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«Nei monasteri fiorentini» (pt. 3)

(la prima parte è qui, la seconda qui)

Le storie gustose sono tante, e non poche infatti sono poi confluite nella novellistica coeva. Come quella del braccio di santa Reparata, fatto venire dal monastero di Teano e scopertosi poi essere di legno, citata in una novella di Franco Sacchetti, o quella del dito di sant’Anna, rubato e poi restituito alle monache del convento di Sant’Anna sul Prato (solo che miracoli non ne faceva più, sicché «lo fecero esaminare da alcuni competenti, i quali riferirono che non si trattava nemmeno di un osso umano»). Ma la più divertente è quella appunto di Buffalmacco e delle monache di San Giovanni Evangelista, raccontata dal Vasari (che forse non sarebbe nemmeno il caso di parafrasare…).

Protagonista di numerose novelle del Boccaccio, Buonamico di Martino, il Buffalmacco, non è pittore che badi particolarmente alla forma e, lavorando per le monache del Monastero delle Donne di Faenza (fondato dalla beata Umiltà), agli inizi del XIV secolo, non si preoccupa di vestirsi da «maestro», tanto che le religiose, spiandolo dal telo che copre il «cantiere», cominciano a pensare che non sia pittore di fama, bensì un «qualche garzonaccio da pestar colori».

La badessa non si trattiene e si rivolge al giovane in farsetto, dicendogli che ogni tanto gradirebbero vedere all’opera anche il maestro. Buonamico, «uomo faceto e di piacevole pratica», promette di avvisarle non appena egli verrà e, per impartire una lezione alle monache diffidenti, architetta un «posticcio maestro» con una pila di brocche e stoviglie, lo riveste di mantello con cappuccio, gli fissa un pennello e se ne va. Le monache, soddisfatte, si tranquillizzano, «onde da una banda cansando la turata della tela, vedevano il maestro dell’opera, che pareva che dipignesse». Alla fine però sono prese di nuovo dalla curiosità di vedere come procedono i lavori e una notte, avvicinatesi all’altare coperto, «rimasero tutte confuse e rosse nello scoprire il solenne maestro che in quindici dì non aveva punto lavorato». Scoperto l’inganno, e appresa la lezione, vergognose fanno richiamare il pittore, «il quale, con grandissima risa e piacere, si ricondusse al lavoro, dando loro a conoscere che differenza sia dagli uomini alle brocche»: l’abito non fa il monaco, proprio voi, sorelle, dovreste saperlo!

Tutto a posto. Il lavoro riprende, con soddisfazione delle committenti, salvo che le monache trovano un po’ pallide e «troppo smorticce» le figure. Udito il reclamo, Buonamico si ricorda di aver sentito che la badessa conserva una scorta di vernaccia molto buona, per usi sacri, e le manda a dire che il difetto si può facilmente correggere, a patto di «stemperare i colori con vernaccia che fusse buona»: allora sì, vedreste che colorito!

«Ciò udito le buone suore che tutto si credettono, lo tennero sempre poi fornito di ottima vernaccia, mentre durò il lavoro, ed egli, godendosela, fece da indi in poi con i suoi colori ordinarj le figure più fresche e colorite.»

(3-fine)

(Enrica Viviani della Robbia, Nei monasteri fiorentini, Sansoni 1946; disponibile anche su Internet Archive.)

 

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«Nei monasteri fiorentini» (pt. 2)

(la prima parte è qui)

E visto che ho parlato di elenchi, diamo un’occhiata a questo, interessantissimo, tratto dal Libro di Ricordanze di Santa Verdiana del 1568 e che riporta «la nota della roba che le monache dovevano portare con sé nell’entrare in convento», la dote. Anzitutto il letto, sì, il letto «con saccone, Materasse, Coltrice, Piumaccio et dua Guanciali»; e ancora «uno Coltrone; una mezza Coltre; una Coltre a bottoncini; un Panno Lano bianco»; poi una quantità ragguardevole di stoffa di varia natura, tra cui 10 braccia di Perpignano monacile, 20 di Sventone bianco, 20 di Tela bottana azzurra, 60 di Panella da soggoli; sempre alla voce biancheria: 14 fazzoletti da capo e 20 da collo, 12 asciugamani e 25 tovagliolini; per l’arredamento: una seggiola e uno sgabello, «un quadro di Vergine: un Crocifisso di rilievo»; a corredo: 12 libbre di candele bianche, un breviario, un catino una cintura di cuoio, un paio di forbici grande, «una Scodella, uno Scodellino, un Piatto, ogni cosa di stagno; un quchiaio e una Forchetta d’argento per quando sono inferme». Senza dimenticare la dotazione specifica per la «sacratione», consistente in altri chilometri di stoffa, un esercito di candele e «una scatola di lb VI di confetto. Sei Pinocchiati di lb. 1/2 l’uno. Dieci fiaschi di Trebbiano e cento Berlingozzi. Dua lb. di Zuchero fine. Dieci ducati per la Pietanza». Una montagna di roba.

Già, la pietanza: «Ogni evento, allegro o triste, era celebrato con l’immancabile pietanza!», che spesso rappresentava un problema economico non da poco, soprattutto per le comunità meno beneficate. Sempre a Santa Verdiana, nel 1452, questa era la pietanza per la festa del fondatore dell’Ordine vallombrosano, Giovanni Gualberto: «Quindici taglieri per trenta religiose alle prime e alle seconde mense, trebbiano e susine e ciriege, e di poi vitella: libbra cento dodici e paia cinque di capponi e lingue e raviuoli e lacto con zuchero e cialdoni… [e alla sera] paia due di paperi e tre paia di polli e tre di pippioni e solecio». «Questi pranzi e rinfreschi erano arrivati a un tal segno, che per non andare in rovina, le monache dello stesso convento dovettero ricorrere nel ‘600 all’arcivescovo, supplicandolo di fare una specie di riforma interna, che fu detta appunto di moderazione.»

Oltre che di cibo, i Libri sono pieni anche di note economiche: spese di restauro, spese di conduzione degli edifici e degli annessi (il rinnovo dell’altare per 278 ducati; 14 scudi al fattore-ortolano e 7 al suo giovane aiuto; 46 scudi di lire 7 per scudo per la campana che «il 1° novembre 1591 suor Maria Benedetta Cicciaporci fece fare con la sua dota o entrata»); spese per i mortori, cioè il «desinare funebre»; registrazioni dei disobblighi («Se qualche famiglia voleva, per una ragione o un’altra, fare dispensare qualche sua congiunta dalla levata del Mattutino o dagli altri uffici che incombevano a turno su tutte le religiose, bastava che versasse una somma a parte, detta di disobbligo, fra i 100 e i 170 scudi»); spese per gli addobbi…

E poi le spese per le opere d’arte, «poiché le badesse si facevano un vanto di ornare e abbellire la loro chiesa, ricorrendo ai più provetti artisti del tempo», e in effetti nella Firenze del Trecento, del Quattrocento e del Cinquecento, anche a scegliere frettolosamente non si rischiava la mediocrità. Magari qualche problema poteva nascere dall’ingenuità delle claustrali, qualche problema o qualche burla, come quella raccontata dal Vasari a proposito di Buonamico Buffalmacco e delle monache di San Giovanni Evangelista.

(2-continua)

(Enrica Viviani della Robbia, Nei monasteri fiorentini, Sansoni 1946; disponibile anche su Internet Archive.)

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«Nei monasteri fiorentini» (pt. 1)

Francesco Botticini,"Santa Monica circondata dalle suore agostiniane" (1470; Firenze, Chiesa di S. Spirito, part.)

Francesco Botticini, “Santa Monica circondata dalle suore  agostiniane” (1470; Firenze, Chiesa di S. Spirito, part.)

Ho accennato qualche tempo fa a un libro che mi è piaciuto molto: Nei monasteri fiorentini di Enrica Viviani della Robbia. Pubblicato nel 1946 da Sansoni, nei piani doveva essere il primo di una serie ed era nato dallo spoglio delle «carte dei monasteri soppressi conservate all’Archivio di Stato di Firenze». L’autrice, discendente di una storica famiglia fiorentina di origine trecentesca, giocava a suo modo in casa, annoverando tra le sue antenate anche una Pietra d’Andrea Viviani Gennaj (poi della Robbia) che era stata tra le cinque «nobilissime matrone» che avevano fondato il monastero di San Giovannino delle Cavalieresse di Malta e ne era stata la prima Commendatrice nel 1391.

L’intento dichiarato del volume è restituire, anche con larghezza di citazioni, lo spirito della vita quotidiana delle numerosissime comunità di monache che costellavano Firenze in età medioevale e moderna, seguendo le cronache dei Libri di Ricordanze e cercando di andare al di là delle immagini e dei pregiudizi consueti (un merito che anche la storiografia recente riconoscerà a Enrica Viviani). Sì, numerosissime: «I conventi femminili nel Cinquecento erano 45, nella sola Firenze, senza contare quelli dei dintorni (un complesso di 4340 suore), ma nel Seicento salirono a 63».

Il risultato è un pozzo senza fondo di informazioni, storie, aneddoti, nomi, curiosità; ma prima di procedere devo confessare, soprattutto a me stesso, il perché di tanta passione, che mi ha spinto addirittura a recuperare una copia cartacea presso una libreria antiquaria. Lo ammetto, ho letto  Nei monasteri fiorentini con lo stesso piacere di pura evasione che un appassionato di fantasy nutre quando s’imbatte in una saga particolarmente riuscita. Mi è piaciuto perché è scritto in un bell’italiano antiquato, mi è piaciuto perché ho condiviso la stessa curiosità dell’autrice a ogni scoperta, mi è piaciuto perché contiene il Tempo, mi è piaciuto perché «sfogliando le carte dei vecchi monasteri, la cosa che ci colpisce maggiormente, forse perché in così assoluto contrasto con i tempi che stiamo vivendo, è il senso di stabilità che le anima, la sicurezza in una continuità che nulla avrebbe mai potuto variare… Ogni minimo evento era scrupolosamente segnato dalle croniste, seguitando a ordire una tela di memorie che avrebbe dovuto seguitare all’infinito, come quei tanti rotoli di canapa e di lino che si accatastavano negli armadi del convento pei bisogni delle generazioni monastiche del futuro»: un sentimento regressivo, è inutile nasconderlo.

Ammesso quanto era da ammettere, posso abbandonarmi, per cominciare, al piacere dei nomi. Quelli delle congregazioni: le Murate, le Stabilite, le Pinzochere, le Poverine, le Convertite; quelli delle monache: suor Fioretta, suor Cedrinella, suor Luminata, suor Celeste, suor Purità, suor Colomba, suor Maria Minima… (e anche quelli di qualche laico come Diomicitidiede di Buonagiunta del Dado); quelli delle cariche principali: la Camarlinga dello scrittoio, la Celleraia velata, la Celleraia suora, la Speziala, l’Infermiera, la Cottora, la Rotara, la Sarta, la Pollaiola, la Refettoriera. E subito dopo a quello degli elenchi, come questo per l’Ufizio della Spezieria del monastero di Santa Verdiana: «La Spezieria del Convento deve a tutta sua spesa provvedere le monache di tutto quello che si possa manipolare in detta, cioè Sciroppi, Medicine, Solutivi di tutte le sorte, bocconi di Lattovarj, Pillore, tutta la Cassia; Sciarappa, Regina di Sciarappa, Diagridi, Tartaro Vetriolato, Acqua del Tettuccio, numero otto Vescicatori, Spirito di Vetriolo, Cremor di Tartaro e così simili».

Irresistibile, no?

(1-continua)

(Il volume è disponibile online in vari formati su Internet Archive.)

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«Il primiero vomito delle lascivie»

Sto leggendo un libro molto bello di Enrica Viviani Della Robbia, Nei monasteri fiorentini, pubblicato da Sansoni nel 1946, pieno zeppo di informazioni e curiosità sulle comunità monastiche femminili cinque-seicentesche, tratte da fonti d’archivio. Ne parlerò, ma non so resistere a riportare i titoli di due opuscoli inerenti al mondo dei monasteri delle Convertite, separati l’uno dall’altro di qualche mese.

Il primo è questo:

Conversione della Maria Lunga detta Carrettina meretrice famosa in Firenze, la quale essendo stata peccatrice oltre vent’anni per penitenza de’ suoi peccati havendo dato il suo avere ridotto a denari per l’amor di Dio, si è ritirata a servire alle misere Donne del Lazzeretto. Azione dispiegata in tre capitoli con obbligo di descrivere in ogni ternario almeno un verso del Goffredo del Sig. Torquato Tasso. Composizione del Dott. Giulio Guazzini. In Firenze 1633, per Zanobi Pignoni.

E qualche mese dopo:

Palinodia in ritrattazione delle lodi già fatte per la Maria Lunga Meretrice Fiorentina nella sua infruttuosa Conversione, la quale dopo l’essere stata volontaria penitente de’ suoi lussi per dieci mesi a servire nel Lazzeretto, per nuovo esempio d’incontinenza è ritornata al primiero vomito delle lascivie. Il che si ritratta con lo stesso obbligo d’un verso almeno del Goffredo del Sig. Torquato Tasso in ogni ternario, del medesimo Dott. Giulio Guazzini, che ne avea composte le lodi intempestive, le quali è parso bene darsi in luce di nuovo avanti la Palinodia per maggiore intelligenza di essa. In Firenze 1633, per Zanobi Pignoni.

Scopro che la curiosa doppietta aveva già colpito l’avvocato e scrittore toscano Narciso Feliciano Pelosini (1833-1896), che nelle sue Amenità bibliografiche della vecchia Toscana (1871) l’aveva registrata e aveva commentato: «Che ti pare di questo titolo? Doveva essere il gran bell’umore il poeta dottor Guazzini! E mi svaga che il povero Tasso fa le spese alle lodi ed all’invettive; come se a lui importasse un fico e della Maria Lunga che vuole e disvuole, e del dottor Guazzini che loda e vitupera. Il mondo era bellino anche nel 1600, quando il Pignoni (nel 1633) stampava questi libri in Firenze».

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