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Sicuramente (Dice il monaco, CXII)

Dice Bernardo di Chiaravalle, scrivendo all’arcivescovo Enrico di Sens, intorno al 1138:

Mi stupisco che alcuni abati del nostro Ordine monacale violino con aggressiva contestazione questa regola dell’umiltà, e – ciò ch’è peggio – nutrano una superba visione delle cose pur sotto l’umile aspetto e l’umile tonsura, sì da non sopportare che i sottoposti si lascino andare a una sola paroletta riguardo ai loro ordini, mentre essi sdegnano d’obbedire ai loro vescovi. Spogliano le chiese per rendersi indipendenti; si affrancano per non obbedire. Non così s’è comportato Cristo. […] Cos’è questa temerità, o monaci? Per il fatto che siete a capo di monaci non è men vero che siete monaci voi stessi. La professione fa il monaco e solo la necessità fa il capo. Perché la necessità non pregiudichi la professione, occorre che il senso della preminenza costituisca un’aggiunta a quello della monacazione, ma non lo sostituisca. […]

Io sono sicuramente un monaco [«Certus sum enim ego monachus»], e per combinazione abate di monaci [«et monachorum qualiscumque abbas»], ma se a un dato momento mi adopero a scuotermi di dosso il giogo del mio pontefice, mi sottopongo senz’altro alla tirannide di Satana.

♦ Bernardo di Chiaravalle, Lettera XLII, 33, 35, in Lettere, Parte prima 1-210, introduzione di J. Leclercq, traduzione di E. Paratore, commento storico di F. Gastaldelli («Opere di San Bernardo», VI/1), Città Nuova 1986, pp. 239-243.

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Una buca nel terreno

C’è una breve nota posta tra parentesi, quasi di sfuggita, nel testo di Georges Duby dedicato a san Bernardo che mi ha colpito particolarmente: un dettaglio biografico che non conoscevo, assai crudo, dato senza fonte, ma di non difficile reperibilità. Deriva infatti dal capitolo VIII della Vita di san Bernardo di Chiaravalle di Guglielmo di Saint-Thierry, un capitolo di estremo interesse intitolato Della grande severità della sua vita, e della sua indefessa applicazione in mezzo ai continui intralci dovuti alla sua salute compromessa (De magna vitae ejus severitate, et indefesso inter continua fractae valetudinis incommoda laborandi studio). Ecco il passo in questione:

«Alcuni medici lo visitarono e trovarono ammirevole il suo modo di vivere, dicendo che imponeva alla sua natura sforzi simili a quelli di un agnello attaccato a un aratro e forzato a lavorare. Il suo stomaco distrutto gli faceva vomitare frequentemente il cibo crudo che non aveva potuto digerire, cosa che cominciò a mettere a disagio gli altri, in particolar modo durante l’ufficio nel coro; nondimeno non abbandonò del tutto il consesso dei fratelli, ma, avendo fatto scavare una buca nel terreno, vicino al suo posto, soddisfò in tal modo finché poté quella penosa necessità.»1

In quella «buca nel terreno» («in terra receptaculo») si raccoglie anche, se così si può dire, simbolicamente, la mia complicata «ammirazione» per san Bernardo (e sarebbe necessario definire con accuratezza cosa significa provare ammirazione per una figura lontana nel tempo, il cui profilo ho composto mettendo assieme frammenti di una conoscenza approssimativa). Al di là, infatti, della banale osservazione che non sono acceso dalla medesima fede, molti sono gli aspetti che mi dovrebbero allontanare da lui: e invece. E invece l’attrazione è lì, innegabile, per un essere umano perennemente in rivolta contro se stesso e il mondo («contro tutto», dice Duby), e tuttavia instancabilmente attivo proprio in quel mondo, feroce e dolcissimo, comprensivo ed esigentissimo, umile e consapevole della propria autorità, negligente di sé fino all’autodistruzione e preoccupato della propria traccia lasciata ai posteri – e forse non immune dal desiderio di essere «il migliore».

E mi conforta che lo stesso Guglielmo spenda buona parte del capitolo per una strana «giustificazione» degli eccessi di rigore nel comportamento di san Bernardo; strana perché, mentre ne dichiara più volte l’inutilità, a fronte di quello che Bernardo ha compiuto («nessuno oserebbe condannare colui che Dio giustificò operando con lui e tramite lui tante cose sublimi»), continua a svolgerla, a volte con eleganti giochi di parole: «Se gli imputiamo un eccesso di santo fervore, questo eccesso certamente susciterà il rispetto delle anime pie, e coloro che sono guidati dallo spirito di Dio temeranno di imputare eccessivamente questo eccesso al suo servo».

Ricordando gli anni passati da Bernardo a Cîteaux, Guglielmo ha già fatto un’altra osservazione che mi pare riveli il suo pensiero. Prima di ributtarsi nelle rinunce forsennate, a Cîteaux, infatti, piacque a Dio che Bernardo si sia abituato un po’, uomo lui stesso, a vivere con gli uomini e abbia imparato a comprendere le debolezze umane; che in latino, più concisamente, suona così: «Postquam didicit aliquatenus et consuevit homo cum hominibus esse».

Cioè dopo aver imparato in qualche modo ed essersi abituato a essere un uomo con gli uomini.

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  1. Cito, traducendo come posso, da La Vie de saint Bernard, par Guillaume de Saint-Thierry, continuée par Arnauld de Bonneval et Geoffroi de Clairvaux, traduit du latin par F. Guizot, nouvelle édition préparée par N. Desgrugillers, Editions Paleo 2010, pp. 55-60.

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Un sogno di perfezione morale (Georges Duby e l’arte cistercense, pt. 2/2)

SanBernardoArteCistercense (la prima parte è qui)

«Per capire Fontenay», scrive Duby1, citando l’abbazia «figlia» di Clairvaux, fondata nel 1119 e uno degli esempi più alti dell’architettura cistercense, «in quello che ne forma il significato e il colmo della bellezza, bisogna avvicinarvisi passo passo, per i sentieri della foresta, nella pioggia d’ottobre attraverso i rovi e i pantani, faticosamente.» Occorre quindi raggiungere la radura, che rappresenta il nucleo, la prima conquista del drappello di monaci che si lasciano tutto alle spalle per cercare un luogo, sottratto a forza di braccia alla selva primordiale, dove rintracciare, ricostituire la regolarità dello spirito, la «somiglianza» a Dio smarrita nella «regione della dissomiglianza» che è il mondo con le sue irregolarità.

In realtà non proprio tutto si sono lasciati alle spalle questi monaci: il «soffio dei tempi nuovi» li segue, insieme ad esempio ai progressi tecnici, a una nuova considerazione del lavoro (compreso quello salariato, che viene impiegato) e persino a un diverso rapporto con il denaro come strumento che non viene disdegnato (si produce e si vende, e il ricavato si usa), tutte cose che produrranno una «espansione tumultuosa» e risultati economici ragguardevoli. Li segue, senza che quasi se ne accorgano, il «movimento di rinascita dell’individuo»: le nuove abbazie che sorgono a un ritmo impressionante non sono abitate da una massa indistinta di religiosi salmodianti, bensì da gruppi compatti di individui non ignari della società da cui provengono e non privi di personalità. Nei reparti di uomini che disboscano, bonificano, arano sopravvive quello spirito di cavalleria (lealtà, coraggio, amore), quel gusto per la conquista e in fondo anche per l’avventura che è lo stesso Bernardo ad aver portato a Clairvaux: «San Bernardo non ha mai rivolto il suo sguardo su altri uomini, se non cavalieri, su antichi cavalieri, i monaci di coro, e su gli altri che ha sognato di attirare a sé», dice Duby, e continua: «Bernardo sarebbe stato un cavaliere magnifico. Ma non imparò mai il maneggio delle armi. Se l’avesse fatto forse non si sarebbe mai stornato dal mondo».

Molto si portano dietro anche del monachesimo «vigente»: la scelta cenobitica, l’ascetismo, il rispetto del passato; l’idea è quella di rimettere il monachesimo al suo giusto posto, cioè ai margini: «L’ideologia cistercense, costruita sulla trama del disprezzo del mondo, non vuole aggiungere nulla, taglia, monda, epura, ed è per questa ragione che la costruzione di Cîteaux altra non è che quella di Cluny ripulita». E nei nuovi monasteri, specchio e scuola dove l’uomo giunge alla migliore conoscenza di sé, in nome della misura e dell’equilibrio esteriore ed interiore si distrugge il vecchio uomo e si fa emergere quello che, come si diceva, conserva la somiglianza. Si bonifica l’anima, allo stesso modo in cui si bonifica il luogo: «Una vittoria dell’ordine sul caos, sforzo dell’uomo per spogliarsi della primitiva rozzezza della selva, per ritrovare il posto da lui occupato prima della caduta, prima di smarrirsi nelle regioni di dissomiglianza, dominando le belve e la vegetazione selvaggia.»

Semplificando molto la parte dedicata al declino, in questo progetto di salvezza dell’anima e di edificazione della «città perfetta» c’era secondo Duby una falla, la falla dei fratelli conversi: «Senza accorgersene, i monaci erano sulla via di diventare quello che i fondatori dell’ordine avevano loro prescritto di non essere mai: dei signori» – e fu proprio la popolazione contadina ad allontanarsi per prima dai cistercensi. La vitalità di Cîteaux si raccolse altrove e la loro capacità di interpretare l’evoluzione dei tempi si trasferì ad altri «protagonisti» più in sintonia con tale evoluzione: gli stessi ordini cavallereschi, la Cattedrale, le confraternite, e poi gli ordini, mendicanti.

«La costruzione cistercense è la proiezione di un sogno di perfezione morale», riassume in una formula Duby, e al centro di questa costruzione c’è il chiostro, «crocicchio dell’universo» dove tutto è luce e chiarezza, raffigurazione di un paradiso ricostruito: «Un’area in cui giunge al suo termine l’addomesticamento del caos silvestre, in cui tutto il cosmico ridiventa collezione ordinata, accordo musicale». E non è forse per questo che i chiostri cistercensi piacciono tanto anche oggi, «oggi che ne rimane solo il guscio, che tanto più ci commuove in quanto è perfettamente vuoto»2? Perché quell’ideale, quell’immagine seppur fuggevole allo sguardo del turista, l’hanno conservato?

Ah, dunque esisteva un posto dove… esiste ancora…

(2-fine)

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  1. Georges Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, traduzione di M. Zini, Einaudi 1982 (ediz. orig. Saint Bernard. L’art cistercien, 1976).
  2. Forse non tutti sarebbero d’accordo su questo «vuoto».

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Un sogno di perfezione morale (Georges Duby e l’arte cistercense, pt. 1)

SanBernardoArteCistercense Nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla sua pubblicazione, o forse proprio per questo motivo, il libro che Georges Duby ha dedicato all’arte cistercense (e a san Bernardo) si legge con grande piacere, e direi anche con grande profitto1. Il piacere è dovuto in gran parte al testo vero e proprio, steso in uno stile storiografico sempre meno frequentato che non rinuncia, in nome della precisione e del rigore, a un evidente impulso narrativo, sfrondato dagli apparati, che lo rende «appassionante»; mentre il profitto deriva dal fatto che la lettura di Duby del fenomeno artistico cistercense, eminentemente architettonico, potrà anche essere datata e da aggiornare (io però non lo so), ma non può essere di certo del tutto fuori fuoco.

Il «racconto» di Duby prende le mosse, e non poteva essere diversamente, da Cluny, dal suo splendore, in cui si sacrificava a gloria di Dio, e dei signori, il frutto del lavoro altrui, in cui si «conservavano» i morti, e si pregava per loro («le abbaziali del XII secolo sorgevano pertanto su uno spesso basamento di tombe»), in cui lo spazio si allargava e si ornava per dare risonanza al canto liturgico della comunità, per accogliere le processioni e per predicare attraverso la scultura figurata e la decorazione, in cui la società tripartita dava spettacolo di se stessa, con un posto assegnato a ogni «personaggio», compreso il «povero».

Questo modello apparentemente immutabile non regge allo «slancio del XII secolo», che partendo dal mondo agricolo investe tutto («l’arte cistercense nasce e fiorisce nella fase di maggior vivacità di un lunghissimo movimento di crescita agricola… si sprigiona da questa stessa fertilità») ed esige e produce nuove forme in ogni campo. Nella luce della crescita economica, tutto, se così si può dire, appare nuovo, persino la povertà, o perlomeno da rinnovare, e il monachesimo non sfugge a questa spinta: ci vuole un «nuovo monastero», Cîteaux. Spoglio, essenziale, funzionale, «ripulito» e «nudo», costruito in radure remote sottratte a forza alla foresta («l’arte cistercense incomincia con il creare la radura»), eremo e chiostro al tempo stesso: un luogo dove pregare e lavorare, e tornare alla lettera della Regola benedettina, e seguire più da vicino Gesù sulla strada indicata da Vangelo.

Da lì, dopo un apprendistato, un «riscaldamento», nemmeno troppo lungo fa irruzione Bernardo, facendo risuonare la sua parola «irresistibile e riecheggiata sino ai confini del mondo». Una «incessante, pungolante aggressione», la chiama Duby, contro gli altri monaci rilassati, contro i signori, contro i vescovi, contro la scuola e i suoi «pensatori», contro i crociati tiepidi, contro i rivoltosi, contro la curia, contro «un papa malamente eletto»: «Contro tutto».

Bernardo parla (scrive) di tutto, perché tutto conosce delle cose terrene e di quelle divine, ma non parla praticamente mai di arte, di quello che noi intendiamo per opera d’arte, non gli interessa. L’odiata «decorazione» va eliminata, per fare chiarezza, per tornare a concentrarsi sull’essenza, cioè sull’anima (la propria anima) dove si svolge la vicenda fondamentale dell’essere umano. Non ne ha mai parlato esplicitamente e tuttavia l’arte cistercense gli deve tutto: «San Bernardo è veramente il patrono di quel vasto cantiere e, come si dice, il maestro dell’opera. La sua parola ha governato, come il resto l’arte di Cîteaux. Perché quest’arte è inseparabile da una morale, ch’egli incarnava, che voleva a ogni costo imporre all’universo, e in primo luogo ai monaci del suo ordine».

All’universo.

(1-segue)

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  1. Georges Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, traduzione di M. Zini, Einaudi 1982 (ediz. orig. Saint Bernard. L’art cistercien, 1976).

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Il Panegirico di San Bernardo di Bossuet (pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Ci pare troppo duro il lungo «silenzio monastico»? Be’, commenta Bossuet, se considerassimo l’esame rigoroso al quale il sommo Giudice sottometterà le nostre parole, non sarebbe poi una gran fatica tacere. Nel Panegirico di San Bernardo1 Bossuet non perde occasione per edificare ed esortare: si tratta pur sempre di una predica, costellata infatti di vocativi e appelli – «cristiani!», «fedeli!» –, e declinata in prevalenza con il «voi», salvo quando il «noi» s’impone affinché nessuno possa esimersi dal riconoscersi peccatore. E forse è proprio in tali passaggi che brilla la sua lingua.

La vita e la figura di san Bernardo ci danno l’opportunità di guardare come in uno specchio la nostra vita e considerare quanto ci illudiamo e ci inganniamo a tenere gli occhi fissi sulle cose terrene. Ogni cosiddetto piacere non è forse pagato con assai più dispiaceri? «E se dovessimo espungere tutti i giorni che ci hanno recato dolore, pure secondo i valori del mondo, ce ne resterebbero in tutta la nostra vita abbastanza da riempire tre o quattro mesi?» La felicità? «Fugge, fugge come un fantasma che, dopo averci dato una specie di contentezza fintantoché è con noi, non ci lascia altro che guai.» I progetti per il futuro? «La vita ci verrà a mancare [leggerei così il terribile e ricco di sfumature «la vie nous manquera»], come un amico falso, in mezzo alle nostre imprese.» «Ahimè!», dice Bossuet alzando la voce. «Non parliamo d’altro che di come passare il tempo. Il tempo comunque passa, e noi con esso2; e ciò che passa nello scorrere del tempo entra nell’eternità che non passa.»

Tutto questo Bernardo lo aveva compreso, presto e bene, nel silenzio di Cîteaux, e quando lo ebbe compreso volle che tutti come lui lo comprendessero. Dio, infatti, aveva scelto Bernardo «per mostrarci il trionfo della croce sulle vanità, nelle circostanze più straordinarie che abbiamo mai visto in tutta la storia».

E «tutti» per Bernardo sono proprio tutti. A cominciare dalla sua famiglia che conquistò alla verità tutta intera, fino all’ultima sorella, che pure si era sposata e indossava «la pompa del Diavolo» e che, toccata dalle parole del fratello, «corre anch’essa ai digiuni, al ritiro, al sacco, al monastero, alla penitenza». E anche il padre che, rimasto vedovo e solo, ritrova infine i suoi figli a Clairvaux dove «muore nella santa speranza e, se posso dirlo, nella pace e nell’abbraccio del Salvatore». Lo slancio apostolico di Bernardo, cui Bossuet dedica il secondo «punto» del panegirico, si estende fino ai principi, ai vescovi, ai re, al papa: armato di verità e semplicità («Cosa c’era di più solido e penetrante della semplicità di Bernardo?») si rivolge all’umanità intera, senza distinzioni né esclusioni, comprensivo con i deboli, inesorabile con i potenti: «Quale regione del mondo non è stata rischiarata dalla predicazione di Bernardo?»

E risplende, quello slancio, soprattutto nei confronti dei suoi amati confratelli, dei settecento angeli – «chiamo così gli uomini celesti che insieme a lui servivano Dio» – che popolavano «di norma» Clairvaux. Con i suoi sermoni quotidiani Bernardo li abituava alle dolcezze della Croce e «li faceva vivere in modo che nulla più sapessero delle cose del mondo, come se un immenso oceano li separasse ormai da esso».

Les faisait vivre de sorte qu’ils ne savaient non plus de nouvelles du monde que si un’océan immense les en eût séparés de bien loin. Oggi nessuno più direbbe così, e i monaci, come tutti, sono assai consapevoli delle «nouvelles du monde», ma forse l’«océan immense» è quello che talvolta vorrebbero, e non solo loro, li distanziasse dalle suddette.

(2-fine)

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  1. Jacques-Bénigne Bossuet, Panégyrique de St. Bernard, in Oraisons funèbres. Panégyriques, texte établi et annoté par l’abbé Bernard Velat, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 19512, pp. 287-314.
  2. Scrive Omar Khayyam: «È la Vita, la Vita che passa come tu sai passarla».

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Il Panegirico di San Bernardo di Bossuet (pt. 1/2)

Mi sono deciso a leggere, a provare a leggere, giacché si tratta pur sempre di lingua francese del Seicento, il Panegirico di San Bernardo di Jacques-Bénigne Bossuet1, anzitutto per via di Bernardo, del quale tutto vorrei sapere, e poi perché Bossuet occupa un posto di riguardo nella mia penosa enciclopedia mentale, come se il suo nome fosse evidenziato, senza che ne sappia spiegare il motivo, dacché di lui non so praticamente nulla.

Il Panegirico, di cui si conserva il manoscritto autografo con correzioni e varianti, fu effettivamente predicato il 20 agosto 1653 nella Cattedrale di Santo Stefano di Metz, di cui Bossuet era diventato canonico nel 1642, a tredici anni, e che è considerata «la culla del suo talento letterario». È piuttosto lungo (27 pagine a fitta stampa), è diviso in quattro momenti – un esordio, due «punti» e una perorazione –, ed è stato definito «ammirevole», acceso «dalla felice temerità della giovinezza e dal fuoco dell’ispirazione»: «Bossuet non si esprimerà mai in maniera così elevata e più penetrante» (Eugène Gandar).

L’esordio è dedicato alla Vergine, di cui s’invoca l’«assistenza» e di cui Bernardo fu massimamente devoto, e a un «ripasso» dell’azione salvifica dell’incarnazione di Gesù, «divino precettore» e «santo e misterioso compendio» della sapienza divina: «il libro nel quale Dio ha scritto la nostra istruzione». Questo «libro» si è aperto a noi nel modo più chiaro sulla Croce, ai piedi della quale Bernardo si è sempre tenuto (baciandone «i sacri caratteri» – proprio quelli di stampa, intenderei).

Nel primo «punto» Bossuet affronta proprio la «scienza della croce» come è stata interpretata e vissuta da Bernardo, ponendo l’accento soprattutto sulla penitenza e sul disprezzo del mondo. Consideriamo anzitutto il fatto che Bernardo ha fuggito il mondo, abbracciando la religione, a 22 anni, non prima, quando del mondo non avrebbe ancora avuto reale esperienza, né dopo, quando il disgusto, la fatica, la noia e le inquietudini del mondo avrebbero potuto già disilluderlo; e consideriamo poi proprio quell’età, il pieno della giovinezza, il vigore fisico, il calore delle passioni non ancora indirizzate e, nel caso di Bernardo, i nobili natali, la famiglia prestigiosa, il bell’aspetto, la buona educazione, la naturale cortesia e i possibili futuri – «tutto sorride alla giovinezza», e «la speranza gonfia le sue vele». Ebbene, Bernardo rifiuta tutto ciò, per grazia sa già che la vera speranza è quella che si ripone in Gesù, seguendo la sua via. Una via che non passa dai ricchi e famosi monasteri benedettini del tempo, bensì da un’abbazia «ora celeberrima, ma allora sconosciuta e senza nome», Cîteaux, dove «un piccolo numero di religiosi viveva sotto l’abate Stefano». Qui, Bernardo si mortifica senza pietà, «cancellava il gusto, mangiava quello che capitava, beveva acqua o olio indifferentemente», veglia, non parla, prega, «sceglieva per la sua cella un ambiente umido e malsano, non tanto per ammalarsi ma per sentirsi debole – ritenendo che un religioso fosse sano fintantoché potesse pregare e salmodiare».

«Certo, non aveva un corpo di ferro o di ottone: pativa i dolori ed era di debole costituzione», ma ci ha mostrato come non sia il corpo che ci manca, per sostenere la penitenza, bensì il coraggio e la fede. Io so, diceva Bernardo, di non meritare il regno dei cieli, Gesù invece lo possiede per due ragioni: per la sua natura e per i suoi travagli, cioè per eredità, poiché è il Figlio, e per conquista, perché tutto il peggio ha sofferto. Ora, se il Salvatore «si accontenta del primo titolo», mi ha ceduto liberamente il secondo.

«Forse voi mi direte», si avvia Bossuet a concludere il primo punto, «che non è necessario che tutti vivano come lui». Vero, nemmeno tuttavia si può fare il contrario, come accade a noi, che «ci diamo anima e corpo alle folli gioie del mondo; noi, che amiamo la dissolutezza e la buona cucina, una vita comoda e voluttuosa e, dopodiché, vogliamo ancora essere chiamati cristiani». Eh, «se pure non aspiriamo a quella eminente perfezione, nondimeno dovremmo imitare almeno qualche cosa della sua penitenza». Quelque chose.

(1-segue)

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  1. Jacques-Bénigne Bossuet, Panégyrique de St. Bernard, in Oraisons funèbres. Panégyriques, texte établi et annoté par l’abbé Bernard Velat, Gallimard, Bibliotheque de la Pléiade, 19512, pp. 287-314.

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Gloria o confusione

SapienzaDelCuore La sapienza del cuore1 rappresenta uno degli esempi più tipici di quei libri di «cose monastiche» che non leggo per motivi di conoscenza storica e inquadramento di un fenomeno culturale bensì per… per cosa? Come definire lo scopo di una lettura del genere senza ipocrisia né autocompiacimento? Forse la formulazione più onesta è quella di «conoscenza personale»; forse si può persino rispolverare il concetto di «edificazione». Poi, con una punta – in questo caso sì – di condiscendenza verso le mie fantasie, posso immaginare di essere seduto tra gli uditori dei sermoni di san Bernardo ed esserne chiamato direttamente in causa. Oggi.

Il volume infatti antologizza – sapientemente, è il caso di dire – alcuni mirabili sermoni dell’abate di Clairvaux sul tema della coscienza e vi unisce due testi anonimi sul medesimo argomento, sempre di ambiente cisterciense, il Tractatus de conscientia ad religiosum quemdam ordinis cisterciensis e il Tractatus de interiori domo seu de conscientia aedificanda. Ben preparati dall’introduzione di Riccardo Larini, che ricostruisce lo sviluppo del concetto di coscienza, dalle origini greche ed ebraiche a Filone alessandrino, da san Paolo a Origene e ad Agostino, fino alle sintesi cisterciense e della scuola di San Vittore, siamo pronti ad ascoltare. E «cosa ci suggeriscono allora i testi degli autori medievali sulla coscienza che abbiamo proposto in questa raccolta?» si chiede Larini, concludendo la sua introduzione. «Forse qualche spunto prezioso sono in grado di offrirlo pure a noi.» Ecco, appunto.

Ad esempio è proprio san Bernardo, campione di ascesi e di rinunce, a ricordare come Dio abbia dato all’anima una «dimora sublime»: «Parlo di questo corpo, che egli ha ideato, disposto, ornato e ordinato in tal maniera che tu puoi abitare in esso gloriosamente e con compiacimento». Nessuna condanna a priori, quindi, semmai l’invito a fare altrettanto, cioè a costruire una casa degna di accogliere a nostra volta Dio che desidera riunirsi a noi. In realtà non occorre costruirla, perché è già lì, l’anima, e in essa la coscienza, e si tratta piuttosto di pulirla, svuotarla del brutto e del superfluo, renderla accogliente. Ciò è possibile perché la coscienza è la sede dell’immagine di Dio, che è indistruttibile («La coscienza è poi eterna, non ha fine, così come non ha fine l’anima»), e a noi è data la possibilità di ricomporne la somiglianza, che invece assai facilmente possiamo dissipare. Gli strumenti che alternativamente possono dare adito allo smarrimento e alla dissipazione, o al discernimento e alla ricomposizione sono la memoria, la ragione e la volontà.

Tre facoltà che non devono separarsi, bensì cooperare: «La ragione sia quindi senza errore, per potersi ben conformare alla volontà: così la predilige, infatti, la stessa volontà. La volontà sia senza iniquità, poiché così l’approva la ragione. Altrimenti, se l’anima accusa se stessa di avere una volontà depravata, riguardo a una cosa che la ragione approva, si avrà guerra intestina e discordia pericolosa. […] Anche la memoria sia senza macchia; non rimanga in lei alcun peccato che non sia cancellato grazie alla confessione e a convenienti frutti di conversione. Altrimenti la coscienza, nella quale il peccato resta nascosto, sarà odiata dalla volontà e maledetta dalla ragione». Non è difficile vedere come anche un non credente possa addentrarsi in queste distinzioni, traendo ispirazione, se così si può dire, dal concetto dell’immagine come «nucleo di bene» che possiamo rintracciare in noi, anche ignorandone l’origine; oppure ritrovare il senso di quella «guerra intestina».

E come non riconoscere, per fare un altro esempio, l’efficacia della descrizione dei quattro generi di coscienza: buona e tranquilla, buona e turbata, cattiva e tranquilla, cattiva e turbata. La prima è quella dei santi, o comunque di chi «è dolce con tutti e non è di peso a nessuno», di chi «si serve dell’amico per la grazia, del nemico per la pazienza, di tutti per volere il bene». Una coscienza siffatta, commenta l’Anonimo, «è come un uccello raro sulla terra». La seconda è quella di coloro che «sono preda delle tribolazioni del corpo e dell’anima, ma non cedono né recedono nella tribolazione», che guardano con apprensione al futuro e ripensano – aggiunge Bernardo – «con amarezza agli anni passati». La terza è quella di chi «non teme Dio e non rispetta l’uomo», quella «di coloro che peccano sperando in bene» («è la coscienza, soprattutto, degli adolescenti», commenta Bernardo). La quarta infine è quella dei disperati (che disperano della salvezza) e di chi è tormentato dal senso di colpa: «Per esempio», dice l’Anonimo, «qualcuno desidera per il godimento l’adulterio, ma in questo è colto dall’ansia; e quest’ansia è ben più grande del godimento, a tutta vergogna e angoscia dell’uomo che vive e sa [sapit] secondo l’uomo».

Sono soltanto un paio di spunti da un libro che ne dispensa a iosa, e che offre soprattutto l’occasione di rinnovare l’attenzione su di un «luogo» in cui «accade» gran parte di ciò che ci riguarda, o che ci dovrebbe riguardare, e in cui forse è possibile anche agire, e non soltanto sentire: «La coscienza infatti è la gloria o la confusione inseparabile di ciascuno, secondo la qualità di ciò che vi è stato depositato».

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  1. La sapienza del cuore. La coscienza al cuore della vita spirituale in alcuni testi monastici del XII secolo, a cura di R. Larini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 1997.

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«Un po’ come Dio» (La «Vita di san Bernardo» di Robert Thomas)

VitadiSanBernardo02 Così come tendo a leggere le opere di autori monastici senza troppo riguardo alla cronologia, come se fossero il frutto di un eterno presente del fatto monastico, allo steso modo mi comporto con la relativa letteratura critica e storiografica. Non è molto giusto, lo so, ma ugualmente non rinuncio a leggere libri che potrebbero dirsi «superati», in particolare le biografie, per il piacere di «stare in compagnia» dei loro soggetti. E quindi ben venga aver trovato questa Vita di san Bernardo, scritta dal trappista Robert Thomas1, monaco del 1928 al 2002 di Sept-Fons (di cui fu anche priore) e fondatore dell’iniziativa editoriale «Pain de Cîteaux», dedicata alla divulgazione delle opere dei padri cistercensi. Quanto poi sia «superata» non saprei nemmeno dire, mentre di sicuro è caratterizzata da un abbondante, e per l’epoca relativamente nuovo, uso di citazioni, sia dalle opere di san Bernardo, sia da quelle dei suoi primi biografi. Ne risulta una bella camminata al suo fianco, dal noviziato a Cîteaux («i pochi mesi in cui sarà un semplice monaco») alla fondazione e all’abbaziato a Clairvaux, e poi in giro per la cristianità, ascoltando la «voce» dei suoi trattati, dei sermoni e delle lettere.

Al di là dei suoi mirabili scritti, ampiamente esposti dal Thomas, sono tanti i particolari che, come ogni ben disposto lettore di agiografie, un po’ mi inquietano e un po’ mi affascinano. Nel 1112, quando bussa a Cîteaux, per chiedere di esservi ammesso, si presenta con trenta compagni: tutti i fratelli, meno uno, troppo giovane, uno zio, un po’ di cugini e diversi amici. Quando alcuni parenti lo vanno a trovare a Cîteaux, ancora novizio, per non ascoltare i loro discorsi frivoli e «mondani» si mette della stoppa nelle orecchie e fa finta di ascoltare. Quando i suoi confratelli, tra le vigilie e le lodi, si ritirano per riposare, lui esce nelle campagne circostanti l’abbazia e continua a pregare, da solo. Se mangia «è per evitare di cadere, di avere un mancamento. Ancor prima di incominciare, al solo pensiero che deve mangiare, è già sazio». Non si dà pace finché tutti i membri della sua famiglia, a parte la madre Aleth, «volata in cielo», non sono entrati in un monastero, compresa Umbelina, l’unica sorella, «sposata e che non pensava affatto alla vita monastica». La sua cella a Clairvaux è un bugigattolo, «somigliava a una prigione; la scala ne prendeva un angolo, il tetto, con un piano inclinato, ne mozzava ancora un lembo». «Egli aveva l’abitudine di muoversi dal proprio stallo per risvegliare un monaco che vedeva un po’ addormentato in coro.» Solo nel 1133 visita il paese di Vaud e le abbazie di Alps e Hautecombe; raggiunge papa Innocenzo II a Pisa, poi va in missione a Genova, quindi ritorna dal papa a Grosseto; in aprile è a Roma, a giugno a Blois, poi a Bèze e in autunno a Jouarre… Quando sta tornando «a casa», i suoi confratelli gli vanno incontro, «si precipitano ai suoi piedi, si rimettono in piedi per abbracciarlo, poi lo conducono con gioia a Clairvaux intrattenendosi con lui… La gioia era calma, e senza dissipazioni…» Quando muore il suo amato fratello Gerardo non versa una lacrima, ma il giorno dopo, durante il sermone, non resiste: «Perché mi sei stato strappato? Come sei stato strappato bruscamente dalle mie mani, tu, che facevi con me un’anima sola, tu, l’uomo secondo il mio cuore!» E così via.

Unico e inconfondibile Bernardo: ispirato, incendiario, talvolta sbrigativo e tagliente, avversario da temere e amico da amare senza riserve. È un po’ sciocco dirlo, ma come mi sarebbe piaciuto poterlo incontrare: «È gracile, non ha salute, ma il suo viso, i suoi occhi soprattutto impressionano, attirano, soggiogano. Ha l’aria timida e non ha paura di nessuno. Ha uno strano potere di affascinare. Qualcosa di divino emana dalla sua persona, incute soggezione e attira: è un po’ come Dio, al tempo stesso temibile e affascinante». Oggi come allora.

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  1. Robert Thomas, Vita di san Bernardo, traduzione del Monastero di San Giacomo di Veglia, Borla 1991 (trad. di Vie de Saint Bernard, O.E.I.L. 1984).

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Tre guerre, tre paradisi, tre inferni (e finale con tamburelli)

Non si sa mai dove si va a finire quando si segue il filo delle note e delle citazioni…

Stavo leggendo, finalmente, la Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx quando, seguendo appunto il concetto di «reclusione», «esclusione», «separazione», e il richiamo del numero 3, sono finito su un breve detto del «padre» del monachesimo, che alla dimora nel deserto, forma primaria di separazione dal «mondo», associa la fine di tre delle grandi «guerre» che ci devono impegnare. «Chi abita nel deserto e vive nella quiete», dice infatti abba Antonio, «è liberato da tre guerre: quella dell’udito, quella della parola e quella della vista. Gliene resta una sola: quella del cuore.» La reclusione è quindi strumento efficacissimo per concentrarsi sul «combattimento spirituale» decisivo. Favorendo il quale, la cella e il chiostro, allora, derivazioni dirette del deserto delle origini, rappresentano una parziale anticipazione della condizione di beatitudine che attende il fedele penitente. Sono in qualche misura una forma di paradiso. Anzi tre, come dice un anonimo del XII secolo scovato da Jean Leclercq: «Il paradiso della Chiesa ha tre paradisi: il paradiso dell’eremo, il paradiso del chiostro e il paradiso della reclusione, cioè del recluso». E possono anche essere chiamati paradiso «perché in essi ci si dà alla lectio, alla meditazione, all’orazione, alla compunzione e alla contemplazione». In pieno accordo con Guglielmo di Saint-Thierry, che accomuna cielo e cella alla medesima sorgente, precisando che «sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle. E che cos’è? È dedicarsi a Dio, godere di Dio». Antonio non sarebbe stato d’accordo con questo sviluppo, e non lo era san Bernardo, che ci richiama invece alla moltiplicazione degli inferni, compreso quello claustrale. In uno dei Sermoni vari, quello per l’Avvento, l’abate di Chiaravalle dice che «c’è infatti un triplice inferno». Il primo è quello della punizione, della pena senza remissione, dove non si condona niente a chi ha offeso Dio: è quello dell’esazione, «perché vi si esige fino all’ultimo spicciolo». Il secondo è quello dell’espiazione, in altre parole il purgatorio, «destinato alle anime che devono purificarsi». Infine il terzo, quello dell’afflizione e della «povertà volontaria», dove chi rinuncia al mondo anticipa la penitenza «così da non passare dalla morte al giudizio, ma dalla morte alla vita». In questo «inferno beato della povertà» nacque, visse e morì Gesù stesso, e vi raduna quelli che sottrae alla perdizione. Ma non solo: «In questo inferno ci sono giovani adolescenti [adulescentulae novae], cioè le anime degli incipienti, fanciulle che suonano tamburelli [iuvenculae profecto tympanistriae], con gli Angeli principati che le precedono con cembali armoniosi e le seguono con cembali di giubilo».

E così, partito dal deserto, sono finito in mezzo a un corteo di ragazze e angeli musicanti…1

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  1. La citazione di Antonio viene dai Padri del deserto, Detti. Collezione sistematica, II, 2, a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2013, p. 95; l’anonimo del XII secolo è citato da J. Leclercq in un articolo del 1943 segnalato da Domenico Pezzini nell’introduzione a Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, Paoline 2003, p. 11; il parallelismo di Guglielmo di Saint-Thierry si trova nella Lettera d’oro. Lettera ai fratelli del Monte di Dio¸ introduzione e note di G. Como, traduzione di D.  Coppini, Paoline 2004, p. 158; il sermone di san Bernardo si può leggere in Sermoni diversi e vari, introduzione di J. Leclercq, traduzione e note di D. Pezzini (Opere di San Bernardo, IV), Scriptorium Claravallense, Città Nuova, 2000, pp. 631-647.

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Come in una pentola che bolle (Dice il monaco, C)

(Per il centesimo «Dice il monaco» la parola non può che andare ancora una volta a san Bernardo, che di questi appunti è un po’ il nume tutelare. E quindi…) Dice Bernardo di Chiaravalle, monaco e abate cisterciense (1090-1153), commentando il Cantico dei Cantici:

C’è, dunque, un unguento che l’anima, irretita nelle proprie colpe, produce per se stessa. Infatti, quando inizia a scrutare le proprie vie, raccoglie, riunisce e pesta nel piccolo mortaio della coscienza le molte e varie specie dei propri peccati e, all’interno del proprio cuore, come in una pentola che bolle, cuoce tutto insieme, con una specie di fuoco generato dalla penitenza e dal dolore… Ecco, questo è l’unico unguento con il quale l’anima peccatrice deve addolcire gli inizi della propria conversione e che deve applicare alle sue piaghe recenti: il primo sacrificio a Dio, infatti, è uno spirito contrito.

♦ Bernardo di Chiaravalle, Sermone X, 5, in Sermoni sul Cantico dei Cantici, introduzione di J. Leclercq, traduzione e note di C. Stercal, con la collaborazione di M. Fioroni e A. Montanari, parte prima («Opere di San Bernardo» V/1), Città Nuova 2006, p. 129.

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