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bernardus.abbas@clairvaux.fr

Tra il novembre del 1151 e il marzo del 1152 Pietro il Venerabile, abate di Cluny, compie un viaggio in Italia. Dopo essere passato da Venezia, per onorare san Marco e visitare un monastero associato a Cluny, prosegue verso Sud per incontrare papa Eugenio III (incontro che avviene a Segni, in febbraio), cui Bernardo di Chiaravalle aveva preannunciato la visita dell’abate cluniacense. Tornato a Cluny alla fine di marzo, e sbrigato il lavoro accumulatosi, Pietro scrive a Bernardo per raccontargli come è andata (si tratta della lettera 192 del suo epistolario, che alcuni studiosi datano al maggio 1152). Spesso, in vista della «pubblicazione», le lettere dei personaggi più illustri venivano riviste, ma in questo caso, eccezionalmente…

… disponiamo della minuta, o, più esattamente, della mail con la quale Pietro anticipa a Bernardo i punti principali del suo resoconto. E che comincia così:

* * *

A: Bernardo (bernardus.abbas@clairvaux.fr)

Da: Pietro (petrus.abbas@cluny.com)

Re: Trasferta italiana

Carissimo Bernardo, scusami.

Non me ne volere per il ritardo con il quale ti rispondo. Quando mi hai scritto ero sommerso dal lavoro, da una tale quantità di rogne che spuntavano da ogni parte (sei abate anche tu, sai a cosa mi riferisco), che potevo a malapena respirare, figurati scrivere. Immaginati una diga che si rompe, e l’acqua di un torrente che si riversa; poi, mentre ero in viaggio, si è formato un lago, quasi sconfinato, tanto che in quel momento mi veniva da gridare, come il Salmista: Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Così il ritardo si è accumulato, e proprio a te, cui sono tanto debitore di affetto, dolcezza, amicizia e attenzione – praticamente tutto –, non ho risposto. Lo faccio ora, che finalmente tiro un po’ il fiato, sperando che tra non molto potremo anche vederci, cosa che mi riempie sempre di gioia. [Pietro e Bernardo si incontrano effettivamente, a Cluny, probabilmente in giugno.]

Il viaggio è andato bene, sia lode al Signore che ci ha protetti: con la Sua grazia, il tuo sostegno e le preghiere dei tuoi (che sono sicuro sono state abbondanti), siamo andati e tornati sani e salvi, abbiamo ricevuto quello che il nostro cuore desiderava e le nostre richieste sono state esaudite. Hai presente Isaia? Direi che per noi, letteralmente, il terreno accidentato si è trasformato in piano e quello scosceso in pianura. Persino le Alpi e tutti quei posti dove la neve non va mai via sembravano aver dimenticato il loro orribile aspetto. L’aria, Bernardo, l’aria invernale che al ritorno in Gallia ho trovato più sgradevole del solito, carica di freddo e di pioggia, durante tutto il tempo che siamo stati in Italia, sia per terra sia lungo il fiume (e già, per qualche giorno e qualche notte abbiamo viaggiato in barca sul Po), è stata sempre piacevole e serena, a parte quattro o cinque giorni. Ci eravamo preoccupati per le strade fangose? Anzi, eravamo davvero spaventati dai racconti di quelli che ci avevano messo in guardia? Ebbene, le abbiamo trovate invece quasi sassose per la siccità.

Un paio di fratelli che viaggiavano con noi, uomini di vita pura e semplice, sono finiti in acqua, e li davamo già per spacciati quando, per miracolo (absit iniuria verbis) li abbiamo tirati fuori, per così dire, vivi dalle fauci della morte. E senti cosa è successo a me. Giunto nei pressi di un ponte, il mio mulo si è fermato, le zampe bloccate dal fango, come se fossero incollate (be’, sì, qualche volta le strade non erano del tutto asciutte, sai com’è). Così, contrariamente al mio solito (lo sai che sono molto, molto… prudente), sono sceso di sella e mi apprestavo a proseguire a piedi, quando sono scivolato e, niente, stavo per «finire nell’abisso». È stata la mano di Dio, la cui forza, va detto, si è aggiunta a quella del mulo, a salvarmi: in un baleno mi sono ritrovato di nuovo in piedi sul ponte. E così, a parte lo spavento, non mi sono fatto niente. Cioè, come sono partito, così sono tornato, ma non per la fortuna, bensì perché ho avuto il Signore sempre al mio fianco. Insomma, non mi è successo nulla, nulla che non volessi, se non per debolezza o addirittura morte degli animali, di cui, ahimè, Dio non si cura.

Tutto bene dunque lungo la strada, ma ancor di più presso il papa. L’ho trovato bene: buono all’inizio, migliore durante l’incontro, ottimo alla fine. Sì, ti devo confessare che l’ho trovato veramente ottimo, pieno di vigore e in gran forma apostolica, per dir così. E mentre l’espressione del suo volto cambiava a seconda delle circostanze, delle persone e degli avvenimenti, e ad alcuni sorrideva e ad altri non sorrideva affatto, nei miei confronti non si è mai mostrato diverso. Ti assicuro: come mi ha accolto all’arrivo, così era quando me ne sono andato. Ho anche notato che la faccia più austera o triste che spesso era costretto ad assumere per altri motivi, quando si rivolgeva a me, privatamente o pubblicamente, si trasformava dal cipiglio del giudice al sorriso del padre. Bene, dài…

* * *

♦ La lettera 192, quella vera, «all’illustre e singolare uomo del nostro tempo, signor Bernardo, abate di Chiaravalle», si trova nell’originale latino in The Letters of Peter the Venerable, edited with an introduction and notes by Giles Constable, vol. I, Harvard University Press 1967, pp. 443-48.

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«Questo era Abelardo»

Ha fatto tanto per lui, soprattutto alla fine della sua travagliata esistenza, si è prodigato anche per la sua Eloisa e, forse, per il loro figlio, e ne ha scritto, diligentemente, l’iscrizione tombale.

L’attribuzione dell’epitaffio di Abelardo a Pietro il Venerabile non è sicurissima, ma è plausibile e sostanzialmente accettata. Pare che, prima della Rivoluzione francese, gli undici esametri fossero ancora leggibili sulla parete della navata destra della chiesa del priorato cluniacense di Saint-Marcel a Chalons-sur-Saône, dove il filosofo era morto.

Non sono considerati particolarmente riusciti, ma mi piace immaginare il grande abate di Cluny, mai sciatto né distratto nelle sue testimonianze, che li ripassa, attento a bilanciare i due «Abelardi», quello famoso e brillante, che la storia ricorderà, e quello pio, che alla fine aveva chinato, più o meno, il capo. Ancora una volta siamo davanti a una grande prestazione diplomatica del Venerabile: cinque esametri e mezzo al primo Abelardo, cinque e mezzo al secondo (che tuttavia arranca un po’ e ha bisogno anche della data per pareggiare i pesi…).

Gallorum Socrates, Plato maximus Hesperiarum,

Noster Aristoteles, logicis quicunque fuerunt,

Aut par, aut melior; studiorum cognitus orbi

Princeps, ingenio varius, subtilis et acer,

Omnia vi superans rationis, et arte loquendi,

Abaelardus erat. Sed tunc magis omnia vicit,

Cum Cluniacensem monachum, moremque professus,

Ad Christi veram transivit philosophiam,

In qua longaevae bene complens ultima vitae,

Philosophis quandoque bonis se connumerandum

Spem dedit, undenas Maio renovante Kalendas.

Socrate dei Galli, massimo Platone degli Esperidi,

nostro Aristotele, di tutti i logici che mai esistettero,

pari o migliore; ovunque riconosciuto principe

degli studi; ingegno multiforme, sottile e penetrante,

superiore a tutto a forza di ragione e di parola:

questo era Abelardo. Ma ancor più superiore

quando, fattosi monaco secondo il costume di Cluny,

passò alla vera filosofia del Cristo,

nel cui giusto abbraccio concluse la sua lunga vita,

undici giorni prima delle calende di maggio, nella speranza

di essere un giorno contato nel novero dei santi filosofi.

Pierre le Vénérable, Poèmes, texte établi, traduit et commenté par F. Dolveck, Les Belles Lettres 2014, pp. 311-315.

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Tenere in mano del fumo (Cluny vs Cîteaux, 2)

Giovanni Cassiano affronta l’argomento intorno al 420, nelle Istituzioni cenobitiche (IV, 30 e segg.), e lo fa dapprima raccontando la storia dell’abate Pinufio, poi riportando le sue parole. L’argomento è l’ammissione di un novizio al monastero. Siamo in quel periodo di enorme interesse in cui la Regola si sta cristallizzando, in cui mille consuetudini provate sul campo stanno per trasformarsi in una norma prevalente. Rivolgendosi a un giovane, Pinufio dice: «Tu ti sei reso conto di quanti giorni sei rimasto alla porta del monastero per essere oggi ricevuto. Ed ora devi renderti ragione di questa tua attesa». Pinufio, da parte sua, aveva atteso «per un periodo abbastanza lungo» fuori del monastero di Tabennesi, poi aveva passato tre anni al servizio del fratello giardiniere, mentre gli altri monaci si domandavano se lui fosse adatto alla loro forma di vita.

Poco più di un secolo dopo Benedetto sistema la cosa con indicazioni precise. Nel capitolo 58 della Regola colui che bussa alla porta del monastero perché vuole farsi monaco aspetterà fuori «quattro o cinque giorni», poi starà «pochi giorni» nella foresteria, quindi entrerà in noviziato. Qui farà esperienza della forma di vita e verrà istruito, dopo due mesi gli verrà letta la Regola, poi altri sei mesi di noviziato, altra lettura della Regola, altri quattro mesi e terza lettura della Regola. In capo a un anno, quindi, dopo aver riflettuto, provato e capito cosa lo aspetta, sarà accolto.

Passano i secoli e, com’è naturale, secondo alcuni, la regola si allenta. A Cluny pare che accolgano subito chi ne fa richiesta, senza seguire tutta la trafila. I cisterciensi, che si vogliono paladini del ritorno alla vera osservanza, puntano il dito contro i cluniacensi: «Voi non seguite la Regola», fate di testa vostra (ovviamente la vicenda è più sfumata). La polemica va affrontata prima che degeneri e Pietro il Venerabile, abate di Cluny, scrive a Bernardo, ricapitolando i punti della contesa (venti) e rispondendo alle accuse: è la lettera 28 dell’epistolario di Pietro, databile intorno al 1122-23.

È una lettera lunga e mirabile, one hundred percent the Venerable style. Okay, dice Pietro, «tralasciando per il momento quelle cose con le quali potremmo giustamente attaccarvi [gran maestro di tattica], risponderemo alle obiezioni che… ci avete rivolto», e al primo punto c’è proprio la questione dei novizi.

«Nell’accogliere i novizi osserviamo in maniera assoluta la Regola, poiché seguiamo quella parola che dice: Tutto ciò che il Padre mi dà verrà a me, e colui che viene a me non lo respingerò» (Gv 6, 37). La difesa di Pietro è molto interessante ed è basata su una mossa cruciale: osservare la Regola in maniera assoluta non significa osservarla in ogni suo «apice e iota», bensì seguire il Vangelo. La vita monastica non è forse una vita apostolica? E qual è il suo cuore? «Noi professiamo di seguire la regola della madre carità, che rivendica come cosa propria a se stessa il fatto che tutto ciò che avviene nella sua logica è chiarissimamente retto e non distorto, equo e non iniquo, giusto e non ingiusto»: la palla, per così dire, è ributtata in campo cisterciense. E inoltre: perché usare la durezza se con un po’ di condiscendenza possiamo salvare un’anima? Non è forse questo lo scopo di tutto? E ancora: colui che duramente respingessimo, potrebbe tornare nel mondo e perdersi, non è forse meglio evitarlo? E infine: «A tutto ciò aggiungiamo il fatto che in nome di questa considerazione della carità fraterna è lecito, soprattutto ai maestri della chiesa di Dio, trasgredire gli insegnamenti dei padri e, in vista dell’utilità delle anime, temperare i precetti delle diverse regole» – un’ammissione di grande rilievo.

Si noti che Pietro non nega mai i «fatti» di cui vengono accusati i cluniacensi, su questo come su tutti gli altri diciannove punti, tutta la sua difesa è incentrata sul distanziamento dalla lettera della Regola e su una visione più ampia, basata appunto sul comandamento della carità. Poiché tuttavia è intellettualmente onesto, cinquanta pagine dopo (sembra quasi che la sua tattica sia la presa per sfinimento) ammette: sì, voi potete comunque accusarci di trasgredire il voto che abbiamo fatto di osservare la Regola; è vero, i novizi, ad esempio, li accogliamo subito. Per rispondere, l’abate di Cluny si alza in piedi: «A ciò rispondiamo: anche se diceste ciò mille volte, noi mille volte vi risponderemmo: abbiamo fatto voto di osservare la Regola, ma non abbiamo escluso dalla Regola la carità. Se avessimo escluso la carità non si potrebbe dire che abbiamo fatto voto di osservare una regola, poiché se manca ciò che rende una regola retta non si dà più una regola». Vedete voi, commenta l’abate di Cluny con una stoccata da maestro, «o con la rettitudine seguite la regola o, senza rettitudine, seguite la deviazione. Cioè, è inevitabile che o con la carità siate in possesso della Regola, o senza carità teniate in mano del fumo».

Pietro il Venerabile, Lettera 28, in Sotto la guida del Vangelo. Cluny e Cîteaux: testi e storia di una controversia, a cura di Cecilia Falchini, Edizioni Qiqajon 2013, pp. 101-183 (l’episodio precedente della “serie” è qui.)

 

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Il fumo delle cucine (Cluny vs Cîteaux, 1)

Come dicevo, la lettura di Sotto la guida del Vangelo, dedicato alla controversia tra Cluny e Cîteaux mi ha appassionato, e ora che l’ho praticamente terminata non so da dove cominciare, tante sono le cose interessanti e che mi hanno colpito. Vi dedicherò quindi una serie di appunti non ordinati, saltando da un punto all’altro.

L’argomento centrale della polemica, in estrema sintesi, è quale sia la «vera» forma di vita monastica, incorporato nel tema dell’osservanza alla Regola di Benedetto, che viene letta e riletta fino alle virgole (dice ad esempio Guglielmo di Malmesbury a proposito dei cisterciensi che «si attengono talmente alla Regola da ritenere di non doverne tralasciare nemmeno uno iota o un trattino»). Strumento di appoggio primario dei contendenti, nella interpretazione, sono ovviamente le Sacre Scritture: alla Bibbia, opportunamente citata, si può far dire tutto. La cosa non sorprende, certo, ma un conto è averne nozione in astratto, un altro discorso è vedere il fenomeno in atto in un corpus coerente e connesso di testi. Grazie all’accurato «Indice biblico» (a me è sempre piaciuta la variante «Indice scritturistico»), scopriamo che sono citati 33 dei 46 libri dell’Antico Testamento e ben 24 dei 27 testi del Nuovo Testamento. Le fonti extrabibliche, nel complesso, non sono molte: quelle classiche meritano un approfondimento a parte, mentre quelle monastiche sono davvero poche.

Di queste ultime, una è molto divertente. Si tratta della Vita di Odone, secondo, grande, abate di Cluny dal 927 al 942. A citarla è Pietro il Venerabile, successore di Odone, in una lettera ai priori e sottopriori cluniacensi, databile tra il 1144 e il 1156, cioè ben oltre il divampare della controversia e quando lo stesso Pietro ha da tempo avviato un tentativo di riforma del suo Ordine. È una specie di circolare diretta ai «quadri», nella quale Pietro torna su un argomento in apparenza marginale, cioè il cibo, e nello specifico la carne. Il tema è stato dibattuto fino alla nausea, Pietro si è anche già pronunciato chiaramente in materia, ma lui continua a ricevere segnalazioni («mi è stato riferito, e questo non da persone superficiali o da poco») di comportamenti reprensibili da parte dei confratelli. I monaci cluniacensi, gli hanno detto, «passano di luogo in luogo e, come uno sparviero o un avvoltoio, dove vedono il fumo delle cucine, dove con le loro narici sentono l’odore della carne arrosto o cotta, rapidamente volano là». E poiché sta parlando ai suoi tira fuori Odone, «il primo padre dell’ordine cluniacense», il quale era per così dire intervenuto sulla questione con questa storia.

Un giorno, di buon mattino, un monaco era andato dai suoi parenti e aveva preteso un buon pasto. Ma non è ora di pranzo, gli obiettano, e lui irritato: Che diamine, ho cavalcato tutta la notte, per obbedire a un comando, e ora volete che digiuni? Di pronto c’è del pesce, gli rispondono, e lui ancora più irritato, si guarda intorno, adocchia una gallina, la tramortisce con un colpo di bastone e sbotta: «Ecco, questa, questa oggi sarà il mio pesce!» I parenti azzardano un «ma, padre, ti è consentito mangiare carne?» È davvero troppo, bisogna metterli al loro posto, ignoranti che sono: «I volatili non sono carne», sentenzia il monaco. «Volatili e pesci, infatti, hanno la stessa origine e sono creati allo stesso modo, sicut noster hymnus continet.» In un attimo la gallina è sul fuoco, ma «quand’era già un buon tempo che la stavano arrostendo egli, impaziente, per lo stimolo della gola e come mosso dalla frenesia, si gettò sulla gallina, ne estrasse un boccone e se lo infilò in bocca. E subito, dopo averla masticata, provò a ingoiarla, ma non vi riuscì». Il boccone non va né su né giù, altri accorrono, grandi pacche sulla schiena e sul collo («pugnos tamen et cervicatas»), «ma non vi fu nulla da fare», e il monaco, senza nemmeno poter confessare i propri peccati, «in un istante morì».

Vedi cosa accade a mangiare carne quando non si deve…

Pietro il Venerabile, Lettera 161, in Sotto la guida del Vangelo. Cluny e Cîteaux: testi e storia di una controversia, a cura di Cecilia Falchini, Edizioni Qiqajon 2013, pp. 465-76; la Vita di Odone si può leggere in PL 133, l’episodio è raccontato in III, 4.

 

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Quanto potrò, non appena potrò

Dopo aver scritto quelle mirabili parole di conforto, Pietro il Venerabile passò ai fatti e, consapevole di quale consolazione avrebbe prodotto un gesto del genere, in una data che non è possibile precisare portò il corpo di Abelardo a Eloisa, affinché fosse sepolto nella cripta del Paracleto (potrebbe essere il 1144, due anni dopo la morte del filosofo, o il 1146-49, o addirittura il 1152-54).

Eloisa glien’è profondamente grata e, un anno dopo la traslazione, gli scrive per ringraziarlo ancora. Ma non solo. La lettera della badessa è conservata nell’epistolario dell’abate di Cluny, e nella sua brevità restituisce un’immagine precisa del suo carattere, lucido anche nel dolore. Eloisa ci tiene a ripetere quello che Pietro ha fatto, che evidentemente non è poco: «Ci avete portato il corpo del maestro» (da notare come non faccia mai il nome del suo amato); Pietro, inoltre, ha concesso un beneficio di trenta messe da dire a Cluny per Abelardo e per lei stessa alla sua morte – promessa da confermare anche per iscritto.

Bene, dice Eloisa senza tanti giri di parole (quelli così cari al Venerabile), mandamelo questo «rescritto siglato» e, già che ci siamo, mandami «anche un altro documento siglato, quello che contiene in modo esplicito [apertis litteris] l’assoluzione del maestro, perché lo si possa appendere sulla sua tomba». Ah, un’ultima cosa, «ricordatevi anche…  di Astrolabio [il figlio suo e di Abelardo, nato intorno al 1118], e fate in modo di fargli avere una prebenda dal vescovo di Parigi o di qualsiasi altra diocesi». Grazie, e arrivederci.

Pietro risponde a stretto giro di posta, compatibilmente, e per una volta non si dilunga. Giusto un paio di citazioni e allega alla lettera i due documenti richiesti («Vi mando anche, come mi avete chiesto, pure su carta scritta e con il sigillo, l’assoluzione di maestro Pietro»). E Astrolabio? Qui il Venerabile, esperto mediatore oltre che uomo caritatevole, non dimentica la cautela: ci proverà, certo, «la cosa però è difficile, perché, come ho spesso sperimentato, i vescovi si mostrano di solito molto restii a dare prebende nelle loro chiese…»

«Comunque», conclude l’abate, «per amor vostro farò quanto potrò, non appena potrò.»

Pietro il Venerabile, Lettere 167 e 168, in Un monaco nel cuore del mondo. Lettere scelte, a cura di D. Pezzini, Paoline 2010.

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Pietro, Eloisa e l’altro Pietro

Sempre pressato dalle «esigenze fastidiose del suo ufficio», Pietro il Venerabile trova finalmente un «giorno di calma» e scrive a Eloisa, «venerabile e in Cristo amatissima abbadessa e sorella». Si ritiene che questo giorno sia agli inizi del 1144: Eloisa ha circa quarantaquattro anni, è badessa del Paracleto da quindici e il suo adorato sposo Pietro Abelardo è morto da quasi due. Su richiesta di Eloisa, l’abate di Cluny le racconta l’ultimo periodo della vita del «maestro Pietro», per il quale il Venerabile molto si è adoperato: ha tentato una mediazione con i suoi avversari, soprattutto con Bernardo di Chiaravalle, dopo la condanna per eresia, ha interceduto presso il papa Innocenzo II, ha infine accolto Abelardo nella sua abbazia e nel suo Ordine, perché morisse in pace.

La lettera è lunga ed è occupata, nella prima parte, da un elogio di Eloisa, «donna interamente e veramente filosofica» che con i suoi studi ha «superato tutte le donne e quasi tutti gli uomini». Pietro ne dice tutto il bene possibile, la vorrebbe con sé («Volesse il cielo che tu abitassi nella nostra Cluny») e dissimula con tatto tra le lodi la considerazione del fatto che Eloisa sia, comunque, una donna, moltiplicando citazioni e riferimenti («Non è, però, per niente insolito tra i mortali che delle donne governino altre donne, né del tutto inusuale che pure combattano, e inoltre accompagnino in guerra gli stessi uomini»).

Peccato che tu non possa venire da noi, dice il Venerabile, mi consolerò pensando «che ci è stata tuttavia concessa la presenza del tuo servo e vero filosofo di Cristo, da nominare spesso e sempre con onore, il maestro Pietro». Si passa così alla seconda parte della lettera, più breve, in cui sono descritti gli ultimi, nobilissimi giorni del filosofo, più umile degli umili, incurante della propria fama, dedito alla lettura, alla predicazione, all’orazione, «immerso in un profondo silenzio», paziente con i mali dell’età («più del solito era gravato dalla scabbia e da certi fastidi del corpo»), gentile, devoto – un santo, che ora siede alla destra del Signore, «come è giusto credere».

La lettera potrebbe concludersi così, ma Pietro il Venerabile sa cosa si aspetta Eloisa; conosce, ovviamente, tutta la storia e sa che non può negarle la parola più dolce. Anzi, penso che non voglia proprio negargliela, perché sa esattamente a chi si sta rivolgendo e a suo modo ha capito benissimo cos’è l’amore, e quasi scommetterei che abbia scritto tutto quanto precede per arrivare a quell’ultimo paragrafo e spiccare un balzo che anche oggi lascia senza fiato:

«Venerabile e carissima sorella nel Signore, questo uomo dunque, al quale dopo il rapporto carnale hai aderito con il vincolo tanto più valido quanto più eccelso della divina carità, con il quale e sotto il quale hai servito a lungo il Signore, costui, dico, il Signore stesso, al tuo posto o come un’altra te stessa lo riscalda ora nel suo grembo, e alla venuta del Signore… si riserva di restituirtelo per sua grazia

Hunc, inquam, loco tui vel ut te alteram in gremio suo confovet, et in adventu Domini… tibi per ipsius gratiam restituendum reservat. E così Etienne Gilson commenta le ardite parole del Venerabile: «Se c’era un Dio che quella badessa ostinata, ribelle e come murata nel suo dolore, non poteva rifiutare di amare, era quello che le custodiva il suo Abelardo, per lei e al suo posto – ut te alteram – al fine di renderglielo un giorno e per sempre».

Pietro il Venerabile, Lettera 115, in Un monaco nel cuore del mondo. Lettere scelte, a cura di D. Pezzini, Paoline 2010.

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In questa fornace

Mi sono appassionato alle lettere di Pietro il Venerabile, il grande abate di Cluny, delle quali è da poco accessibile una scelta in traduzione italiana. Sono proprio belle, ricche di immagini meditate (oltre che, naturalmente, di molta edificazione) e soprattutto anticamente prolisse. Fa dei giri lunghissimi, l’abate, per arrivare al «nocciolo della questione», costruisce castelli di citazioni, rammaricandosi pure della brevità cui lo costringe il «fastidio degli affari»: «Si aggiunge a questa difficoltà il proposito della brevità, nella quale la gente di questi tempi, non so per quale innata pigrizia, sembra compiacersi».

Mi piace questa prolissità, non per sciocco gusto di controtendenza, ma perché denota, al di là della modulistica d’epoca, un’attenzione viva per le caratteristiche del destinatario, sulle quali, come un abito su misura, va tagliato il messaggio: si può dire qualsiasi cosa a chiunque (o quasi), se si è mossi da sincerità disinteressata, scegliendo parole e tempi giusti, dilungandosi sulle dovute premesse, preparando il terreno.

Un esempio sublime, ai miei occhi, è rappresentato da una frase incastonata nella lettera che Pietro scrive ai monaci della Certosa per consolarli della morte di alcuni confratelli. È il 1132 e una valanga, dovuta probabilmente a un’inondazione, ha spazzato via gran parte degli edifici della Certosa. Nell’incidente hanno perso la vita sei monaci e un novizio. Pietro si rivolge al priore Guigo e alla comunità e svolge con eleganza e dolcezza tutti i temi consolatori che si possono immaginare. Poi però aggiunge una cosa, fine e insieme ardita, che forse si può leggere anche in chiave non trascendente. Un pensiero terribile, eppure vero, che mi sento di condividere, pur con tutto il dubbio, il timore e il tremore del caso: poiché è raro che il destino conceda ai fratelli di morire insieme, al fratello che resta tocca affrontare la durezza della morte del fratello che muore, al quale, quindi, questa durezza viene risparmiata.

Ecco la frase, che arriva al «punto» con un piccolo scarto, come scivolando da un tema più tradizionale (chi sopravvive conquista il merito di una lotta più lunga).

«Ma un pensiero simile [il dolore per la salvezza rimandata] trova una facile consolazione, poiché ciò che a loro ha già procurato la gloria, a voi giova per conquistare una corona. In questa fornace, infatti, nella quale essi, liquefatta ogni ruggine, sono stati resi splendenti, anche voi venite purificati in misura non inferiore alla loro, dato che il modo non è più dolce del loro, anzi forse più duro, dato che dura di più. Anche se non siete morti con loro, poiché la spada della morte ha trapassato le vostre anime, avete sopportato la morte pur non morendo affatto, e l’avete sentita con maggior durezza perché non siete potuti morire insieme a loro che morivano.»

Pietro il Venerabile, Lettera 48, in Un monaco nel cuore del mondo. Lettere scelte, a cura di D. Pezzini, Paoline 2010. (Per la precisione, noto che le ultime parole citate le ho prese da un’altra traduzione, a cura di C. Falchini.)

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Accidentalmente?

È all’incirca il 1136. Pietro abate di Cluny, non per niente Venerabile, scrive una delle sue eleganti lettere a Guigo I, priore della Chartreuse. I due si stimano e si vogliono bene. E infatti è una lettera d’amicizia: Pietro non ha gran che da dire, se non che si sente oppresso dai suoi doveri («Sono un asinello, e mi vedo costretto a portare sul dorso un castello di elefante») e che sotto sotto prova un po’ di invidia per la pace dei certosini («Felice, e già partecipe della beatitudine eterna, il riposo di coloro che sono esonerati dalle occupazioni»). Si sfoga un po’, insomma, ed è bello leggerlo.

Già che scrive, tuttavia, ne approfitta per un paio di paragrafi di cose pratiche. Libri in particolare, codici da ricevere e da mandare. Sappia, il fratello Guigo («da abbracciare con il particolare abbraccio di una carità non finta»), che Pietro gli ha mandato le vite di Gregorio di Nazianzo e del Crisostomo e un librino di Ambrogio contro Simmaco; il volume di Prospero d’Aquitania su Cassiano non ce l’ha, ma l’ha chiesto in prestito a un’altra abbazia, mentre il testo di Ilario sui Salmi ha preferito  non spedirglielo, perché ci ha trovato degli errori: «Se poi lo volete com’è, richiedetelo e ve lo manderò».

In cambio, Guigo dovrebbe essere così gentile da inviargli il «grande volume delle lettere del santo padre Agostino», quello con il carteggio con Girolamo all’inizio. Ce l’abbiamo, nota al volo Pietro, ma «la gran parte del volume, in uno dei nostri priorati, l’ha accidentalmente divorata un orso».

Pietro il Venerabile, Lettera 24, in Un monaco nel cuore del mondo. Lettere scelte, a cura di D. Pezzini, Paoline 2010.

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