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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 3/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui, la seconda qui)

Tra le molte suggestioni prodotte dalla lettura della Regola delle recluse1 ce n’è una di ordine – oserei dire – psico-teologico che mi ha attirato particolarmente.

Analizzando i rischi che la reclusa corre ascoltando dicerie e pettegolezzi che il Tentatore, per tramite di qualche persona solo apparentemente pia, le offre alla finestra della cella, Aelredo dice che, «ritornata alla quiete, la poveretta rimugina nel suo cuore, trasformate in immagini, le cose che le sue orecchie vi avevano inserito, e trasforma in incendio violento quel fuoco che era stato attizzato dalle chiacchiere precedenti. Nei salmi balbetta come fosse ubriaca, nella lettura le si appanna la vista, barcolla nella preghiera». Il punto decisivo mi pare essere quel «trasformate in immagini», che sposta il problema sulla dimensione, appunto, visiva. Dimensione che rimanda a uno degli aspetti costitutivi della reclusione volontaria: ci si rinchiude per non vedere il «mondo presente» e quindi poter intravedere quello «futuro», si oscura l’aldiquà per gettare una prima luce sull’aldilà. O, ancora, si esclude il «visibile» per affacciarsi all’«invisibile».

Già Pietro il Venerabile, indirizzando la sua lettera sulla vita eremitica (la 20 del suo epistolario) al monaco Gisleberto, gli augura «nell’angustia della cella la vastità del cielo»; mentre Guglielmo di Saint-Thierry, scrivendo ai fratelli certosini, nella sua Lettera d’oro (31), ricorda che «la porta chiusa non significa nascondiglio, ma ritiro segreto», e che «la dimora del cielo e quella della cella si assomigliano; poiché, come il cielo e la cella mostrano una qualche parentela nel nome, così ce l’hanno anche nella pietà. Sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle».

Ora, nel corredo standard del materialista il «vedere», con riferimento preciso al «visibile», è un’acquisizione non più rinunciabile: si deve poter vedere, in ogni declinazione possibile, dall’esperienza dei sensi all’esplorazione geografica, dal controllo delle fonti all’esperimento scientifico, fino al giornalista che «va a vedere» il fatto prima di riferirne, ecc. Nondimeno il materialista non è insensibile ai pericoli dell’interferenza, del rumore di fondo che inquina la percezione, e quindi osserva la reclusione volontaria (stravolgendone il significato propriamente cristiano) come strumento di depurazione del «segnale», alla ricerca di ciò che non è immediatamente visibile. Ma di quale «segnale» si tratta?

Aelredo non si stanca di mettere in guardia dagli attacchi che provengono dall’interno, anche quando si sia chiusa la porta all’esterno, perché «il male che portiamo incluso nelle nostre membra spesso risveglia istinti temibili» (il corsivo è mio, con una speciale considerazione per quell’«incluso»); e Pietro il Venerabile è ancora più esplicito quando ricorda che «il mondo, passando per un accesso familiare [cioè, con tutta evidenza, l’immaginazione] si offre agli occhi dell’anima con tutte le sue cose», e così rivela un «invisibile» ben diverso da quello che il recluso si aspettava: «In questo modo, mentre imperversano nelle zone arcane della sua mente sensazioni di cose svariate, poiché l’animo non vede niente di quello che pensa se non una celletta vuota, dormicchiando per la noia, cerca rimedio a questa noia miserevole non in Dio ma nel mondo, non in sé ma fuori di sé; il che gli procura un danno ancora più grave».

Istinti temibili, noia, zone arcane della mente: concetti ed espressioni quanto mai familiari al materialista novecentesco, anche quello modestamente attrezzato, no?

(3-fine)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 2/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui)

Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx1, infatti molte «ignorando o non prendendo sul serio il motivo di questa istituzione, ritengono che si sufficiente rinchiudere tra quattro pareti soltanto il loro corpo, lasciando invece che lo spirito sia libero di dissolversi in mille divagazioni», eccetera eccetera; e poi stanno sempre a parlare con qualche «vecchia garrula e pettegola», si fanno raccontare le cose del mondo e poi ci rimuginano, si figurano quanto hanno ascoltato, si preoccupano delle loro proprietà, dei soldi, scrivono lettere, fanno regalini o addirittura «mandano cinture e borse intessute e ricamate con colori variopinti a giovani monaci e chierici». Insomma, fanno entrare dalla finestra (quella maledetta finestra) quel mondo turpe che si sarebbero lasciato alle spalle, e con esso il Tentatore e il suo veleno. Anche le attività più apparentemente nobili sono pericolose, come occuparsi dell’insegnamento di ragazzi e ragazze, trasformando la cella in una scuola. La scena descritta da Aelredo merita di essere riportata per intero: «La reclusa siede alla finestra [appunto], mentre le ragazze si raggruppano nel portico [del chiostro, quindi]. Le guarda una a una, e secondo i loro comportamenti infantili, ora si adira, ora ride, ora minaccia, ora blandisce, ora picchia, ora bacia, ora tira vicina una che piange per essere stata castigata, le accarezza il volto, se la stringe al collo, la trascina a sé con abbracci, la chiama “figliola mia, tesoro”». Si guardi da tutto questo, la reclusa! Per le sue necessità si scelga «una donna anziana» e posata che faccia la guardia alla porta e che tenga al suo servizio «una ragazza più forte e capace di fare i lavori faticosi, che porti l’acqua e la legna, faccia cuocere le fave e gli ortaggi o, se una malattia lo richiede, prepari cibi più sostanziosi». Tu, mia amata sorella reclusa, sposa di Cristo, «tu sta seduta, sta zitta, aspetta».

Sistemati gli aspetti pratici (orari, lavoro manuale, letture, digiuni, abbigliamento), nella seconda parte Aelredo passa in rassegna la «disciplina interiore delle virtù». La verginità, anzitutto, il tesoro più prezioso, poi la castità (che non può prescindere dalle privazioni e dalle mortificazioni, che non devono spaventare, «come se la fiamma della libidine fosse più tollerabile dei bruciori di stomaco»), l’umiltà (occhio, che «c’è anche una sorta di vanità nel compiacersi di una cella curata con eleganza») e infine la carità. Ma come può la reclusa nella sua condizione esercitare l’amore per il prossimo? Con la volontà buona e con la preghiera: «Abbraccia dunque tutto il mondo nell’unico grembo dell’amore, e lì pensa a tutti quelli che sono buoni, e rendi grazie, e insieme guarda a quelli che sono cattivi, e piangi». L’unico modo santo in cui il mondo può rientrare nella cella è tramite l’orazione, che rappresenta la sola prospettiva dalla quale la monaca deve osservarlo e amarlo, senza distinzioni: i poveri, gli orfani, le vedove, i tristi, i pellegrini, le vergini, i naviganti, i monaci tentati, i prelati carichi di responsabilità, persino coloro che sono in guerra: tutti costoro sfilano in corteo nella preghiera della reclusa.

La terza e ultima parte della Regola accoglie tre meditazioni sui beni passati, presenti e futuri, o più esattamente attesi: tre testi molto belli che possono anche essere letti separatamente dal resto e che ebbero larga fortuna, tanto da essere attribuiti ad altri autori e da essere inseriti nella diffusissima raccolta di Meditazioni intestata a sant’Anselmo. Le meditazioni mirano a suscitare una serie di immagini capaci di accendere sentimenti di devozione e pietà, creando una «memoria affettiva» cui attingere durante la quotidiana lotta per la conquista delle virtù: un metodo che anch’esso avrà larga fortuna. Quella sul passato è una ricapitolazione dei principali episodi evangelici, durante la quale dobbiamo immaginarci testimoni diretti dei fatti, insieme con gli apostoli, col paralitico, con l’adultera o presenti all’ultima cena come quattordicesimi convitati. La seconda meditazione, rivolta al presente, è per così dire quella più autobiografica, in cui si passa in rassegna il bene che si è ricevuto e il male che si è fatto (e Aelredo confessa apertamente il suo), e la certezza che l’aiuto di Dio non mancherà mai a chi lo chieda. La terza meditazione si concentra infine sui cosiddetti «novissimi», cioè morte, giudizio, inferno e paradiso. Qui, se ripensiamo a quanto accennato sull’esperienza, possono sorgere dei problemi. Aelredo si affida, comprensibilmente, alla Scrittura, ma conclude la parte sull’«eterno riposo» che attende i beati con un commento molto significativo: «Per la verità, cosa sarà quel riposo, quella pace, quella felicità… la penna non lo può descrivere perché l’esperienza non l’ha ancora insegnato».

Similmente il paradiso si disegna al negativo, per tutto quello che in esso mancherà, che non è altro che ciò che affligge gli esseri umani, in sintesi: la vita, riassunta in un brutale elenco, non privo di un dettaglio inatteso: nessun lutto, o pianto, «o dolore, o timore, nessuna tristezza, nessuna discordia o invidia, nessuna tribolazione, nessuna tentazione, nessun cambiamento di tempo, né un cielo coperto di nuvole, nessun sospetto, né ambizione, né adulazione, né calunnia, nessuna malattia, né vecchiaia, né morte, non povertà, né tenebre, nessun bisogno di mangiare o bere o dormire, nessuna fatica, nessuna debolezza».

La formula con la quale Aelredo definisce il paradiso è memorabile: «Cosa sarà questo regno noi non riusciamo a immaginarlo, tanto meno a esprimerlo in parole o a metterlo per iscritto. Questo so, che niente mancherà di quello che tu desideri e che niente ci sarà che tu non voglia».

(2-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 1/3)

RegolaDelleRecluse Sappia, la monaca reclusa, «di non essere sola quando è sola. Allora infatti è con Cristo, il quale non si degna di stare con lei quando è nella folla». Se ne stia dunque sola, seduta, in silenzio e ascolti e parli soltanto con Gesù. La prima parte della Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx1 – delle tre di cui è composta – è dedicata al comportamento esteriore che la monaca reclusa deve tenere per potersi dire veramente tale. Siamo nella seconda metà del XII secolo e il fenomeno della reclusione volontaria, soprattutto femminile, per quanto piccolo, non è trascurabile. Nata nel deserto delle origini, sviluppatasi lungo tutto il Medioevo eremitico e cenobitico, sfocia infine nella sua «epoca d’oro» tra XI e XIV secolo, quando la dimensione cittadina che assume ne esalta la vocazione paradossale e contraddittoria2, quella cioè di ricercare e vivere la solitudine in mezzo alla gente, di fuga dal mondo dentro il mondo stesso3. È così che i reclusori che punteggiano le città (a Foligno, per fare un solo numero, nel 1370 sono censite 62 «incarcerate») diventano quasi dei punti di riferimento per la popolazione dei laici, rappresentando il segno di una fede vissuta nel sua forma più pura, esercitando una specie di protezione sulla popolazione e al tempo stesso fornendo una sorta di anticipazione della promessa di beatitudine futura: le recluse e i reclusi (molti meno) sperimentano un assaggio del paradiso e lo additano agli occhi di chi è ancora alle prese con le miserie dell’aldiqua. Lo rappresentano e in qualche misura ne riferiscono anche, stanti i rapporti che hanno con i laici che li visitano e ne cercano la parola ispirata.

Per molti secoli, tuttavia, la reclusione volontaria si appoggia, per così dire, ai monasteri, che ospitano al loro interno celle dalle quali, con il consenso della badessa o dell’abate, monache e monaci non escono mai, pur intrattenendo, per forza di cose, alcuni contatti con il resto delle comunità4. Per quanto «fuori dal mondo», le recluse devono pur mangiare (poco), devono pur fare qualcosa (oltre pregare), sono sepolte, sì, ma pur sempre vive. Si dà, quindi, la necessità di una «regola per le recluse», e Aelredo, secondo le ricostruzioni degli studiosi, arriva per terzo, dopo Grimlaico, egli stesso recluso, che redige una Regola dei solitari verso la fine del IX secolo, e Pietro il Venerabile, il sommo abate cluniacense, che qualche tempo dopo il 1134 scrive a Gisleberto (o Gilberto), recluso a Senlis, una lunga lettera, tradizionalmente tramandata come un trattato sulla vita eremitica.

La Regola di Aelredo, che viene datata intorno al 1160, è dedicata alla sorella maggiore (di cui purtroppo non si conosce il nome) e questo le conferisce un tono di particolare partecipazione emotiva che, insieme con le notazioni autobiografiche che Aelredo vi sparge, ha suscitato altrettanta partecipazione anche nei lettori più recenti. Anche senza considerare Aelredo come «il più poliedrico degli autori della prima generazione cistercense» (D. Pezzini), e che anch’egli ha vissuto un’esperienza di semi-reclusione (circostanza decisiva per un cistercense: si scrive e si parla di ciò di cui si ha esperienza) quando, da abate di Rievaulx, tormentato da una serie di malanni, si era fatto costruire una specie di eremo a lato del chiostro (il suo biografo lo chiama mausoleum, tugurium e secretarium) nel quale riceveva i confratelli, e mettendo infine da parte la sua fama di cantore dell’amicizia monastica, la lettura della Regola delle recluse, anche astraendo dal suo contesto storico, è interessantissima.

Anzitutto, forse, per la concretezza (anch’essa decisamente cistercense) con la quale Aelredo attacca il suo argomento. Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx…

(1-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003. L’estesa introduzione di Domenico Pezzini è quanto di più utile per un primo orientamento sul fenomeno della reclusione volontaria.
  2. Jean Leclercq sintetizza ottimamente come l’eremitismo rappresenti il paradosso di una vocazione «a praticare l’obbedienza senza superiore, la carità senza fratelli, e l’apostolato senza azione».
  3. Una dimensione che in varie forme si è perpetuata sino ai giorni nostri, ad esempio in realtà che vengono definite «monachesimo interiorizzato» o «eremitismo urbano».
  4. Scrive lo studioso inglese Giles Constable (citato da Pezzini) che la presenza di celle per reclusi nei monasteri «in certi casi funzionava come valvola di sfogo per attività religiose incompatibili con la vita di comunità, e anche, bisogna aggiungere, per membri della comunità che risultavano essi stessi incompatibili».

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Silenziose e sommerse (La reclusione volontaria)

Il numero più recente dei «Quaderni di storia religiosa medievale» (24, 1/2021), curato da Frances Andrews ed Eleonora Rava, è dedicato a Ripensare la reclusione volontaria nell’Europa medievale ed è di eccezionale interesse. I dieci saggi che vi sono raccolti, di sintesi e di approfondimento di casi esemplari, coprono un arco temporale che va all’incirca dal XIII al XVI secolo e offrono un preciso orientamento su un fenomeno misterioso, affascinante, tutt’altro che omogeneo e prevalentemente femminile: «Occorre comunque distinguere tra due forme principali di vita solitaria, entrambe ordinate a un ritiro totale dal secolo: l’eremitismo, dai caratteri mobili e aperti, di ascendenza prevalentemente maschile, e la reclusione, un comportamento ascetico con una fisionomia tipicamente stanziale, praticata in luoghi chiusi soprattutto dalle donne» (Alessandra Bartolomei Romagnoli).

Ma prima di provare ad addentrarmi nelle meraviglie dell’erudizione, cioè dello studio profondo dei documenti sopravvissuti, devo sottolineare la potenza evocativa della «lista» che proprio la professoressa Bartolomei allega al suo saggio di ricognizione della letteratura agiografica1, una lista di «carattere puramente orientativo» che per ben sette pagine elenca in ordine cronologico nomi di donne, suddivise tra eremite e recluse e ulteriormente catalogate in sottocategorie: eremita in un monte, eremita in una grotta; reclusa presso una chiesa, reclusa domestica; eremita in un’isola, eremita un bosco, reclusa in una cella, in un lebbrosario, presso la cattedrale; reclusa vallombrosana, francescana e camaldolese; eremita in grotta poi badessa, badessa poi reclusa…

Wiborada (wikiwand)Donne esistite, con nome e luogo, e da un certo punto in poi anche cognome: Lutgarda di Tongres, Eliena di Laurino, Chelidonia di Subiaco e Verdiana di Castelfiorentino, «murata nella sua cella-sepolcro in un silenzio abissale e definitivo»; Monegonda di Chartres, Berta di Blangy, Liutbirga sassone, Viborada di Turgovia, martire della cella (in una miniatura sangallense si vedono i suoi uccisori penetrare dal tetto della cella, svellendo le tegole, per aggirare la porta sbarrata); Umiltà da Faenza, Cristina da Markyate e Cristina l’Ammirabile, Herluca di Bernried, Alpaide di Cudot, Marie Robine di Avignone, «reclusa stipendiata dal papa» Clemente VII; Benvenuta Boiani, Vanna da Orvieto e Gherardesca da Pisa, Filippa Mareri, Oringa Menabuoi e Diana Giuntini; e Giuliana di Norwich, «la donna inglese di cui si conosce soltanto il nome e che depone nel suo libro una dottrina di eccezionale densità speculativa»; e Ugolina da Vercelli, registrata come «eremita selvaggia»…

Una schiera impressionante che pare quasi di poter vedere, un «rivolo di sante donne», «una popolazione silenziosa e sommersa», donne di varia estrazione che rifiutano i ruoli assegnati, una rete di «ambienti collegati tra loro da una fitta trama di relazioni e scambi reciproci», un mare di testi agiografici (redatti esclusivamente da uomini, va da sé), rare «auto-agiografie, che sono memoriali e diari dell’anima», volti, gesti, aspirazioni, «libera e solitaria ricerca di Dio»…

Per non parlare di coloro che sono rimaste anonime, come la reclusa irlandese citata nella Vita di san Colombano di Giona da Bobbio:

Mentre [Colombano] è immerso in tali pensieri, gli accade di passare presso la cella di una donna consacrata a Dio. In un primo momento la saluta con tono umile, poi comincia a rivolgerle, secondo il suo stile, un’ardente esortazione. Questa, vedendo la veemenza crescente del giovane, gli dice: «Sono fuggita e sono partita per la guerra facendo tutto quanto mi era possibile. Ho lasciato la mia casa quindici anni fa e sono giunta in questo luogo di peregrinazione; mai, grazie all’aiuto di Cristo, dopo aver posto mano all’aratro, mi sono voltata indietro, e se la debolezza del mio sesso non mi fosse stata di ostacolo, avrei raggiunto, attraversando il mare, un luogo di peregrinazione ben più remoto. Ma tu, nel pieno ardore giovanile, ti attardi nella terra nativa…?»2

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  1. Alessandra Bartolomei Romagnoli, Le recluse nello specchio della letteratura agiografica. Appunti per una ricerca, in «Quaderni di storia religiosa medievale» 24, 1/2021, pp. 51-105.
  2. Giona, Vita di san Colombano, I, 3, Abbazia San Benedetto, Seregno, 1999, pp. 46-47 (il corsivo è mio).

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