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Promemoria (Schedine: Cariboni, Chryssavgis)

CariboniCistercensi Guido Cariboni, I cistercensi. Un ordine monastico nel Medioevo, Carocci 2023.

Un bel ripasso fa sempre bene. Si potrebbe dire della monografia che Guido Cariboni (professore di Storia medievale alla Cattolica di Milano) ha dedicato ai Cistercensi, in particolare alla loro storia dalle origini alla metà del XIII secolo. Non soltanto ripasso, in realtà, perché, oltre a uno sguardo dall’esterno (da non sottovalutare), il volume offre anche l’opportunità di conoscere i risultati della storiografia recente su alcune questioni centrali della storia dell’Ordine. Ad esempio sul rapporto, sulla tensione, tra ideali delle nuove comunità, come proclamati dai testi «ufficiali» (gli Exordia e la Carta caritatis, anzitutto), e la realtà testimoniata dai documenti (i resoconti dei Capitoli, le raccolte di consuetudini e gli atti notarili o disciplinari, tra gli altri); o sulle novità decisive, come il Capitolo degli abati (riusciamo a immaginare, nella seconda metà del XII secolo, un «congresso» anche di trecento abati?), le «visite» (con i viaggi, e gli scambi, che comportavano: nonostante il voto di stabilità, «il viaggio, per altro non proibito da Benedetto, fu forse una delle dimensioni più originali del monachesimo tardoantico e medievale, tanto in Oriente quanto in Occidente»), le relazioni con i vescovi; o ancora sulla gestione economica dei patrimoni fondiari, sull’istituzione e lo statuto dei fratelli conversi o sui rapporti con i laici. E sui rapporti con Roma, naturalmente. E quello di «novità» è un aspetto fondamentale di questa storia, rintracciabile sia nella consapevolezza dei protagonisti, sia nelle osservazioni, spesso critiche, dei testimoni esterni. Un atteggiamento che si tradusse in una sorta di ri-fondazione continua, di rinnovamento ininterrotto in cui «si provò, spesso con successo, ad adattare con forme sempre diverse l’ideale monastico delle origini alle nuove esigenze che l’enorme e progressivo sviluppo dell’ordine comportava». Una grandissima ambizione, quella cistercense, unita a un profondo senso di umiltà condivisa (la carta d’identità di san Bernardo?), un’impresa collettiva tale che «la moderna storiografia comparata sulla vita regolare ha individuato nei cistercensi il primo ordine religioso della storia». Una cosa che non sapevo e che mi ha colpito molto a tal proposito: «Durante il capitolo giornaliero, presso i cistercensi, prima che avvenissero le clamationes, cioè le autoaccuse dei singoli monaci che confessavano le loro colpe, l’abate pronunciava le parole: “Parliamo dell’ordine” (“Loquamur de ordine”)».

AlCuoreDelDeserto John Chryssavgis, Al cuore del deserto. La spiritualità dei padri e delle madri del deserto, traduzione di C. Frescura, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2004.

Una passeggiata nel deserto è sempre salutare. Si potrebbe dire, invece, di questo libro ben congegnato che ci invita ad avvicinarci ai famosi detti dei padri e delle madri del deserto (famosi perché una volta appreso della loro esistenza difficilmente ce ne si può dimenticare) «come a miti», non come stimoli all’imitazione bensì come a fonti di ispirazione. Miti fulminei, «lampi di luce» che attraversano i secoli, incredibilmente concentrati in poche parole, che, come ci ricorda l’autore, ebbero una prima diffusione orale e soltanto in seguito scritta. «Questi anziani del IV secolo», afferma p. Chryssavgis (studioso e professore di teologia australiano), «sono promemoria di verità fondamentali riguardo al nostro mondo e a noi stessi, che tendiamo a dimenticare e che essi traducono per tutte le generazioni attraverso le epoche.» Alcuni brevi profili delle personalità più definite, e delle quali si conservano il maggior numero di detti (Antonio, Arsenio, Poemen – «la quintessenza dei padri del deserto» –, Macario, Mosè, Sincletica), introducono a una serie di capitoli tematici che si sviluppano intorno ai concetti e alle esperienze fondamentali del «deserto», non soltanto inteso come luogo, ma anche come dimensione della vita spirituale, come «passaggio necessario» oggi come allora. E quindi lo spazio («luogo di protesta interiore»), la cella (grande maestra), il combattimento contro i (propri) demoni, il silenzio («un modo di morire, in noi stessi, in presenza degli altri») e il pianto (rivelazione dello «stato di frantumazione» e di vulnerabilità dell’anima), le passioni, il consiglio e il distacco, la solitudine, l’amore, il corpo, la preghiera. Grazie alle numerose citazioni il libro diventa anche un’antologia, formula non nuova ma qui eseguita con perizia e, se così si può dire, con grande sensibilità contemporanea. Lo scopo del deserto, secondo l’autore, al di là di tutte le stranezze, gli estremismi ascetici, le eccentricità, era uno soltanto: imparare ad amare. Come illustra questo splendido detto di Poemem: «Alcuni anziani vennero da abba Poemen e gli chiesero: “Quando vediamo dei fratelli che si addormentano durante gli uffici, dobbiamo svegliarli perché stiano attenti?” Egli disse loro in risposta: “Per parte mia, quando vedo un fratello che si addormenta, metto il suo capo sulle mie ginocchia e lo lascio riposare”».

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Tre giorni, tre anni (Schedine: Diat; Buyse)

TroisJours Trois jours et trois nuits. Le grand voyage des écrivains à l’abbaye de Lagrasse, préface de N. Diat, postface du père Emmanuel-Marie Le Fébure du Bus, Librairie Arthème Fayard / Pluriel 2021. «Dopo le recenti esperienze di confinamento, negli anni a venire forse proprio il chiostro sarà il nostro destino globale, se i viaggi e la mobilità saranno sempre più limitati da nuove pandemie o dalla paura di un aggravamento ulteriore della crisi climatica. Le piccole società monastiche, sobrie e autosufficienti, sarebbero quindi una prefigurazione del nostro futuro: quanto di più arcaico diventerebbe quanto mai attuale.» Così Pascal Bruckner riassume le sue riflessioni nel testo che apre il libro. Libro raccoglie i testi che quindici narratori, giornalisti, intellettuali francesi, «orchestrati» da Nicolas Diat, hanno scritto dopo aver passato il breve soggiorno indicato dal titolo presso i canonici agostiniani dell’abbazia di Lagrasse, più o meno a metà strada tra Narbonne e Carcassonne («Un projet un peu fou», dice con un sorriso l’abate firmando la postfazione). Più che l’abbazia, di origini carolinge e riportata a nuova vita a partire dal 2004, e la sua comunità di oltre quaranta monaci, a riempire le pagine del volume sono le considerazioni degli scrittori invitati (che hanno offerto il loro compenso per il proseguimento dei lavori di restauro) sugli ambienti, gli orari, il tempo, la tavola, la magnifica liturgia gregoriana e così via. Personalità molto diverse, forse meno attente a osservare e ad ascoltare che a scrutare le proprie reazioni, che, va da sé, possono essere più interessanti o meno interessanti. Sorprende, forse, la sorpresa di quasi tutti di fronte al senso di straordinaria fraternità che la comunità trasmette, anche al passante frettoloso. Va anche detto che tre giorni e tre notti sono davvero pochini…

DioDiverso Raphaël Buyse, Un dio diverso, traduzione di L. Marino, Qiqajon-Comunità di Bose 2019 (trad. di Autrement, Dieu, 2019). L’autore, sacerdote, di questo piccolo libro ispirato («Ci sono libri che si divorano e altri che si assaporano lentamente. Un Dio diverso appartiene a entrambe le categorie», dice Enzo Bianchi) di giorni in un monastero (benedettino, belga) ne ha passati molti di più (tre anni) e così introduce il suo «resoconto»: «Quei pochi mesi passati al monastero di Clerlande mi hanno attirato in una strettoia. Hanno bruscamente interrotto il cammino che stavo facendo senza problemi da quasi sessant’anni. Più nulla è come prima. Né quello che sono, né quello che vorrei essere. E neanche quello che faccio. Quei pochi mesi di esperienza monastica hanno cambiato il corso della mia vita». Dopo anni di attività intensissima, la prolungata sosta presso una comunità di individui liberati da qualsiasi ambizione se non quella della ricerca di Dio («solidali, ma non intruppati») ha regalato a p. Buyse una prima scoperta: se interrogato direttamente, Dio tace («il suo silenzio mi ha mondato, purificato, disincrostato, strigliato, risciacquato, depurato. Mi ha cambiato, convertito, riformato e rifatto»). Prima scoperta sconvolgente e liberante, che lo ha portato a una seconda, altrettanto decisiva scoperta: «Senza tante chiacchiere, senza preconcetti ideologici e senza arroganza quei vecchi benedettini mi hanno rivelato quello che cercavano vivendo in quel luogo: l’unificazione profonda della persona». Ecco la vera scuola del monastero: l’essere umano, l’umanità («bisogna semplicemente credere nell’uomo. Nell’uomo amato da Dio»). E la comunità monastica diventa una specie di classe che accoglie scolari di tutte le età e provenienze, dove si studia, si mangia, si lavora, si prova in carne e ossa, insieme e con strumenti antichissimi, a contrastare la scissione che ci affligge, a inseguire giorno per giorno il desiderio di unità. Il Dio che parla, un Dio diverso appunto, non è altrove. «Ho compreso», scrive p. Buyse «che non c’è nulla da cercare altrove che nella profondità del quotidiano. […] Nella fragilità e nella grandezza del quotidiano si nasconde una profondità che ha il sapore dell’eternità: nell’uomo c’è qualcosa di più grande di lui. In questo io credo.» Eh, qualcosa

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Duemilaottocentoventi pagine posson bastare, per ora (Schedine: Bernardo di Chiaravalle; Benedettini; Certosini)

SermoniAnnoLiturgico 2Bernardo di Chiaravalle, Sermoni per l’anno liturgico / 2, introduzione, traduzione e note di D. Pezzini, Città Nuova 2021. Non si può passare sotto silenzio che lo scorso settembre, con la pubblicazione del secondo tomo del terzo volume dedicato ai Sermoni per l’anno liturgico, si è conclusa l’edizione delle «Opere di San Bernardo», avviata nel 1984 con il sostegno dell’Abbazia di Chiaravalle milanese e per la cura di Ferruccio Gastaldelli. Altre 950 pagine di san Bernardo, con testo latino a fronte, fitte delle sue parole più quotidiane, se così si può dire, quelle che rivolgeva ai «suoi» monaci quando poteva rientrare nella pace di Clairvaux «con l’animo affaticato da folle umane diverse che cercano cose diverse». A riprova del giacimento reso disponibile, apro (quasi) a caso una pagina, la 611, e cito dal Sermone agli abati: «Questo mare vasto – nel quale, in ogni caso, è certo che viene indicato niente altro se non il mondo presente, amaro e fluttuante – è transitabile da tre generi di uomini perché lo attraversino, ognuno a proprio modo, per uscirne liberi. Questi tre sono Noè, Daniele e Giobbe: di questi il primo lo attraversa in nave, il secondo su un ponte, il terzo a guado».

LesBenedictinsLes Bénédictins. La Règle de saint Benoît, traduction de la Règle réalisée par les moines de l’abbaye Saint-Wandrille, sous la direction de Daniel-Odon Hurel, Bouquins-Robert Laffont 2020. Volume ricchissimo che dà la Regola nel testo latino con traduzione francese e un assai esteso commento spirituale e storico, opera di un plotone di monaci benedettini e studiosi e studiose – quasi una raccolta di brevi e non tanto brevi saggi dedicati a ogni capitolo. 1340 pagine arricchite da un’utile «Chronologie de la dynamique bénédictine» e da un’utilissima «bibliografia cronologica» della Regola che, oltre all’elenco in ordine cronologico delle edizioni a stampa della medesima (40 pagine, dall’edizione tedesca del 1485/1490 di Memmingen, a quella italiana del 2011 a cura dei benedettini dell’Abbazia Madonna della Scala di Noci), offrono soprattutto l’elenco, sempre cronologico, dei commenti alla Regola, sempre a stampa (30 pagine scarse, dal commento di Juan de Torquemada, zio di quel Torquemada, stampato a Parigi nel 1491-94, a quello dottissimo di Aquinata Bockmann, in tre volumi, stampato a Parigi – toh – nel 2018 dalle Editions du Cerf) e l’elenco delle costituzioni degli ordini e delle congregazioni che «riconoscono Benedetto come patriarca» (altre 30 pagine affascinanti e utilissime di storia benedettina). Pur inserendosi nella lunga tradizione dei commenti, questo volume «segna un doppio scarto: non è firmato da un religioso o da un gruppo di monaci, ma è un’opera collettiva che riunisce docenti universitari e alcuni religiosi particolarmente competenti. Non è rivolto ai religiosi (senza che sia proibito loro di leggerlo!), bensì al pubblico il più vasto possibile, e per far ciò tenta una sintesi di undici secoli di riflessione sulla Regola con la percezione contemporanea del monachesimo cristiano» (dall’Introduzione di D.-O. Hurel).

 

AllaScuolaDelSilenzioAlla scuola del silenzio. Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, prefazione di A. Matteo, Rubbettino 2021. Graditissima nuova edizione, con titolo up to date, di un’antologia già apparsa nel 1987 dalle Paoline (e presentata allora dal cardinal Martini) e che inaugura la promettente collana dell’editore calabrese «Amore e silenzio. Voci», diretta da A. Cavallaro, T. Ceravolo e I. Iannizzotto. Il titolo parla da solo, il florilegio è organizzato per grandi aree tematiche, gli autori spaziano lungo gli oltre novecento anni di vita dell’Ordine e il volume (di 526 pagine) è corredato da estesi profili biografici e da un indice analitico degli argomenti singolare per precisione del dettaglio. Se cerco, ad esempio, «linguaggio», trovo che «la menzogna è il vuoto e il l. del nulla» e vengo rimandato a queste parole di Augustin Guillerand (dai suoi Ecrits spirituels, raccolti dopo la morte avvenuta nel 1945): «Si confonde il silenzio dell’Essere col silenzio del nulla. Ma il nulla non sa né parlare né tacere; sa soltanto agitarsi e mascherare, con dei movimenti superficiali, il vuoto che è in lui. Parole delle labbra alle quali non corrisponde alcun pensiero, atteggiamenti del corpo, mimica del volto che non traducono alcuna realtà o mentono realmente: ecco il linguaggio del nulla. Ed è per questo che lo moltiplica. Ci vogliono molte parole per non dire nulla o per dire ciò che non si pensa».

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Entrate / Uscite (Schedine: Bonato; Cernuzio)

IntroduzioneMonachesimoVincenzo Bonato, Introduzione al monachesimo, Nerbini 2021. L’Introduzione che il monaco camaldolese, studioso di teologia monastica e docente di Spiritualità ha pubblicato nella meritoria collana di «Orizzonti monastici» va intesa proprio come propedeutica all’idea di un reale «ingresso» in un monastero. Il testo infatti è organizzato in forma di lettera a un giovane che si senta attratto da una scelta di vita tanto lineare, all’apparenza, quanto complessa e non priva di pericoli nella sua concretezza, e si propone di illustrarne le caratteristiche: a cosa si va incontro, cosa ci si può aspettare, quali ne sono i fondamenti, i momenti costitutivi e quale ne è il significato autentico. Può essere la professione monastica la risposta a quel vago bisogno di spiritualità – termine sempre più difficile da arginare – che si attribuisce a molti giovani? Oltre a un meditato riepilogo dei principali aspetti della scelta di vita consacrata, prevedibili, in fondo, e non nuovi per chi frequenta la letteratura monastica contemporanea, e a una breve rassegna dei suoi «strumenti» primari, l’autore pone spesso l’accento sul carattere personale della vicenda o, come si tende a dire oggi, sulla sua dimensione esperienziale. Senza tradire la propria tradizione (o anzi, appunto, tradendola etimologicamente), la forza di attrazione della vita monastica non può che venire da monaci e monache in carne e ossa che mostrano agli aspiranti il senso, e gli esiti, di una scelta attraverso la loro testimonianza, il loro stile di vita abbracciato, amato e condiviso. La risposta a quel bisogno, la risposta stessa alla chiamata, quindi non può essere un’elaborazione concettuale, si potrebbe quasi dire che prima ancora di manifestarsi pienamente nella fede («Non è mai facile capire se la fede c’è o non c’è») è un «incontro personale», con il Signore anzitutto (tramite la Scrittura), ma anche con un individuo, con una comunità di individui. Individui che, all’inizio, possono vestire i panni di educatori, formatori, direttori spirituali, di maestri (la nostalgia dei quali oggi forse va di pari passo con tutte le difficoltà e anche le storture che possono sorgere da questo tipo di rapporti). Ecco allora che «il monastero presenta il vantaggio di offrirsi come luogo di vita e d’esperienza, in continuità. Perdura nel tempo, perché è animato da persone sagge, miti, sapienti più che dotte, pacificate nel cuore. Non è un luogo dove vengono elaborate teorie astratte, ma dove si manifesta un particolare stile di vita. Nella comunità monastica, lo stile di vita vale più di qualsiasi offerta culturale o catechetica».

VeloDelSilenzioQueste parole, cui anche il non credente presta ascolto e rispetto, risuonano ancora quando si chiude l’ultima pagina del libro di Salvatore Cernuzio, Il velo del silenzio. Abusi, violenze, frustrazioni nella vita religiosa femminile, San Paolo 2021. Di questa materia può parlare solo chi ne ha esperienza diretta, in quanto vittima, testimone o esperto a vario titolo, quindi mi limito ad annotare che questo libro esiste e raccoglie undici testimonianze anonime di religiose (lo specifico femminile è cruciale) che hanno sofferto di abusi, principalmente, salvo un caso, di potere e di coscienza, e hanno lasciato le comunità in cui avevano scelto di consacrare la loro esistenza. Le testimonianze sono accompagnate da un «dispiegamento di forze» assai eloquente: una prefazione di Nathalie Becquart, saveriana, sottosegretaria del Sinodo dei Vescovi («Dobbiamo ascoltarle [queste testimonianze], sentirle e prendere coscienza che la vita consacrata nella sua diversità, come altre realtà ecclesiali, può generare sia il meglio che il peggio»), un’introduzione del gesuita Giovanni Cucci, che all’argomento aveva dedicato un importante articolo su «La Civiltà Cattolica» nel settembre 2020 («Va lodato e incoraggiato chi ha deciso, non senza sofferenze e resistenze, di rompere il muro del silenzio, che è di fatto il canale privilegiato di diffusione del male»), un’intervista allo psichiatra e psicoterapeuta Tonino Cantelmi («Direi che nelle congregazioni maschili può prevalere una forma di individualismo controvocazionale, dove il conflitto è celato dal rispetto tacito dei reciproci spazi; in quelle femminili è più probabile che si nascondano forme sommerse di sofferenza e solitudini atroci in apparenti comunità attive») e un intervento del canonista Giorgio Giovanelli sugli aspetti teologici e giuridici dell’obbedienza («Se tutti i cristiani sono tenuti all’obbedienza alla Parola di Dio, l’obbedienza del religioso passa attraverso precise mediazioni umane»).

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Ripassi (Schedine: Bienvenu; de Vogüé)

MoineOuMonialeHubert Bienvenu, Moine ou moniale? Qui es-tu? À quoi sers-tu?, France-Empire 2021. Devo confessare che mi aspettavo qualcosa di più, in virtù soprattutto di un sottotitolo che recita «Difesa e delucidazione della vita monastica», e tuttavia mi sono detto che forse anche queste brevi introduzioni al fatto monastico sono «necessarie» e possono essere utili. Sono, poi, anche sintomatiche, giacché se ne continua a scrivere e a pubblicare: devono dunque essere effetivamente difesi gli esseri umani che fanno, oggi, quella scelta? Da quali accuse? E da quale posizione possono essere accusati, cioè da chi e in nome di cosa? So che dietro queste domande può essere individuata una pericolosa forma di relativizzazione, pericolosa per i religiosi, s’intende: rispettare questa forma di vita come una delle tante possibili e legittime significa infatti togliere a essa la sua assoluta specificità. Questo è un problema che non posso che lasciare ai monaci stessi, che peraltro, mi pare, raramente si avventurano in «difese» della propria professione. In fondo, che ci abbia provato un giornalista e saggista laico, non mi sembra privo di significato. Monaci e monache per Bienvenu sono i testimoni più «evidenti» dell’amore di Dio per l’umanità e del bisogno di ricambiare tale amore: nata con il cristianesimo delle origini (e qui sarebbe interessante approfondire quella che definisco la «questione quantitativa», cioè il rapporto tra vocazione ed estensione numerica della comunità in cui essa può fiorire), «l’istituzione monastica è sempre sopravvissuta. Strettamente connessa al mistero della Chiesa, ha attraversato i secoli perché si richiama a esigenze e valori che trascendono il tempo. Dio non cambia, le parole di Cristo non passano, e l’uomo vorrà sempre “cercare Dio” in un incontro d’amore individuale. La vocazione monastica è, in questo senso, atemporale, e monaci e monache ci saranno anche domani, senza alcun dubbio».

SanBenedettoVogueAdalbert de Vogüé, San Benedetto. Uomo di Dio, traduzione di M. Magnatti Fasiolo, San Paolo 1999 (trad. Saint Benoît, Homme de Dieu, 1993). Il grande studioso (e monaco) benedettino riracconta il racconto della vita di san Benedetto fatto da Gregorio Magno (nel secondo libro dei Dialoghi). È un piacevole ripasso, non privo però di notazioni che esulano dalla dimensione, appunto, del ripasso, e che soprattutto mi ha ricordato come la clamorosa affermazione di san Benedetto e la diffusione della sua Regola non siano state esenti da una certa «fortuna»: «La fortuna di Benedetto, se così si può dire, fu di essere scelto come eroe di una biografia completa dal miglior scrittore del suo secolo e uno dei più grandi papi che abbia mai avuto la Chiesa… Immaginiamo che Giovanni Paolo II, tra due viaggi, trovi il tempo di scrivere la vita di un santo, per esempio di quel Massimiliano Kolbe che fu suo compatriota e morì cinquant’anni fa. Supponiamo che il nostro papa ci metta del talento e riesca a dare di quel religioso martire un’immagine insieme storicamente vera e spiritualmente vibrante, nella quale il popolo cristiano di oggi riconosca il suo ideale, riviva il suo dramma collettivo, senta passare la grazia di Dio. Tale fu la “fortuna” di san Benedetto». Non posso fare a meno, poi, di citare una battuta che de Vogüé si concede introducendo l’episodio della prima vestizione di Benedetto a Subiaco: «Contrariamente a un proverbio troppo ripetuto, l’abito fa il monaco. Non che basti, ma è indispensabile». Ovviamente non si tratta solo di Benedetto né semplicemente di un vestito, «ma di ricevere con esso tutto ciò che significa: la vita religiosa, com’è stata concepita, sperimentata, praticata da generazioni di monaci e com’è attualmente vissuta dai rappresentanti di questa tradizione».

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Schedine: Breitenstein; Leclercq

Mirko Breitenstein, I benedettini, traduzione di M. Cupellaro, il Mulino 2021 (trad. di Die Benediktiner, 2019).La regola prevede: non perdere mai un’occasione di ripasso, anche perché qualcosa di nuovo s’impara sempre. E dunque si legge di buon grado anche questo «agile libretto» (di 150 pagine) che «si propone di illustrare la storia dei benedettini dalle origini ai nostri giorni, mettendo in primo piano l’evoluzione della Regola di Benedetto e del modo di applicarla». A cominciare da quelli che l’autore considera i due principi fondamentali dell’organizzazione della vita comunitaria di impronta benedettina (e ci vorranno parecchi secoli, dopo la morte di san Benedetto, perché l’aggettivo per così dire prenda piede): l’anzianità e l’autorità dell’abate. Due aspetti connessi tra loro che, durante e dopo la dissoluzione dell’impero romano, sono riconducibili entrambi «a un mutamento di grandissima importanza che ha riguardato la concezione dell’uomo in generale e che ha avuto luogo proprio nel monachesimo benedettino» e che Breitenstein definisce dirompente «rivoluzione sociale»: il rifiuto della distinzione tra schiavi e liberi e la preminenza data all’anzianità (dall’ingresso in monastero) sull’età anagrafica. Una precisa attenzione da parte dell’autore agli aspetti giuridici dell’evoluzione del monachesimo benedettino si mostra anche, ad esempio, nel rilievo dato alla Charta Caritatis, lo strumento che definiva lo statuto delle comunità cisterciensi e che viene indicato come «uno dei testi chiave della storia del diritti moderno», la cui rilevanza va al di là dei cisterciensi stessi e che pone le basi per la costituzione degli «Ordini». Una delle cose che ho appreso è l’esistenza dei «cauliti», ordine fondato dal monaco Viardo alla fine del XII secolo e il cui nome deriva quello della casa madre, l’abbazia di Val-des-Choux (in latino Vallis caulium) in Borgogna: un altro curioso esempio di commistione tra ambizioni eremitiche e tratti cenobitici, con elementi benedettini, cisterciensi e certosini – il grande melting pot benedettino. Sì, un utile ripasso.

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Jean Leclercq, La donna e le donne in san Bernardo, traduzione di C. Stercal, Jaca Book 19972 (trad. di La femme et les femmes dans l’oeuvre de Saint-Bernard, 1983). Spesso, leggendo le pagine di Leclercq, si sente il rumore delle «schede» che scorrono, e lo si immagina lo schedario bernardiano del monaco francese, derivato dall’imponente lavoro che, svolto insieme ad altri, portò tra il 1957 e il 1977 alla pubblicazione dell’opera omnia dell’abate di Chiaravalle. D’altronde, anche qui, lo dice esplicitamente lui stesso: per ricostruire il pensiero e l’atteggiamento di san Bernardo nei confronti delle donne occorre «esaminare, uno dopo l’altro, tutti i testi nei quali si parla delle donne o a delle donne, tutti i fatti, i simboli, le immagini e le idee che essi contengono, senza trascurare né il contesto che li chiarisce, né le fonti o il genere dal quale dipendono, né, nella misura in cui è conosciuta, la data di composizione», ed è possibile farlo grazie all’edizione dell’opera omnia e alla relativa concordanza. I luoghi in questione non sono molti («fatto sorprendente», osserva Leclercq): «Nelle circa cinquecento lettere che sono conservate, Bernardo, rivolgendosi agli uomini, parla delle donne solo quattordici volte e facendo solo brevi allusioni. D’altra parte ha inviato ventitré lettere, talvolta abbastanza lunghe, a talune donne» (laiche e religiose). La rassegna di Leclercq è, come al solito, precisa ed esauriente, e fa chiarezza di molti pregiudizi e luoghi comuni, derivati principalmente da letture affrettate, da testi su Bernardo o da opere a lungo attribuite a Bernardo, ma che di Bernardo non sono. «In Bernardo non si notano pregiudizi sfavorevoli. Non afferma nulla a priori sulla donna, quasi dovesse saperlo in partenza, a eccezione di ciò che fa parte della propria cultura cristiana, fondamentalmente biblica. […] Anche senza considerare gli elogi rivolti alla Vergine Maria, la maggior parte di questi testi esalta le donne. Eva è generalmente giustificata. Non viene mai umiliata o considerata l’unica colpevole di tutti i mali dell’umanità». L’invito conclusivo di Leclercq è quello di non estrapolare la figura e il pensiero di Bernardo dal conteso della cultura cristiana (non solo monastica) del XII secolo, e al tempo stesso di non accusarlo di antifemminismo «perché nei confronti di questo atteggiamento, così profondamente radicato nella tradizione letteraria, ebbe il coraggio di restare libero».

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Al posto nostro (Schedine: Luigi Crippa; Pascalina Lehnert)

Luigi Crippa, Con amore e nostalgia. Studi sul beato Ildefonso Schuster, Nerbini 2020. Le edizioni Nerbini, presa meritoriamente in carico la collana degli «Orizzonti monastici», fondata da d. Valerio Cattana presso il monastero di San Benedetto di Seregno, hanno ristampato il volumetto di scritti che Luigi Crippa ha dedicato nel tempo agli aspetti più specificamente monastici della figura del cardinale Schuster, rimasto sempre «un monaco sotto la porpora», come ha scritto Giovanni Judica Cordiglia, suo medico personale, e «uomo che vive sempre in monastero», come ha detto il cardinale Siri durante il processo di beatificazione. La nostalgia del titolo è proprio quella del chiostro, quello dell’abbazia di San Paolo fuori le mura in Roma, nel cui alunnato è entrato all’età di undici anni (nel 1891), per uscirne da abate trentotto anni dopo, nominato arcivescovo di Milano da Pio XI. I saggi e gli articoli passano in rassegna il giovane studioso, il confratello benedettino, il riformatore monastico, il saggista, l’erudito, l’allievo e il maestro, l’amico, l’epistolografo, «la sua figura di pastore-asceta, saggio e zelantissimo», che sosteneva che la vita monastica altro non fosse che «l’efflorescenza primaverile… della professione di fede cristiana». Risultato della lettura: ho preso il poderoso volume Benedetto. Il padre dell’Europa, che le edizioni Jaca Book hanno pubblicato nel 2019 nell’ambito delle «Opere di Ildefonso Schuster».

La «schedina» dovrebbe concludersi qui, ma, in virtù del più classico dei meccanismi associativi, la figura del vescovo asceta mi richiama quella del papa asceta, Pio XII, per come l’ho letta nelle pagine della suora bavarese Pascalina Lehnert, che gli fu accanto per quarant’anni e ne scrisse poi nel suo libro di memorie Pio XII. Il privilegio di servirlo (Rusconi 1984). Un libro che celebra con ammirata devozione la dedizione inesausta al lavoro di papa Pacelli1. Non che vi cercassi l’aneddoto o la sciocca curiosità, magari, per così dire, almeno un piccolo tratto umano (persino suor Pasqualina ammette che «ogni uomo ha bisogno di qualche distrazione, di una pausa distensiva»); e ne ho trovato uno solo: l’affezione del papa per i suoi canarini, cui era concesso di fargli compagnia durante la rasatura mattutina (uno in particolare si posava «sulla mano che reggeva il rasoio») e di dividere con lui la tavola più che sobria del pranzo. La frase che meglio sintetizza il volume è quella pronunciata da Pio XII quando un giorno, mentre era raccolto in preghiera, suor Pasqualina si permise di ricordargli che era atteso altrove: «Lo sguardo restò fisso alla Croce e il Santo Padre disse: “È inchiodato e non si può liberare; può solo sopportare e soffrire, e lo fa senza lamentarsi; lo fa per amore. Anche il papa è inchiodato al suo posto e deve restarci in silenzio”».

Io non vibro di commozione, come la suora, è giusto ricordarlo, ma nemmeno di sdegno: osservo, e di fronte all’immagine del Cristo che soffre per tutti, tiro fino in fondo il filo delle associazioni con alcuni versi del poeta polacco Adam Zagajewski: «C’è ancora oscurità, alla fermata / c’è chi s’incurva e raggomitola dal freddo, / vedendolo pensi, che fortuna / soffrono solo per sé». Il quale Zagajewski dice anche che «è sufficiente forse – o solo lo pensiamo / – che qualcun altro creda al posto nostro».

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  1. «Di tanto in tanto veniva presentato un film particolarmente bello e ci si augurava che il Santo Padre lo guardasse. Nel caso più fortunato, egli vi assisteva per cinque o dieci minuti, certo non più a lungo “Godetevelo voi e vedetelo voi” diceva soltanto. “Io non me lo posso permettere. Il mio lavoro non me lo consente”.»

 

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Nostalgia e cura dell’altro (Schedine: Max Horkheimer; Lluís Duch)

Due «schedine» dedicate a due libri che, nonostante la cronologia, in qualche misura rappresentano un possibile dialogo.

Max Horkheimer, La nostalgia del totalmente altro, a cura di R. Gibellini, introduzione di H. Gumnior, Queriniana 20197 (trad. di Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen. Ein Interview mit Kommentar von Helmut Gumnior, 1970). «Devo dire che su Dio non possiamo esprimere proprio nulla.» È una delle prime risposte che Max Horkheimer dà nel corso di un’intervista condotta all’inizio del 1970 da Helmut Gumnior, nella quale il filosofo critico si dilunga, in maniera allora sorprendente, sugli aspetti religiosi della sua riflessione, giunta ormai quasi alla conclusione (Adorno è morto da qualche mese e lui «lo seguirà» nel 1973). C’è molto del pensiero ebraico, per ammissione stessa di Horkheimer, in quelle parole, ma non è una rinuncia completa ad affrontare il discorso teologico: «La teologia è», afferma infatti Horkheimer, sottolineando la necessità di una massima cautela, «la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola.» La teologia, più precisamente ancora e nella sua declinazione critica, sarebbe l’espressione di una nostalgia, «secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla vittima», e la religione stessa sarebbe l’immenso deposito della nostalgia provata dalle generazioni che si sono susseguite di «qualcosa di migliore», di altro se non di Altro. Non soltanto un sentimento, che contrasterebbe «la paura che Dio non ci sia», bensì il fondamento stesso dell’azione morale, che trova la sua ragione ultima nella reazione positiva dell’altro – la sua gioia. E tutto ciò mentre le società si avviano a essere completamente amministrate, senza reali alternative…

Lluís Duch, L’esilio di Dio, traduzione di M. Masini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2019 (trad. di L’exili de Déu, 2017). Notevolissimo: non diversamente definirei il libro del monaco e teologo catalano (ma non è forse una tautologia? Non sono forse monaci e monache i massimi esperti di teoprassia, di «teologia applicata?»). Rivolto principalmente ai credenti e in particolare alle persone di religione, il breve testo è pieno di stimoli, di spine, anche per chi osserva dall’esterno. Lluís Duch prende le mosse dalla «crisi dalle dimensioni colossali» dell’«immagine tradizionale del Dio della tradizione giudaico-cristiana», una «reliquia estranea» priva ormai di quella vitalità che le dovrebbe essere propria, e osserva l’affermarsi di forme composite, offerte dallo «psicologizzato ipermercato religioso», caratterizzate «da un solo fedele e da un solo culto – “questo” uomo o “questa” donna» – e con una sola finalità, «costituita dalla risposta alla domanda narcisitica per eccellenza: “Come sto?”». Da queste forme Dio, il Dio della tradizione, è assente, e tale assenza ha per così dire riportato in auge persino un certo rinnovato gnosticismo, che «aderisce molto bene a quell’individualismo esacerbato e solipsista che è stato proclamato e praticato in occidente quasi sempre da parte dei profeti del (neo)liberalismo economicista». La risposta a questa deriva risiede, secondo Duch, nel riconoscimento della «capacità di Dio» degli individui (che sono appunto capaces Dei), che ha comunque bisogno di un contesto per attuarsi, e più ancora, forse, da quella che Duch chiama «l’imprescrittibilità cristiana», cioè «la cura dell’altro: l’Altro con la lettera maiuscola che è Dio, ma anche qualsiasi essere umano che, nella varietà di spazi e di tempi, è un’inesorabile immagine di Dio»1.

Parlavo di «spine»: mi pare infatti di aver citato qualche volta il concetto di nostalgia, annotando i discorsi monastici, ma al tempo stesso devo riconoscere che sulla strada verso l’altro – espressione di cui almeno mi si concederà la «scivolosità» – ho fatto ben pochi, timidissimi passi.

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  1. «L’avvicinamento all’altro e il suo riconoscimento costituiscono la grande opportunità che Dio instancabilmente ci offre per “fare memoria” di lui in ogni qui e ora della nostra esistenza.»

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Possibilità (Schedine: Baral e Corsani; Standaert)

Sabina Baral e Alberto Corsani, Credenti in bilico. La fede di fronte alle fratture dell’esistenza, Claudiana 2020. Non di interesse direttamente monastico, ma molto interessante, poiché forse con una punta di pervicacia penso che oggi la domanda sia: «Com’è possibile credere?», e non più: «Com’è possibile non credere?». Gli autori, di confessione protestante, hanno interrogato nove figure di intellettuali assai diverse (psicanalisti, teologi, pedagogisti, artisti, scrittori, poeti, pastori…) sull’argomento espresso con precisione dal sottotitolo. Non sono stato scosso, se così si può dire, nelle mie convinzioni, perché posso ascoltare l’uomo («Non crediamo in un’idea o in un concetto astratto, ma in una persona che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita”. Un uomo, non una citazione dotta», Bruno Forte), ma non posso credere che quest’uomo sia risorto; perché penso che la promozione e lo sviluppo della fraternità non abbiano bisogno di fondamenti trascendenti; perché non penso che la famigerata «domanda sul senso» sia proficua, e così via. Nondimeno ho letto con grande interesse i dubbi espressi senza tanti giri di parole da questa schiera di, a vario titolo, credenti. In particolare quelli che si trovano nel sofferto intervento del pastore Gianni Genre, che esordisce con queste parole sorprendenti: «A livello personale, ho sempre avvertito l’incredulità [da distinguere dall’ateismo] come una continua minaccia, ma anche come un lusso che non mi potevo permettere… Avrei voluto – e a volte ancora vorrei – arrendermi alla suggestione che Dio non abbia alcuna voce in capitolo in ciò che succede attorno a me». Ed ecco la sua risposta alla domanda di cui sopra: «Ciò che io posso provare a definire fede mi salva dall’assurdo. L’assurdo, per me è pensare di potere credere. Pensare che la fede sia qualcosa che posso. Insomma, non c’è nessuna scelta, nessuna mia libera volontà, nessun lontano frammento di libero arbitrio».

Benoît Standaert, Diario dell’umiltà, traduzione di G. Romagnoli, Queriniana 2020Monaco benedettino dell’abbazia di Saint-André a Zevenkerken, nelle Fiandre, d. Standaert è diarista di lunga esperienza e ha deciso di pubblicare qui uno dei suoi diari, esteso dall’agosto del 2007 (quando aveva 62 anni) al 2017, dedicato appunto alla teoria e alla pratica dell’umiltà, «senza dubbio il regalo più prezioso e segreto della tradizione cristiana rispetto a tutte le altre tradizioni». Riflessioni, ricordi, racconti, citazioni e appunti, talvolta anche sin troppo stringati, di una continua ricerca, prima ancora che della virtù «centrale della nostra ricerca monastica», della sua possibilità; di un reiterato tentativo di acquisire quello «svuotamento», che rappresenta uno dei concetti più imprescrutabili della fede cristiana – imprescrutabili se riferiti a Dio, poiché di esperienza quotidiana si tratta se riferito agli esseri umani: «Vivere “alla maniera di Dio” significa vivere nascosto. Sempre di più. Senza retorica, senza enfasi. Basta la sola kenosi. Quella di Dio in Cristo e di Cristo in noi. E di noi in tutto». Ciò nonostante, pure in questo nascondimento abbassamento svuotamento, d. Standaert ravvisa la possibilità, anzi la certezza di un’assoluta unicità dell’individuo: «Noi tutti abbiamo solo una frase da dire. Dopodiché, possiamo andare. L’oblio ricoprirà molte cose, talvolta in modo stranamente rapido. Non affliggerti troppo! Ma sii fedele alla tua prima chiamata, alla tua prima presa di coscienza, alla tua melodia di fondo».

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Anticipazioni e ritardi (Schedine: Blaise Pascal; Gabriel Bunge)

Blaise Pascal, Il buon uso delle malattie, a cura di R. Colla, La Locusta 1986.

Date le circostanze, mi è sembrato utile rileggere questa famosa preghiera di Pascal, «poche e sante chiare pagine» additate anche in tempi recenti al cristiano che ambisca a una certa profondità di fede. Ho così potuto ripassare uno dei confini invalicabili del mio tentativo di comprensione. Questo, per me, è il territorio dell’inaccettabile, o più esattamente dell’incomprensibile: «Poiché, Signore, come all’istante della mia morte mi troverò separato dal mondo, spogliato di tutto, solo alla tua presenza, per rispondere alla tua giustizia di tutti i movimenti del mio cuore, fa’ ch’io mi consideri in questa malattia come in una specie di morte, separato dal mondo, spogliato di tutti gli oggetti dei miei attaccamenti, solo alla tua presenza, per implorare dalla tua misericordia la conversione del mio cuore, e trovi somma consolazione nel fatto che tu mi mandi ora una sorta di morte per esercitare la tua misericordia, prima di mandarmi effettivamente la morte per esercitare il tuo giudizio».

Gabriel Bunge, Diventare monaci. Per un rinnovamento del monachesimo occidentale secondo la Regola di San Benedetto, a cura di M. Di Monte, Monasterium 2020.

«Il compito del monaco è, semplicemente, di resistere, in mezzo ai suoi fratelli, alla tentazione del sonno del mondo e di tener viva la fiamma della speranza del Signore che viene. La forza di resistere gli giunge dalla preghiera.» Sottesa all’argomento principale del volume di Gabriel Bunge – monaco benedettino, poi eremita, infine accolto nella Chiesa ortodossa, e grande studioso dei Padri – c’è una riflessione sul tempo, sull’arco teso tra il principio e la fine, tra la prima e la seconda venuta di Cristo. Questa tensione ha introdotto una novità nel fluire del tempo, cioè la certezza di una meta che relativizza il presente. Il cristiano dunque sta su questa via, la percorre con altri senza farsi distrarre dal mondo, ascoltando i santi che l’hanno percorsa prima di lui, obbendendo ai loro consigli e approfittando del viaggio per convertirsi: il monaco, che ci prova, verrebbe da dire, «tutti i santi giorni che il buon Dio manda in terra», rappresenta la forma vivente e integrale di questo programma1.

Il tema del tempo viene approfondito nell’intervista (del 2013) posta in appendice al volume. È proprio la tensione escatologica che dà senso alla vita cristiana e che la può rendere difficile. «Una delle tentazioni più insidiose in una vita tutta tesa alla parusia del Cristo», dice infatti p. Bunge, «è il tempo, dal momento che il Signore sembra tardare, e l’attesa sembra farsi pesantemente lunga, interminabile…» (come il tempo stesso, potrei aggiungere, con una punta di malizia). È qui che può manifestarsi l’accidia, quell’akedia che p. Bunge chiama il male oscuro, non solo del monaco (e cui ha dedicato un libro notevole2). Questa apparentemente invincibile sensazione di pesantezza di sé, delle cose, del mondo, di tutto, per il cristiano viene «smascherata e vinta» dal pensiero della morte, che non rappresenta l’ultima incognita, bensì la certezza, la certezza dell’incontro: «Per ognuno di noi la morte è, dunque, il momento dell’incontro con Cristo, tanto che potremmo dire che la Parusia individuale ha già luogo in questo momento, mentre per l’intera storia umana avrà luogo quando il Signore tornerà nell’ultimo giorno, anche per quelli che non lo aspettano, che hanno continuato a crocifiggerlo e respingerlo, o che non credono in Lui».

Richiesto di un commento, «colui che non crede in Lui» avrebbe con rispetto sussurrato: «Vedremo».

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  1. In una più recente intervista, p. Bunge ha dichiarato: «Perché, vedete, non ci sono due spiritualità diverse. Non si può essere qualcosa di più di un cristiano. Un monaco non è più di un cristiano. Cerca di diventare un cristiano, con i mezzi che i Santi Padri hanno messo nelle nostre mani. Quindi posso dare gli stessi consigli che do ai monaci, ma sempre adattati alle circostanze della propria vita, la propria età, e pure la propria età spirituale».
  2. Akedia. Il male oscuro, a cura di V. Lanzarini, Qiqajon, Comunità di Bose, 1999.

 

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