Guido Cariboni, I cistercensi. Un ordine monastico nel Medioevo, Carocci 2023.
Un bel ripasso fa sempre bene. Si potrebbe dire della monografia che Guido Cariboni (professore di Storia medievale alla Cattolica di Milano) ha dedicato ai Cistercensi, in particolare alla loro storia dalle origini alla metà del XIII secolo. Non soltanto ripasso, in realtà, perché, oltre a uno sguardo dall’esterno (da non sottovalutare), il volume offre anche l’opportunità di conoscere i risultati della storiografia recente su alcune questioni centrali della storia dell’Ordine. Ad esempio sul rapporto, sulla tensione, tra ideali delle nuove comunità, come proclamati dai testi «ufficiali» (gli Exordia e la Carta caritatis, anzitutto), e la realtà testimoniata dai documenti (i resoconti dei Capitoli, le raccolte di consuetudini e gli atti notarili o disciplinari, tra gli altri); o sulle novità decisive, come il Capitolo degli abati (riusciamo a immaginare, nella seconda metà del XII secolo, un «congresso» anche di trecento abati?), le «visite» (con i viaggi, e gli scambi, che comportavano: nonostante il voto di stabilità, «il viaggio, per altro non proibito da Benedetto, fu forse una delle dimensioni più originali del monachesimo tardoantico e medievale, tanto in Oriente quanto in Occidente»), le relazioni con i vescovi; o ancora sulla gestione economica dei patrimoni fondiari, sull’istituzione e lo statuto dei fratelli conversi o sui rapporti con i laici. E sui rapporti con Roma, naturalmente. E quello di «novità» è un aspetto fondamentale di questa storia, rintracciabile sia nella consapevolezza dei protagonisti, sia nelle osservazioni, spesso critiche, dei testimoni esterni. Un atteggiamento che si tradusse in una sorta di ri-fondazione continua, di rinnovamento ininterrotto in cui «si provò, spesso con successo, ad adattare con forme sempre diverse l’ideale monastico delle origini alle nuove esigenze che l’enorme e progressivo sviluppo dell’ordine comportava». Una grandissima ambizione, quella cistercense, unita a un profondo senso di umiltà condivisa (la carta d’identità di san Bernardo?), un’impresa collettiva tale che «la moderna storiografia comparata sulla vita regolare ha individuato nei cistercensi il primo ordine religioso della storia». Una cosa che non sapevo e che mi ha colpito molto a tal proposito: «Durante il capitolo giornaliero, presso i cistercensi, prima che avvenissero le clamationes, cioè le autoaccuse dei singoli monaci che confessavano le loro colpe, l’abate pronunciava le parole: “Parliamo dell’ordine” (“Loquamur de ordine”)».
John Chryssavgis, Al cuore del deserto. La spiritualità dei padri e delle madri del deserto, traduzione di C. Frescura, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2004.
Una passeggiata nel deserto è sempre salutare. Si potrebbe dire, invece, di questo libro ben congegnato che ci invita ad avvicinarci ai famosi detti dei padri e delle madri del deserto (famosi perché una volta appreso della loro esistenza difficilmente ce ne si può dimenticare) «come a miti», non come stimoli all’imitazione bensì come a fonti di ispirazione. Miti fulminei, «lampi di luce» che attraversano i secoli, incredibilmente concentrati in poche parole, che, come ci ricorda l’autore, ebbero una prima diffusione orale e soltanto in seguito scritta. «Questi anziani del IV secolo», afferma p. Chryssavgis (studioso e professore di teologia australiano), «sono promemoria di verità fondamentali riguardo al nostro mondo e a noi stessi, che tendiamo a dimenticare e che essi traducono per tutte le generazioni attraverso le epoche.» Alcuni brevi profili delle personalità più definite, e delle quali si conservano il maggior numero di detti (Antonio, Arsenio, Poemen – «la quintessenza dei padri del deserto» –, Macario, Mosè, Sincletica), introducono a una serie di capitoli tematici che si sviluppano intorno ai concetti e alle esperienze fondamentali del «deserto», non soltanto inteso come luogo, ma anche come dimensione della vita spirituale, come «passaggio necessario» oggi come allora. E quindi lo spazio («luogo di protesta interiore»), la cella (grande maestra), il combattimento contro i (propri) demoni, il silenzio («un modo di morire, in noi stessi, in presenza degli altri») e il pianto (rivelazione dello «stato di frantumazione» e di vulnerabilità dell’anima), le passioni, il consiglio e il distacco, la solitudine, l’amore, il corpo, la preghiera. Grazie alle numerose citazioni il libro diventa anche un’antologia, formula non nuova ma qui eseguita con perizia e, se così si può dire, con grande sensibilità contemporanea. Lo scopo del deserto, secondo l’autore, al di là di tutte le stranezze, gli estremismi ascetici, le eccentricità, era uno soltanto: imparare ad amare. Come illustra questo splendido detto di Poemem: «Alcuni anziani vennero da abba Poemen e gli chiesero: “Quando vediamo dei fratelli che si addormentano durante gli uffici, dobbiamo svegliarli perché stiano attenti?” Egli disse loro in risposta: “Per parte mia, quando vedo un fratello che si addormenta, metto il suo capo sulle mie ginocchia e lo lascio riposare”».