21 (2021, 2), pp. 23-39.
  2. Che così commenta: «Sappiamo quando siamo stati in presenza di qualcuno in cui respira la presenza divina. Ci sentiamo affermati, ampliati, e a ragione, perché abbiamo incontrato qualcuno che, non prendendosi affatto sul serio, ci ha mostrato cosa significa prendere con la massima serietà ciò che non è Io».

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«Cosa hanno oggi da offrire i monaci e le monache?»

Sette sono i valori che il monaco trappista australiano Michael Casey estrae, per così dire, dalla tradizione benedettina per rispondere alla domanda posta dal titolo della sua conferenza1, e trovo molto interessante che non derivino dall’indagine di una ipotetica spiritualità monastica atemporale (benedettina nello specifico), bensì dal desiderio di corrispondere alle esigenze odierne degli «abitanti della postmodernità» – come se i monaci si chiedessero: il mondo oggi ha bisogno di questo, ne abbiamo, noi, da offrire?

Per impostare concretamente il discorso, p. Casey muove da una breve citazione di Baudrillard, che non ti aspetti fequentatissimo nei chiostri, e che vede nella «superficialità promiscua» del postmoderno l’evaporazione di una serie di qualità: profondità, coerenza, significato, originalità, autenticità. Ma, osserva p. Casey, «non sono queste caratteristiche che associamo alla tradizione di san Benedetto? E quindi… quale processo di apprendimento possiamo intraprendere per garantire che noi stessi viviamo tali valori e siamo, di conseguenza, in grado di trasmetterli ad altri?»

Ed eccoli questi «sette valori interconnessi che sostengono il nostro [di monaci] stile di vita»: gravitas, disciplina, ascetismo, misticismo, silenzio, testimonianza, cultura letteraria. Circola un’aria di sicuro cristiana, in questa compagine, ma non solo, numerosi sono gli echi classici, e colpisce come i suoi elementi appaiano al tempo stesso antiquati e «di moda», come se davvero la postmodernità fosse attratta da essi, a patto però di trasformarli in trucchi, «narrazioni» e prodotti senza effetti indesiderati, senza spine.

Va anche sottolineato come, nelle note che accompagnano la breve rassegna di questi valori, i riferimenti siano molti ampi, da Bernardo di Chiaravalle a Alasdair MacIntyre, da Charles Taylor a Thomas Merton, da Paolo VI a studi di sociologia e psicologia; e forse è proprio per questo che l’elenco di p. Casey attira e spinge a declinazioni laiche. Come non essere affascinati, ad esempio, da una gravitas che si presenta come una serietà/maturità «che dà la priorità alle misure pratiche che assicurano la realizzazione di obiettivi personali rispetto alle sollecitazioni più pressanti delle emozioni»? Come non acconsentire a una forma di disciplina che smonti «l’illusione postmodernista secondo cui una vita senza regole non è solo possibile, ma anche preferibile»? Come non prestare ascolto a un ascetismo che è essenzialmente autocontrollo a favore della comunità? E ancora, come non essere conquistati da un silenzio che è segno di distanza dall’immediatezza, di «passione per l’invisibile», di rifiuto del «moralismo intimidatorio»?2

Ancora una volta l’aspetto più importante è che i valori si incarnino, in gruppi di persone raccolte in luogo: «segni di speranza e possibilità per tutti coloro che li incontrano», «isole visibili» di umanità, «chiglie per controbilanciare i venti prevalenti dell’opinione popolare», «pozzi di silenzio in questa terra assetata»… Lo scetticismo, per quanto mi riguarda, è de rigueur, soprattutto quando un certo afflato sta per prendere il sopravvento, ma la mia opinione non toglie certo verità al tentativo di quelle persone di essere testimonianza viva di una Parola ricevuta: «C’è un ruolo per coloro che sono la prova vivente che il modo ordinario, oscuro e laborioso del Vangelo è anche un modo per l’autorealizzazione, il servizio reciproco e la creatività, e che è anche la strada verso la felicità, come le beatitudini suggeriscono».

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  1. Michael Casey, ocso, Cosa hanno oggi da offrire i monaci e le monache?, conferenza alla Australian Benedictine Union, 15 giugno 2019, in «Vita Nostra» 18 (2020, 1), pp. 19-40.
  2. «Se questo avviene, il silenzio monastico prende per mano la postmodernità, in quanto uno dei suoi effetti è il rifiuto del consenso a qualsiasi ideologia sia attualmente dilagante.»

 

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21st Century Monastic Man (pt. 2/4)

(la prima parte è qui)

Tornando alle quattro qualità indispensabili evidenziate da Michael Casey (ricerca di Dio, rinuncia, semplicità e tradizione), vediamo alcuni degli sviluppi abbozzati dal monaco e scrittore trappista.

La rinuncia anzitutto si modellerà sull’evoluzione della società circostante: «I modi che la rinuncia monastica adotterà saranno determinati dalle forme in cui l’ambiente sociale esprimerà l’alienazione o il disinteresse nei confronti di Dio». Ciò cui i novizi dovranno rinunciare determinerà la «forma esteriore della vita monastica»; se la società industriale, ipotizza Casey, continuerà a isolare vieppiù i suoi membri in una rete di circostanze e attività virtuali, i monasteri potrebbero ad esempio diventare «centri di realtà non-virtuale».

Alcuni monasteri sopravvivranno come «monumenti di meravigliosa irrilevanza», perché ci sarà sempre qualcuno che vorrà far parte di una tradizione gloriosa anche se ormai spenta. Saranno, questi, luoghi di conservazione della memoria, «parchi a tema devozionali, con alcuni veri monaci proprietari del luogo che parteciperanno part-time alle diverse attività condotte sul terreno del monastero» («pious theme parks»? Accidenti!). Ma la spinta innovativa verrà da altre comunità che sapranno mettere in discussione qualsiasi aspetto della tradizione. La tradizione va ripensata, reinventata in modi che sgorgheranno dai luoghi dove il monachesimo sarà più vitale, e «l’Europa non può reclamare alcun monopolio di decisione circa i modi nei quali la spinta monastica cercherà di esprimersi; probabilmente nemmeno circa l’interpretazione della tradizione benedettina». Apertura e inclusività dovranno essere le parole d’ordine, ed è qui che i toni di Casey si alzano e l’ottimismo contribuisce a colorare le visioni del futuro.

Tanto per cominciare, in questa prospettiva le comunità miste saranno all’ordine del giorno («non vedo come questo possa essere evitato una volta che accettiamo la premessa dell’uguaglianza di genere»): basterà essere un minimo attenti a strutture architettoniche e riti comunitari per non esporre a inutili rischi la castità, la quale peraltro ne risulterà padroneggiata con maggiore profondità.

Ma l’apertura potrebbe anche andare oltre. «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!» canta il Salmo 133, «certo», commenta Casey, «ma non sarebbe ancor meglio se insieme vivessero i fratelli e le sorelle, gli ebrei, i greci e i barbari, i giovani e i vecchi, i saggi e gli stupidi, gli innocenti e i recidivi?» Con l’amore, il lavoro e i leader carismatici, secondo lui si può fare.

Come dicevo, talvolta l’accento è spostato di più sulla preoccupazione. O meglio, lo sguardo verso il futuro si accompagna a toni meno brillanti, come nel caso dei Thoughts on the Future of Western Monasticism, del monaco benedettino Terrence Kardong, scrittore e curatore dell’American Benedictine Review. Dopo un breve excursus autobiografico, Kardong apre la sua riflessione sulla nota più evidente e dolente: «La parte più significativa del problema è il reclutamento. Le persone non chiedono più di entrare nei nostri monasteri. La mia congregazione, la più grande nel mondo sul versante maschile, conta la metà dei membri che aveva nel 1965… Certo, domani può presentarsi alla porta un san Bernardo con tutta la famiglia e ribaltare la tendenza, ma nel complesso il mondo monastico si sta restringendo». Qualcuno obietterà, ricorda Kardong, che ci sono comunità in piena fioritura. Sì, nel mondo in via di sviluppo la vita monastica possiede ancora un certo tipo di attrattiva, e d’altra parte in Occidente ci sono delle «nicchie» tradizionali destinate a sopravvivere senza problemi, «ma non vedo come questo possa essere il futuro di tutto il mondo monastico».

(2-continua)

Michael Casey, Thoughts on Monasticism’s Possible Futures; Terrence Kardong, Thoughts on the Future of Western Monasticism, in A Monastic Vision for the 21st Century a cura di P. Hart, ocso, Cistercian Publications 2006, pp. 23-42; 57-72.

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21st Century Monastic Man (pt. 1/4)

L’impressione generale che ho ricavato dal volume curato dal trappista Patrick Hart e dedicato ai possibili sviluppi del monachesimo nel XXI secolo è quella di una preoccupata serenità. Va ricordato anzitutto che i monaci e le monache (e i pochi laici) convocati da Hart a esprimere il loro parere su where do we go from here? (come recita il sottotitolo, che potrebbe anche essere reso con un «che fine faremo?») sono tutti nordamericani, e questo dà un tono particolare alle riflessioni; va detto inoltre che questa «serena preoccupazione» è il risultato di una media tra atteggiamenti spostati sul primo termine e sul secondo. (In generale si può anche dire che sono i laici a essere più entusiasti sulla magnifiche prospettive del monachesimo, mentre è dai monaci che giungono le riflessioni più serie su un futuro non privo di ombre.)

Dal versante di coloro che pensano che «dài, ce la faremo anche se non sappiamo ancora come» prendiamo il trappista Michael Casey, che, con una cautela e un’apertura tipiche da «pensiero debole», muove da quattro aspetti fondamentali per tentare di definire i monaci e il monachesimo del futuro: 1. I monaci devono essere cercatori di Dio, «in qualsiasi modo la realtà divina sia definita» («however the divine reality is described», precisazione che trovo sorprendente l’autore abbia ritenuto di dover fare); 2. Questa ricerca esige una rinuncia radicale e pertanto un certo livello di «separazione» dal mondo; 3. La vita monastica dev’essere semplice, non perché rifiuti la complessità del mondo, né perché persegua un «inautentico neo-primitivismo», bensì poiché unico e «semplice» è il suo obiettivo; 4. Un monaco deve inserirsi in una tradizione, non esiste il monachesimo fai-da-te: «L’autentico monachesimo non si autogenera; non può essere il risultato dell’espressione di un individuo, proprio perché il suo obiettivo fondamentale è il superamento dell’individualità».

Tra l’altro, essendo il carattere paradossale del monachesimo, e più esattamente della comunità monastica, uno dei pochi risultati certi dell’esplorazione che sto registrando su questo blog, osservo che uno dei punti di più vivo paradosso in generale è il rapporto non risolto tra individuo e comunità. Non parlo del concreto rapporto che si può instaurare e di fatto si instaura tra un individuo e una comunità (sono esistiti ed esistono milioni di monaci anonimi che si sono per così dire «disciolti» nelle loro comunità – come miliardi di persone sciolte nelle rispettive società), ma quello ideale tra il principio dello smantellamento dell’individualità, indicato ancora oggi, come si è visto, tra i fondamenti della vita monastica, e la realtà di un fenomeno creato e mantenuto vivo grazie all’azione di spiccate individualità. I libri sono stati scritti e si scrivono su Bernardo e Rancé, per fare due nomi a caso, non su fratello Cimabue, che pure probabilmente è «più monaco» dei grandi fondatori e riformatori di Ordini.

Bernardo e Rancé – non dico nulla di nuovo – si scagliavano contro l’individualità perché era la loro individualità che rappresentava anzitutto un problema, o un ostacolo, o una fonte inesauribile di peccato. E ciò facendo la riaffermavano nella pratica, di contro alla teoria. Quanto più predicavano l’obbedienza a oltranza, la spersonalizzazione, tanto più si presentavano come guide, come leader, capaci di portare nel futuro i propri confratelli. Lo stesso Casey dedica un paradossale paragrafo conclusivo proprio al tema della leadership: «Ci saranno leader monastici capaci di portarci con coraggio e creatività nel futuro?» Come se il destino del monachesimo fosse nelle mani di monaci che ne disattenderanno l’obiettivo primario…

(1-continua)

Michael Casey, Thoughts on Monasticism’s Possible Futures, in A Monastic Vision for the 21st Century, a cura di P. Hart, ocso, Cistercian Publications 2006, pp. 23-42.

 

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