Sandro Carotta, Alla ricerca della bellezza. Percorsi monastici, Nerbini 2023 («Orizzonti monastici»; 48). Il famoso e prolifico benedettino di Praglia ha raccolto in questo volumetto della rinata serie degli «Orizzonti monastici» scritti e contributi di varia dimensione e occasione, «indirizzati a tanti uomini e donne che, sempre più numerosi, cercano nei monasteri un punto di riferimento per la loro vita cristiana» – e non solo, verrebbe da dire. I titoli dei testi dicono già molto: La vita monastica come desiderio, Elogio dell’inutile, Deserto e solitudine, Formazione al silenzio, e così via. Non si cercheranno particolari approfondimenti in queste pagine, si troveranno bensì molti spunti, molti nomi (un po’ troppi, forse) e molte citazioni; e qualche interessante riflessione sull’accompagnamento spirituale: «L’eccessiva preoccupazione di sé non è indice di un cammino interiore ma può essere la manifestazione penosa e non riconosciuta del proprio narcisismo. Il direttore spirituale deve portare la persona guidata a specchiarsi in Cristo e non nel torbido dell’ego». Non sono d’accordo, ma questo non c’entra.
Ernesto Buonaiuti, Francesco d’Assisi, Bietti 1939. La libertà del dilettante consente di non rinunciare a leggere libri che pure non rientrano nel novero degli «studi più recenti» o delle «ricerche più accreditate». Come nel caso di questo piccolo testo che cent’anni fa il grande Ernesto Buonaiuti ha approntato su san Francesco, nell’ambito della collana «Profili» (dapprima Formiggini, poi Bietti), una serie di «graziosi volumetti… tutti opera di autori di singolare competenza», intesi a offrire «vivaci, sintetiche e suggestive rievocazioni di figure attraenti e significative». Proprio così. Tra le righe di questo ritratto – scritte in un italiano che da solo vale la lettura – ci s’imbatte poi in osservazioni che vanno oltre la figura dello joculator Domini, il «giullare di Dio», quasi simbolo incarnato della vena più autentica e rivoluzionario-contraddittoria del cristianesimo; e d’altra parte «la società nominalmente cristiana ha sempre vissuto, nel suo secolare sviluppo, di una paradossale legge di contradizioni vicendevolmente compensatrici» (il corsivo è mio). La «minoranza infinitesimale» di Francesco (concetto che riassume splendidamente molte cose: l’esiguità del nucleo originale e il bisogno di «minorità», nonché l’attenzione all’assolutamente piccolo) trova la sua strada nel mondo delle «transazioni ufficiali» in forza di una superiore necessità, tanto che quando papa Innocenzo III diede la sua «approvazione provvisoria» alla nuova forma di vita «non ebbe davvero coscienza di aver autorizzato il più superbo tentativo di rinnovamento della prima vita evangelica, che da tredici secoli la società cristiana si fosse permesso». Inquadrato nelle visioni di Gioacchino da Fiore, il Francesco di Buonaiuti è un uomo solo, ma straniero a nessuno, amato oltre misura da un piccolo gruppo di testimoni diretti per la sua «semplicità irriflessa», il suo «entusiasmo di primitivo», il suo essere allo stesso tempo, perfettamente e lietamente, dentro il mondo e fuori di esso, come nessun altro mai dopo Gesù. L’immagine, suggerita da Buoniauti, che mi porterò dietro è questa, relativa al ritiro in solitudine sul monte Subasio: «Si diede a ramingare, solitario, nella campagna, addestrandosi al misterioso linguaggio delle creature minuscole o imponenti, esili o maestose, fragile ed effimere o resistenti ed eterne che popolano la natura disabitata dagli uomini, e che noi, nella nostra egocentrica angustia mentale e nella nostra inguaribile pigrizia psichica, definiamo inanimate o inintelligenti solo perché ci siamo sequestrati dal loro consorzio e ci siamo serrati alla loro ineffabile e suggestiva parola».