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San Colombano risponde, o: «M’hai provocato, e io ti distruggo»

Perché gli ho chiesto altri consigli… Ma cosa m’è venuto in mente di insistere, si sarà forse detto il «diletto figlio e caro discepolo» (Domoalo? Agnoaldo?) quando (quando? nei primi anni del VII secolo?) avrà ricevuto da Colombano quella che è data come Lettera VI nell’esiguo e formidabile epistolario del monaco irlandese1. Perché, se da un lato il giovane religioso non poteva ancora sapere di avere tra le mani «una delle più belle e commosse pagine di tutta la letteratura latina del Medio Evo» (Ezio Franceschini), dall’altro gli era appena stato consegnato un programma impervio di vita giusta, cristiana, santa, di vita perfetta. Era vero che Colombano aveva previsto da qualche parte su quei fogli la zattera sulla quale tutti gli imperfetti fanno affidamento – «per quanto ti è possibile» –, ma l’«insegnamento» era lì, come si dice: nero su bianco, non aggirabile: Come potrò mai farcela?

E per di più era scritto in maniera mirabile: breve, chiaro, ispirato, denso, semplice in fondo, così scandito e ritmato, nella prosa, da essere quasi memorizzabile – casomai uno volesse ricordarsene nei momenti difficili.

Gli aveva già scritto, Colombano, e infatti con non troppa delicatezza se ne lamentava nel primo paragrafo: «Tu conosci bene il detto: colui al quale non basta il poco, non saprà trarre profitto dal molto»; in ogni caso, visto che le esortazioni non fanno mai male, eccomi qua. E poi, in fondo, repetita iuvant.

È impossibile, e anche inutile, descrivere i fuochi d’artificio, retorici e concettuali, che si scatenano nei due paragrafi successivi2: con un ritmo incalzante di assonanze, allitterazioni, antitesi, variazioni, omoteleuti, il breve scritto passa in rassegna l’intero spettro del comportamento giusto; e se, presi singolarmente, i «comandamenti» sono tutto sommato prevedibili ([sii] esigente con te stesso, indulgente con gli altri; memore dei benefici, dimentico delle offese; cauto nel parlare, sollecito nell’operare; sottomesso agli anziani, fervoroso con i giovani, e così via), è la loro adunata a togliere il respiro: come se una settantina di «persone» (le ho contate) raccolte in una stanza ci puntassero gli occhi addosso, a ricordarci come dovremmo essere e a rimproverarci perché spesso (sempre?) non lo siamo. È un fuoco di fila; è un pugile che si accanisce sul sacco d’allenamento; è una sequenza di una bellezza terribile.

Alcune raccomandazioni sono meno scontate di altre e aprono prospettive inattese: versatile nelle circostanze semplici, lineare in quelle complesse; dissenziente quando è necessario; generoso sempre, se non con le ricchezze almeno con il cuore; pronto a manifestare i tuoi pensieri. Va anche detto che, mentre le traduttrici italiane3, inevitabilmente, sono costrette a perifrasi e a ripetizioni, il testo latino, nella sua varietà e concisione è ancora più brillante e non si ripete una sola volta: mordax in propriis, remissus in alienis; varius in planis, planus in variis; durus stolidis, rectus erectis, humilis deictis; constans in fragoribus, laetus in maeroribus; animi depressor, cogitationum publicator, e così via.

Come forse accadde all’originale destinatario, si rimane senza parole al cospetto di tale programma, che offre nelle sue battute conclusive la chiave, il senso di una strada tanto difficile: «Se infatti in tutto ciò ti impegnerai con diligenza…», conclude Colombano, «ti troverai sempre a raccogliere per te stesso quei beni di cui godrai per l’eternità; e sarai degno di essere considerato un uomo il cui animo è giunto all’unità».

Oh! «Uomo il cui animo è giunto all’unità»: se già la salita era sembrata straordinariamente impegnativa, la sommità appare irraggiungibile, forse persino inesistente se osservata dalla moltitudine che siamo.

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  1. In San Colombano, Le opere, introduzioni di I. Biffi e A. Granata, analisi e commento di A. Granata, Jaca Book 2001, pp. 122-31.
  2. Conviene magari osservarli direttamente, ad esempio esplorando il Portale dedicato a san Colombano.
  3. Le traduzioni delle Opere pubblicate da Jaca Book sono a cura delle monache benedettine dell’Abbazia «Mater Ecclesiae» dell’Isola di San Giulio (Orta).

 

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Colombano bastian contrario

«Pochi scritti sono tanto preziosi per la storia monastica quanto la Vita Columbani di Giona di Bobbio. La grandezza dei fatti, la qualità delle testimonianze, raccolte sui luoghi in cui visse il santo e dalla bocca dei suoi discepoli, l’intelligenza e il talento dello scrittore, tutto ne fa un documento di cui non si potrebbe esagerare l’importanza», così il grande studioso Adalbert de Vogüe sintetizza il giudizio sulla Vita di san Colombano (e dei suoi discepoli), che il suo autore redasse intorno al 640 mentre era al servizio del «vescovo itinerante» Amando1.

È, ovviamente, un testo molto studiato, e a me, prudentemente, non rimane che dire che si tratta di un’agiografia molto bella e istruttiva, ricca di quei piccoli particolari che, sfuggendo ai binari del canone, la rendono più interessante, e dotata inoltre di un curioso «schema di movimento» legato alle vicende del santo.

Per quanto riguarda i primi, si va dalla descrizione della patria di Colombano, l’Irlanda («isola situata all’estremità dell’Oceano», dove «gigantesche ondate aprono spaventosi abissi dal terrificante colore, mentre si increspano in modo impressionante sulle alte creste con il manto per un istante biancheggiante sul ceruleo dorso e sferzano gli schiumosi lidi», I, 2), alla composizione della sua dieta al tempo del romitaggio: «Nient’altro che una piccola quantità di erbe selvatiche e di piccoli frutti volgarmente chiamati “bollicine”» – cioè i mirtilli (I, 10); dal fatto che quando serve nella cucina del monastero di Luxeuil «utilizza quegli involucri in uso per proteggere le mani, che i Galli chiamano “wanti”» (I, 16), alla sua dimestichezza con gli animali di qualsiasi tipo e taglia: orsi, corvi, lupi, pesci e «quella bestiola chiamata comunemente scoiattolo», che un testimone assicura di aver visto «lanciarsi giù, al suo richiamo, dalle cime più alte degli alberi, accovacciarglisi nella mano, saltargli al collo, entrargli in seno e sgusciargli fuori» (I, 16).

Per quanto riguarda invece lo «schema di movimento», si nota come all’inizio della sua santa vicenda Colombano venga ostacolato nel suo desiderio di andare sulla strada che Dio gli ha indicato. Per tre volte. La prima persona a opporsi è sua madre, in una scena abbastanza straziante e redenta dalla solita citazione di Matteo 10, 37. Quando Colombano manifesta la sua decisione di partire in cerca di qualcuno che lo possa istruire nelle Sacre Scritture, la madre si sdraia sulla soglia di casa, implorandolo di non andare, al che «egli, scavalcandola, oltrepassa la soglia e le dice di mettersi l’animo in pace» (il corsivo, mio, dovrebbe restituire la dimensione del gesto). Poi tocca a Comgall, abate del monastero di Bangor, dove Colombano risiede per alcuni anni, obbediente, ma sempre più inquieto, fino a quando dice: padre, io voglio andare. Comgall tentenna, poiché gli dispiace «perdere un aiuto così prezioso», ma alla fine cede, per ispirazione divina. Arrivato infine nelle Gallie, Colombano si presenta alla corte del re franco Childeberto, che lo apprezza subito e grandemente, tanto che quando il monaco lo informa di voler proseguire il suo percorso di evangelizzazzione dei popoli, il re gli risponde così: «Scegli il luogo deserto che preferisci e vivi là tranquillamente. Ti chiedo soltanto di non abbandonare il territorio del nostro regno per passare ai popoli vicini». E tre.

Toccherà a Teodorico, aizzato dalla madre Brunilde, inviperita perché Colombano non riconosce la regalità del figlio (illegittimo), a invertire la tendenza. Questo sedicente uomo di Dio dà scandalo, non rispetta la tradizione, ha scritto una Regola inaccettabile, bisogna intervenire: Teodorico decide di andare personalmente al monastero di Luxeuil a parlare con Colombano. Il dialogo è molto teso e si conclude con il monaco che profetizza la rovina del regno di Teodorico che, prima di lasciarlo, ribatte: «Tu speri che io ti procuri la corona del martirio, ma io non sono tanto pazzo da commettere una simile scelleratezza». Nondimeno gli chiede esplicitamente di andarsene «per la medesima via per la quale è venuto». E Colombano si rifiuta, rispondendo «allora che non sarebbe uscito dalla clausura del cenobio».

Colombano comincerà allora quel «tribolato percorso verso l’Italia del Nord» che lo porterà a Bobbio, sua celeberrima fondazione, nel 614, solo un anno prima della morte. E quando il re Lotario manderà a Bobbio un emissario affinché, ora che Brunilde e i suoi figli e nipoti sono fuori gioco, «con la più raffinata diplomazia lo persuada a venire a corte», Colombano rimanderà l’ambasciatore «con l’ordine di rendere, nel limite del possibile, gradevole alle orecchie del re questa sua risposta: tornare indietro  non gli sembra assolutamente opportuno».

E forse in quell’«assolutamente» c’è l’essenza di un vero, ammirevole bastian contrario.

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  1. Giona, Vita di san Colombano, con introduzione di I. Biffi, traduzione delle monache benedettine dell’Abbazia «Mater Ecclesia» dell’Isola San Giulio, Abbazia San Benedetto Seregno 1999.

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Sfumature (Dice il monaco, XVI)

Dice Colombano, intorno al 610:

Chiunque perda l’ostia o non ricordi dove l’abbia messa, faccia penitenza per un anno. Chi tratta l’ostia con negligenza così che si secchi e venga mangiata dai vermi, tanto che non ne resti nulla, faccia penitenza per sei mesi. Chi incorre in qualche trascuratezza verso l’ostia, così che si trovi in essa un verme e tuttavia sia ancora intera, bruci il verme sul fuoco e ne nasconda la cenere in terra vicino all’altare, e faccia penitenza per quaranta giorni. E chi non ha cura dell’ostia così che si alteri e perda il sapore del pane, se essa prende un colore rosso, faccia penitenza per venti giorni, se prende un colore violaceo, faccia penitenza per quindici giorni. Se invece l’ostia non ha cambiato colore, ma si è come conglutinata, faccia sette giorni di penitenza. Chi lascia che l’ostia si bagni, subito beva l’acqua contenuta nel crismale e consumi l’ostia. Se il crismale gli cade da una barca o da un ponte o da cavallo, non per trascuratezza, ma accidentalmente, faccia penitenza per un giorno; se però lascia che l’ostia si bagni per irriverenza, cioè se esce dall’acqua e non prende in considerazione il rischio che l’ostia corre, faccia quaranta giorni di penitenza.

Colombano, Regola cenobiale, XV, in Le opere, a cura di A. Granata, Jaca Book 2001, p. 343.

 

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