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«Anche a prezzo di apparenti contraddizioni» (Louis Bouyer, pt. 2)

(la prima parte è qui)

No, prima di passare alla «pratica» voglio soffermarmi su un altro capitolo che il teologo Louis Bouyer dedica alla «teoria» della vita monastica. È intestato al Cristo ed è anch’esso pieno di definizioni del genere «il monaco è…», «il vero monaco è…», come questa: «Il monaco ideale, si potrebbe dire, è dunque il monaco che Cristo ha completamente svuotato del suo io, per prenderne il posto».

Come ho già ricordato, Bouyer invita a sostituire il consueto riferimento all’imitazione con quello più corretto di assimilazione. È l’ansia di assimilazione che spinge il monaco ad anticipare la morte – quella dell’io, attraverso penitenza e spoliazione – per essere compartecipe anche della resurrezione. Se il Cristo è il Risorto, il monaco che vuole assimilarsi a lui, cerca di metterne in atto, già nel transito terreno, la medesima dinamica. Secondo Bouyer, tra l’altro, qui va rintracciata «quella che si potrebbe chiamare “la mistica del monachesimo”», che ruota intorno al concetto del «corpo di Cristo», quello fisico (eucaristico) e quello mistico (la Chiesa). Il monaco vuole tutto subito, il prima possibile, e quindi rinuncia, «muore a se stesso», per intravedere sin d’ora qualcosa dell’«ultimo giorno».

Di fronte alla dimensione del «mistero», in cui si inoltra questo discorso, non ho nulla di sensato da dire; trovo però interessante il fatto che Bouyer stesso ricordi l’obiezione più ovvia, e ancor più interessante – e inaccettabile – il modo in cui vi si sottrae. Se la morte a se stessi è il fulcro della vita del monaco, e della «vita del cristiano perfetto», ciò significa che la nostra personalità distinta, che pure è creazione di Dio, si annienta? Assolutamente no: «Se da un lato è vero che la vita monastica implica la mortificazione di ogni individualismo, ed esige che sia messo a morte anche l’io [corsivo mio], essa però conduce alla liberazione e alla fioritura definitiva della persona [un’eco marxista?]: cioè sia delle nostre persone, e della creazione intera, sia della persona escatologica la cui realizzazione finale deve anzi fornire alla storia il suo significato».

E come è possibile ciò? È possibile, ma non è dato dire come: le parole non bastano, «vacillano», ma «anche a prezzo di apparenti contraddizioni, non bisogna accettare di sacrificare nessun aspetto di questa meravigliosa realtà». Anche qui il corsivo è mio, e a esso sia affidato tutto il mio sconcerto.

La personalità autentica, conclude in crescendo Bouyer, sta «nell’essere creato che ha rinunciato alla nefasta autonomia del peccato» (un’espressione che meriterebbe un’analisi approfondita) e che si dispone a seguire il Cristo in una «collettività unanime». Di questa singolare entità, che attira e insieme spaventa, il monastero rappresenta l’avanguardia: luogo, stando alle descrizioni di Bouyer, senza dubbio eccezionale e popolato da acrobati miracolosamente sospesi su un abisso di contraddizioni.

E adesso passiamo veramente alla pratica.

(2-continua)

Louis Bouyer, Il senso della vita monastica, prefazione di L. D’Ayala Valva, traduzione di L. Marino, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2013.

 

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Massima urgenza (Louis Bouyer, pt. 1)

«Questo libro si rivolge innanzitutto ai monaci»: l’incipit del libro del teologo francese Louis Bouyer suona come un avvertimento, e d’altra parte come evitare di confrontarsi con un testo che si intitola, unendo semplicità e ambizione al grado massimo, Il senso della vita monastica?

Pubblicato per la prima volta nel 1950, e in edizione riveduta nel 1962, il volume è stato ripresentato dalle Edizioni Qiqajon l’anno scorso. Sono poco meno di trecento pagine fitte e ugualmente dense di concetti, analisi e riferimenti, senza una frase superflua – una lettura impegnativa, a tratti ardua, e di enorme soddisfazione, non foss’altro per l’opportunità che dà di misurarsi con un pensiero solido, articolato, profondo e poco accondiscendente. Il fatto che il volume nasca da una serie di «conferenze ai monaci» effettivamente predicate, da un uomo di fede che non era monaco e che tuttavia parla alla prima persona plurale, aggiunge un ulteriore significato di partecipazione e urgenza. Urgenza che peraltro è la dimensione che ricorre periodicamente nell’esposizione, a partire dal prologo: «La vocazione del monaco non è altro che la vocazione del battezzato, ma vissuta nella dimensione, si potrebbe dire, della massima urgenza».

Noto, tra parentesi, come nella letteratura monastica, sin dalle origini si può dire, uno dei temi più ingrossati sia proprio quello dell’identità. Chi è un monaco, o chi non lo è, è una domanda che tutti i monaci scriventi si sono posti e riposti con insistenza, come se l’apparente semplicità della loro condizione li spingesse poi a un’inesausta esplorazione delle sfumature concrete di tale condizione, non disgiunta dalla preoccupazione pressante di poter rispondere alla conseguente domanda: ma io, sono un vero monaco? Da questo punto di vista, il libro di LB, oltre a essere una monumentale risposta, seppur da collocare nel suo contesto storico, è anche un repertorio di clausole che cominciano con le parole «il vero monaco è…» (tanto che varrebbe la pena di raccoglierle a parte).

Il volume è diviso in due parti: teoria e pratica. Della prima parte, dedicata alla teologia della vita monastica, non dirò nulla, perché ciò richiederebbe competenze e una fede che non ho. Mi limito a tenere presenti due cose. Anzitutto i cardini sui quali si impernia detta teologia, che mi pare di poter individuare nella chiamata del Dio padre («una parola di Dio, la parola che annuncia il vangelo, un giorno è penetrata nel nostro cuore. Improvvisamente abbiamo compreso di essere noi i chiamati. E siamo partiti alla ricerca di colui che chiamava») e nella assimilazione («il termine “imitazione” è insufficiente») al Cristo.

La chiamata sollecita una risposta, che si traduce in una ricerca la cui durata si estenderà sino al limite della vita terrena, ma «ciò che egli [il monaco] cerca, se è veramente monaco, non può essere un qualcosa, ma un Qualcuno». L’assimilazione al Cristo sollecita invece, lungo la strada, il passaggio attraverso la morte per raggiungere una vita nuova. È una «morte» che, prendendo le forme della mortificazione, ha un significato tutt’altro che simbolico, ed è questo il secondo aspetto che tengo a mente. Cioè che non esiste una vera distinzione tra teoria e pratica della vita monastica: «In questa prima parte, dove esaminiamo la teoria, l’essenziale è insistere sulla dimensione di realismo di tutte queste esigenze… Ciò che distingue il monaco dal cristiano che non è monaco è proprio il fatto che egli si impegna alla rinuncia non soltanto in via di principio […], ma nella realtà, con un effetto il più possibile immediato».

Noto anche come l’autore si soffermi spesso sulle obiezioni che si possono muovere al suo pensiero e come sia ben consapevole della portata delle sue affermazioni contro il senso comune («questa corsa incontro alla morte in apparenza così scandalosa»), e vi risponda fin dove gli pare possibile, cioè fino alla domanda: perché il Padre ha chiesto al Figlio di morire? Qui, dice, LB, «siamo arrivati al cuore del mistero e non c’è nessuna soluzione razionale che ci possa soddisfare. Bisogna solamente accettare il mistero». Nondimeno, «per accettarlo bisogna sondarne la profondità».

E con questo passo alla parte pratica.

(1-continua)

Louis Bouyer, Il senso della vita monastica, prefazione di L. d’Ayala Valva, traduzione di L. Marino, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose 2013.

 

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Chi cerca, cerca

Il dinamismo della vita monastica, e la sua apparentemente paradossale convivenza con una dimensione come quella della stabilità, di cui parlavo negli appunti della settimana scorsa, ha trovato un’interessante eco nella lettura che ho iniziato qualche giorno fa: Il senso della vita monastica, di Louis Bouyer. È un testo di grande rilievo, datato 1950 e opera di colui che è «forse uno dei teologi più importanti del Novecento, sebbene… probabilmente meno conosciuto di altri al grande pubblico».

Scrive infatti Bouyer nel denso capitolo iniziale, «Cercare Dio», che «di questo dinamismo che anima la vita monastica – perché come si può constatare, è essenzialmente un cammino e non uno “stato” – Agostino di Ippona ci ha lasciato un’immagine impareggiabile». L’immagine di Agostino è l’Esposizione sul Salmo 42, «Come il cervo anela alle fonti dell’acqua», ma ciò che mi interessa qui è piuttosto quello che Bouyer dice a proposito del «cammino». Mi attira molto questo paradosso di febbrile stabilità, nella quale la semplicità ottenuta per sottrazione, anche di movimento (il «sacro» movimento della modernità; e soprattutto nella declinazione benedettina) diventa il trampolino di un dinamismo, appunto, cui tra l’altro Bouyer attribuisce il carattere di massima urgenza: «La vocazione del monaco non è altro che la vocazione del battezzato, ma vissuta nella dimensione, si potrebbe dire, della massima urgenza». Esiste forse un luogo nel quale l’urgenza sembrerebbe bandita maggiormente che in un monastero?

Ma di quale urgenza si tratta? Bouyer passa in rassegna alcuni elementi che non sono affatto estranei alla vita monastica, ma che non ne rappresentano l’essenza. Il cammino del monaco non è prima di tutto, o soltanto, contemplazione, o penitenza (che ne è semmai il punto di partenza), o celebrazione, o conoscenza, o apostolato (e tanto meno proselitismo, in singolare assonanza con una delle prime e più decise affermazioni di papa Francesco: «Il proselitismo è una solenne sciocchezza. Non ha senso»). L’urgenza del monaco è la ricerca, e «ciò che egli cerca, se è veramente monaco, non può essere qualcosa, ma Qualcuno», cioè Dio, che va cercato come persona, «come la persona per eccellenza, e non solo come il “tu” sul quale riversare tutto il nostro amore, ma come l'”io” che si è rivolto a noi per primo, colui la cui Parola d’amore rivolta al nulla ci ha tratti dal nulla una prima volta, e rivolta al nostro peccato ci trae fuori dal nulla una seconda volta: essere monaco non è nient’altro che questo».

Una Persona che ha chiamato e poi si è allontanata, si direbbe, stando alla precisazione che Bouyer ricava da Gregorio di Nissa: «Trovare Dio significa cercarlo senza sosta». Il rozzo materialista che è in me segue con attenzione, ma fa molta fatica, ed è giusto così. Diffido un po’, infatti, di quei giochi di parole secondo i quali, ad esempio, il senso della domanda sarebbe la domanda stessa e non la risposta. Il rozzo materialista, se viene chiamato al telefono, dice «pronto», e si aspetta che dall’altra parte qualcuno risponda.

Louis Bouyer, Il senso della vita monastica, prefazione di L. D’Ayala Valva, traduzione di L. Marino, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2013.

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