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Semplicemente

Fondatori del monachesimo di Umberto Neri è un libro eccezionale per vastità di erudizione, partecipazione al soggetto, capacità di scelta delle citazioni, onestà intellettuale, profondità e chiarezza dell’esposizione. Il volume si basa sulle conferenze tenute dall’autore (monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata) a Gerusalemme nel 1982 e dedicate ai cinque «momenti» cruciali del monachesimo pre-benedettino: Pacomio (ne ho fatto cenno qui), Basilio, Agostino, Cassiano e la Regula Magistri. Non ci sarebbe molto altro da aggiungere, ma ripassando le ripetute sottolineature (come se un tratto di matita servisse a partecipare alla sapienza), mi accorgo che c’è un paragrafo sul quale mi sono fermato di più: il quinto del capitolo su Agostino, intitolato «Essenza del monachesimo cenobitico».

Il quale paragrafo prende le mosse da tre citazioni bibliche che definiscono il «proprio» della vita monastica secondo Agostino: il famoso passo degli Atti degli Apostoli (4,32), quello del tanto dibattuto «comunismo» dei discepoli di Gesù, e due versi dai Salmi 68 (67) e 133 (132), che rimandano alla convivenza armoniosa nella stessa casa. Ed è proprio commentando l’ultimo Salmo citato («Quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme [in unum]»), e analizzando la risposta che si dà al suo richiamo, che Agostino distingue tra «tutti i cristiani» e i monaci, poiché «queste parole del salterio, questa dolce armonia, questa melodia tanto soave a cantarsi quanto a considerarsi con la mente, questo ha effettivamente generato i monasteri. Da questa armonia sono stati destati quei fratelli che maturarono il desiderio di vivere nell’unità».

Ecco i monaci, continua Agostino, ecco il monaco, cioè l’«uno solo», non nel senso di «solitario» bensì di «unito»: «Uno, infatti, si può dire anche di chi è immerso fra la folla, di chi si trova tra i molti. Di lui non si può dire, però, che è monos, cioè solo. Eccovi ora della gente che vive nell’unità, fino al punto di costituire un solo uomo». La comunità che così si forma (la Chiesa stessa, di cui il monastero rappresenta la «frontiera avanzata») va al di là di qualsiasi rapporto naturale e si eleva a simbolo di un’unità senza limiti, all’interno della quale nessuno persegue i propri scopi o il proprio esclusivo bene, nessuno possiede alcunché, nessuno afferma la propria volontà, tutti vivono in perfetta carità.

«Potrebbe sembrare che questa descrizione stupenda sia un po’ utopistica», concede Neri, introducendo numerosi passi che testimoniano del realismo agostiniano. Il monastero, infatti, è anche la scuola della tolleranza, della sopportazione di sé e degli altri, della prova continua delle tentazioni («ognuno ricordi che porta con sé una parte cattiva, che altri devono sopportare»). Il monastero è un torchio: «Finché pendono dagli alberi che li portano come frutti, finché godono dell’aria libera, né l’uva è vino, né le olive sono olio… Così sono anche gli uomini… Tutti quelli che accedono al servizio di Dio, sappiano di essere venuti ai torchi: saranno schiacciati, spremuti, lacerati, non per morire in questo mondo, ma per fluire nella cantine di Dio». (Mi colpisce, tra l’altro, come il tema dell’oliva scivoli fino a Lutero, monaco agostiniano, che – in una citazione che purtroppo non riesco a ritrovare – dice che l’uomo è come un’oliva, dà il meglio quando lo spremi. Una prospettiva inquietante, dalla «scuola della sofferenza» al lavoro, che vorrei saper confutare con parole definitive.)

Superare quelle prove, ottenere quella divina unità è possibile dunque soltanto a partire da un esercizio indefesso dell’umiltà e confidando nella grazia del Signore, che è la chiave per il passaggio a un livello superiore. Tale comunità, infatti, precisa Neri, «non è semplicemente uno stare insieme, volendosi bene, umanamente, in modo più o meno facile, più o meno felice, ma comunque ancora umano, cioè come un vincolo di unità ancora essenzialmente di natura psicologico-morale».

Ecco, a conclusione del paragrafo, e al di fuori della trattazione storica, alzo timidamente la mano: come sarebbe a dire semplicemente? Perché lo stare insieme, il volersi bene umanamente dovrebbero essere relegati nella categoria del «semplicemente»? Perché quei frettolosi «più o meno facile» e «più o meno felice», in cui invece si srotola la parte più grande, più bella dolorosa tragica della nostra storia di individui? Perché quell’«ancora» applicato a sancire l’imperfezione del vincolo «di natura psicologico-morale» che ci spingerebbe alla fratellanza? La mano l’abbasso subito, perché qui si confrontano i giganti; ma, proprio grazie a coloro che l’hanno tenuta ben alzata in passato, lo faccio senza sensi di inferiorità.

Umberto Neri, Fondatori del monachesimo, Piemme 1998.

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Chi ha preso la pinzetta?

«Pacomio, ispirato dal Signore, cominciò a dare a questi anacoreti, sempre più numerosi presso di lui, un regolamento. Ecco la cosa nuova. Questo non si era mai visto. Regolamenti pratici c’erano; tradizioni c’erano; apoftegmi che costituivano poi, naturalmente, fonte di norme, c’erano. Ma regolamenti scritti per tutti, in comune, non si erano mai visti e costituivano una novità di importanza immensa, anche da un punto di vista storico.» Così scrive Umberto Neri, illustrando con grande partecipazione l’esperienza egiziana di Pacomio (287-347), vero e proprio atto di nascita del cenobitismo. Un momento emozionante, credo, per chi crede, e comunque estremamente interessante anche per chi no. Il cenobio di Pacomio è l’attuazione pratica dell’ideale apostolico e sgorga direttamente da un passo – «il testo chiave, riconosciuto da tutti come il suo fondamento» – degli Atti degli Apostoli: «Nella moltitudine di quelli che credevano c’era un solo cuore e una sola anima; e nessuno di loro diceva che fosse sua qualsiasi cosa possedesse; ma presso di loro ogni cosa era in comune» (4, 32, lett.).

Moltitudine, già, anche questo è un punto importante, perché se è vero che l’ispirazione di Pacomio è divina, è altrettanto vero che il suo spunto deriva anche dalla quantità di persone che si tratta di far convivere. E se è vero che lo scopo ultimo di questa nuova realtà non è altro che la salvezza delle anime, è altrettanto vero che esistono bisogni e necessità generate da una «enorme massa organizzata». Girolamo, traduttore in latino dei precetti di Pacomio, che conosceva soltanto il copto, riporta ad esempio che «una casa ha più o meno quaranta fratelli» e che «in un monastero vi sono trenta o quaranta case», mentre, secondo le stime degli studiosi, alla morte di Pacomio si contavano alcune migliaia di monaci e monache, tra i cinque e i novemila. Non un problema da poco, insomma, che il padre del cenobitismo risolve appoggiando «tutti gli uni agli altri in modo che uno non può vivere un momento senza l’altro… in modo che uno per qualsiasi cosa ha bisogno di tutta la comunità» (U. Neri).

È un’impresa, quella appunto di tradurre l’esperienza eccezionale dei navigatori solitari (gli anacoreti), sciacquata del disprezzo del mondo, in una condotta di vita comune, condivisa, funzionante, produttiva sia spiritualmente sia concretamente. Una vita, scrive ancora Umberto Neri, nel nome di Dio, certo, ma in cui si è «sempre gli uni di fronte agli altri, in modo che la luce del Signore si rifletta sul fratello e se ne riceva reciprocamente il riflesso. Ecco il proprio del cenobio». (Tra parentesi, una lezione, quella del vivere «gli uni di fronte agli altri», che non faticherei a riportare su un terreno laico.) È un territorio quasi inesplorato. Se si vanno a leggere i precetti della «Legislazione pacomiana» ci si trova davanti, infatti, un insieme di norme che sembrano accostate le une alle altre a mano a mano che una singola questione, anche minima, si presenta. L’ideale è fermo, le linee guida anche (obbedienza, paternità spirituale, lavoro, catechesi, studio e ruminazione della Bibbia), poi, però, c’è spazio anche per quell’attrezzino utilissimo, quando si circola e si lavora a piedi nudi, che è la pinzetta: «Nessuno abbia per conto suo una piccola pinza per estrarre le spine, se per caso ne ha calpestato, eccetto il priore della casa e il secondo, e sia sospesa nella finestra [uno scaffale] dove si collocano i codici» (Precetti, 82).

Questo cruciale passaggio a una quotidianità corale Pacomio l’avrebbe realizzato anzitutto grazie all’ispirazione divina, in secondo luogo dopo un lungo apprendistato presso un eremita e infine in virtù di una lettura profonda della Bibbia. Ma «il fondatore della koinonia [la comunione fraterna] era figlio del suo tempo: i suoi contatti con la Chiesa e quelli con lo Stato e la milizia hanno certamente influito nel suo concetto di autorità, che era assoluta o quasi nel superiore generale» (G. Turbessi), e quando si trovò a dover regolare la convivenza di migliaia di persone, si guardò anche intorno e, forse, ripensò a quello che aveva fatto prima di convertirsi: il soldato di leva nell’esercito dell’impero romano.

Umberto Neri, Fondatori del monachesimo, Piemme 1998; Giuseppe Turbessi, Regole monastiche antiche, Edizioni Studium 1978.

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