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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 3/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui, la seconda qui)

Tra le molte suggestioni prodotte dalla lettura della Regola delle recluse1 ce n’è una di ordine – oserei dire – psico-teologico che mi ha attirato particolarmente.

Analizzando i rischi che la reclusa corre ascoltando dicerie e pettegolezzi che il Tentatore, per tramite di qualche persona solo apparentemente pia, le offre alla finestra della cella, Aelredo dice che, «ritornata alla quiete, la poveretta rimugina nel suo cuore, trasformate in immagini, le cose che le sue orecchie vi avevano inserito, e trasforma in incendio violento quel fuoco che era stato attizzato dalle chiacchiere precedenti. Nei salmi balbetta come fosse ubriaca, nella lettura le si appanna la vista, barcolla nella preghiera». Il punto decisivo mi pare essere quel «trasformate in immagini», che sposta il problema sulla dimensione, appunto, visiva. Dimensione che rimanda a uno degli aspetti costitutivi della reclusione volontaria: ci si rinchiude per non vedere il «mondo presente» e quindi poter intravedere quello «futuro», si oscura l’aldiquà per gettare una prima luce sull’aldilà. O, ancora, si esclude il «visibile» per affacciarsi all’«invisibile».

Già Pietro il Venerabile, indirizzando la sua lettera sulla vita eremitica (la 20 del suo epistolario) al monaco Gisleberto, gli augura «nell’angustia della cella la vastità del cielo»; mentre Guglielmo di Saint-Thierry, scrivendo ai fratelli certosini, nella sua Lettera d’oro (31), ricorda che «la porta chiusa non significa nascondiglio, ma ritiro segreto», e che «la dimora del cielo e quella della cella si assomigliano; poiché, come il cielo e la cella mostrano una qualche parentela nel nome, così ce l’hanno anche nella pietà. Sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle».

Ora, nel corredo standard del materialista il «vedere», con riferimento preciso al «visibile», è un’acquisizione non più rinunciabile: si deve poter vedere, in ogni declinazione possibile, dall’esperienza dei sensi all’esplorazione geografica, dal controllo delle fonti all’esperimento scientifico, fino al giornalista che «va a vedere» il fatto prima di riferirne, ecc. Nondimeno il materialista non è insensibile ai pericoli dell’interferenza, del rumore di fondo che inquina la percezione, e quindi osserva la reclusione volontaria (stravolgendone il significato propriamente cristiano) come strumento di depurazione del «segnale», alla ricerca di ciò che non è immediatamente visibile. Ma di quale «segnale» si tratta?

Aelredo non si stanca di mettere in guardia dagli attacchi che provengono dall’interno, anche quando si sia chiusa la porta all’esterno, perché «il male che portiamo incluso nelle nostre membra spesso risveglia istinti temibili» (il corsivo è mio, con una speciale considerazione per quell’«incluso»); e Pietro il Venerabile è ancora più esplicito quando ricorda che «il mondo, passando per un accesso familiare [cioè, con tutta evidenza, l’immaginazione] si offre agli occhi dell’anima con tutte le sue cose», e così rivela un «invisibile» ben diverso da quello che il recluso si aspettava: «In questo modo, mentre imperversano nelle zone arcane della sua mente sensazioni di cose svariate, poiché l’animo non vede niente di quello che pensa se non una celletta vuota, dormicchiando per la noia, cerca rimedio a questa noia miserevole non in Dio ma nel mondo, non in sé ma fuori di sé; il che gli procura un danno ancora più grave».

Istinti temibili, noia, zone arcane della mente: concetti ed espressioni quanto mai familiari al materialista novecentesco, anche quello modestamente attrezzato, no?

(3-fine)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 2/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui)

Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx1, infatti molte «ignorando o non prendendo sul serio il motivo di questa istituzione, ritengono che si sufficiente rinchiudere tra quattro pareti soltanto il loro corpo, lasciando invece che lo spirito sia libero di dissolversi in mille divagazioni», eccetera eccetera; e poi stanno sempre a parlare con qualche «vecchia garrula e pettegola», si fanno raccontare le cose del mondo e poi ci rimuginano, si figurano quanto hanno ascoltato, si preoccupano delle loro proprietà, dei soldi, scrivono lettere, fanno regalini o addirittura «mandano cinture e borse intessute e ricamate con colori variopinti a giovani monaci e chierici». Insomma, fanno entrare dalla finestra (quella maledetta finestra) quel mondo turpe che si sarebbero lasciato alle spalle, e con esso il Tentatore e il suo veleno. Anche le attività più apparentemente nobili sono pericolose, come occuparsi dell’insegnamento di ragazzi e ragazze, trasformando la cella in una scuola. La scena descritta da Aelredo merita di essere riportata per intero: «La reclusa siede alla finestra [appunto], mentre le ragazze si raggruppano nel portico [del chiostro, quindi]. Le guarda una a una, e secondo i loro comportamenti infantili, ora si adira, ora ride, ora minaccia, ora blandisce, ora picchia, ora bacia, ora tira vicina una che piange per essere stata castigata, le accarezza il volto, se la stringe al collo, la trascina a sé con abbracci, la chiama “figliola mia, tesoro”». Si guardi da tutto questo, la reclusa! Per le sue necessità si scelga «una donna anziana» e posata che faccia la guardia alla porta e che tenga al suo servizio «una ragazza più forte e capace di fare i lavori faticosi, che porti l’acqua e la legna, faccia cuocere le fave e gli ortaggi o, se una malattia lo richiede, prepari cibi più sostanziosi». Tu, mia amata sorella reclusa, sposa di Cristo, «tu sta seduta, sta zitta, aspetta».

Sistemati gli aspetti pratici (orari, lavoro manuale, letture, digiuni, abbigliamento), nella seconda parte Aelredo passa in rassegna la «disciplina interiore delle virtù». La verginità, anzitutto, il tesoro più prezioso, poi la castità (che non può prescindere dalle privazioni e dalle mortificazioni, che non devono spaventare, «come se la fiamma della libidine fosse più tollerabile dei bruciori di stomaco»), l’umiltà (occhio, che «c’è anche una sorta di vanità nel compiacersi di una cella curata con eleganza») e infine la carità. Ma come può la reclusa nella sua condizione esercitare l’amore per il prossimo? Con la volontà buona e con la preghiera: «Abbraccia dunque tutto il mondo nell’unico grembo dell’amore, e lì pensa a tutti quelli che sono buoni, e rendi grazie, e insieme guarda a quelli che sono cattivi, e piangi». L’unico modo santo in cui il mondo può rientrare nella cella è tramite l’orazione, che rappresenta la sola prospettiva dalla quale la monaca deve osservarlo e amarlo, senza distinzioni: i poveri, gli orfani, le vedove, i tristi, i pellegrini, le vergini, i naviganti, i monaci tentati, i prelati carichi di responsabilità, persino coloro che sono in guerra: tutti costoro sfilano in corteo nella preghiera della reclusa.

La terza e ultima parte della Regola accoglie tre meditazioni sui beni passati, presenti e futuri, o più esattamente attesi: tre testi molto belli che possono anche essere letti separatamente dal resto e che ebbero larga fortuna, tanto da essere attribuiti ad altri autori e da essere inseriti nella diffusissima raccolta di Meditazioni intestata a sant’Anselmo. Le meditazioni mirano a suscitare una serie di immagini capaci di accendere sentimenti di devozione e pietà, creando una «memoria affettiva» cui attingere durante la quotidiana lotta per la conquista delle virtù: un metodo che anch’esso avrà larga fortuna. Quella sul passato è una ricapitolazione dei principali episodi evangelici, durante la quale dobbiamo immaginarci testimoni diretti dei fatti, insieme con gli apostoli, col paralitico, con l’adultera o presenti all’ultima cena come quattordicesimi convitati. La seconda meditazione, rivolta al presente, è per così dire quella più autobiografica, in cui si passa in rassegna il bene che si è ricevuto e il male che si è fatto (e Aelredo confessa apertamente il suo), e la certezza che l’aiuto di Dio non mancherà mai a chi lo chieda. La terza meditazione si concentra infine sui cosiddetti «novissimi», cioè morte, giudizio, inferno e paradiso. Qui, se ripensiamo a quanto accennato sull’esperienza, possono sorgere dei problemi. Aelredo si affida, comprensibilmente, alla Scrittura, ma conclude la parte sull’«eterno riposo» che attende i beati con un commento molto significativo: «Per la verità, cosa sarà quel riposo, quella pace, quella felicità… la penna non lo può descrivere perché l’esperienza non l’ha ancora insegnato».

Similmente il paradiso si disegna al negativo, per tutto quello che in esso mancherà, che non è altro che ciò che affligge gli esseri umani, in sintesi: la vita, riassunta in un brutale elenco, non privo di un dettaglio inatteso: nessun lutto, o pianto, «o dolore, o timore, nessuna tristezza, nessuna discordia o invidia, nessuna tribolazione, nessuna tentazione, nessun cambiamento di tempo, né un cielo coperto di nuvole, nessun sospetto, né ambizione, né adulazione, né calunnia, nessuna malattia, né vecchiaia, né morte, non povertà, né tenebre, nessun bisogno di mangiare o bere o dormire, nessuna fatica, nessuna debolezza».

La formula con la quale Aelredo definisce il paradiso è memorabile: «Cosa sarà questo regno noi non riusciamo a immaginarlo, tanto meno a esprimerlo in parole o a metterlo per iscritto. Questo so, che niente mancherà di quello che tu desideri e che niente ci sarà che tu non voglia».

(2-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 1/3)

RegolaDelleRecluse Sappia, la monaca reclusa, «di non essere sola quando è sola. Allora infatti è con Cristo, il quale non si degna di stare con lei quando è nella folla». Se ne stia dunque sola, seduta, in silenzio e ascolti e parli soltanto con Gesù. La prima parte della Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx1 – delle tre di cui è composta – è dedicata al comportamento esteriore che la monaca reclusa deve tenere per potersi dire veramente tale. Siamo nella seconda metà del XII secolo e il fenomeno della reclusione volontaria, soprattutto femminile, per quanto piccolo, non è trascurabile. Nata nel deserto delle origini, sviluppatasi lungo tutto il Medioevo eremitico e cenobitico, sfocia infine nella sua «epoca d’oro» tra XI e XIV secolo, quando la dimensione cittadina che assume ne esalta la vocazione paradossale e contraddittoria2, quella cioè di ricercare e vivere la solitudine in mezzo alla gente, di fuga dal mondo dentro il mondo stesso3. È così che i reclusori che punteggiano le città (a Foligno, per fare un solo numero, nel 1370 sono censite 62 «incarcerate») diventano quasi dei punti di riferimento per la popolazione dei laici, rappresentando il segno di una fede vissuta nel sua forma più pura, esercitando una specie di protezione sulla popolazione e al tempo stesso fornendo una sorta di anticipazione della promessa di beatitudine futura: le recluse e i reclusi (molti meno) sperimentano un assaggio del paradiso e lo additano agli occhi di chi è ancora alle prese con le miserie dell’aldiqua. Lo rappresentano e in qualche misura ne riferiscono anche, stanti i rapporti che hanno con i laici che li visitano e ne cercano la parola ispirata.

Per molti secoli, tuttavia, la reclusione volontaria si appoggia, per così dire, ai monasteri, che ospitano al loro interno celle dalle quali, con il consenso della badessa o dell’abate, monache e monaci non escono mai, pur intrattenendo, per forza di cose, alcuni contatti con il resto delle comunità4. Per quanto «fuori dal mondo», le recluse devono pur mangiare (poco), devono pur fare qualcosa (oltre pregare), sono sepolte, sì, ma pur sempre vive. Si dà, quindi, la necessità di una «regola per le recluse», e Aelredo, secondo le ricostruzioni degli studiosi, arriva per terzo, dopo Grimlaico, egli stesso recluso, che redige una Regola dei solitari verso la fine del IX secolo, e Pietro il Venerabile, il sommo abate cluniacense, che qualche tempo dopo il 1134 scrive a Gisleberto (o Gilberto), recluso a Senlis, una lunga lettera, tradizionalmente tramandata come un trattato sulla vita eremitica.

La Regola di Aelredo, che viene datata intorno al 1160, è dedicata alla sorella maggiore (di cui purtroppo non si conosce il nome) e questo le conferisce un tono di particolare partecipazione emotiva che, insieme con le notazioni autobiografiche che Aelredo vi sparge, ha suscitato altrettanta partecipazione anche nei lettori più recenti. Anche senza considerare Aelredo come «il più poliedrico degli autori della prima generazione cistercense» (D. Pezzini), e che anch’egli ha vissuto un’esperienza di semi-reclusione (circostanza decisiva per un cistercense: si scrive e si parla di ciò di cui si ha esperienza) quando, da abate di Rievaulx, tormentato da una serie di malanni, si era fatto costruire una specie di eremo a lato del chiostro (il suo biografo lo chiama mausoleum, tugurium e secretarium) nel quale riceveva i confratelli, e mettendo infine da parte la sua fama di cantore dell’amicizia monastica, la lettura della Regola delle recluse, anche astraendo dal suo contesto storico, è interessantissima.

Anzitutto, forse, per la concretezza (anch’essa decisamente cistercense) con la quale Aelredo attacca il suo argomento. Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx…

(1-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003. L’estesa introduzione di Domenico Pezzini è quanto di più utile per un primo orientamento sul fenomeno della reclusione volontaria.
  2. Jean Leclercq sintetizza ottimamente come l’eremitismo rappresenti il paradosso di una vocazione «a praticare l’obbedienza senza superiore, la carità senza fratelli, e l’apostolato senza azione».
  3. Una dimensione che in varie forme si è perpetuata sino ai giorni nostri, ad esempio in realtà che vengono definite «monachesimo interiorizzato» o «eremitismo urbano».
  4. Scrive lo studioso inglese Giles Constable (citato da Pezzini) che la presenza di celle per reclusi nei monasteri «in certi casi funzionava come valvola di sfogo per attività religiose incompatibili con la vita di comunità, e anche, bisogna aggiungere, per membri della comunità che risultavano essi stessi incompatibili».

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Grazia e nichilismo (Dice il monaco, LXXXVIII)

Dice Aelredo di Rievaulx, monaco cisterciense, nel 1142:

Che cosa ti distingue, o uomo? Il libero arbitrio? Certamente, ma rispetto ai giumenti, non agli ingiusti. Poiché anche gli ingiusti hanno il libero arbitrio, senza il quale non potrebbero neanche essere ingiusti. Con l’unica eccezione del peccato originale, che per altro motivo lega anche quelli che non lo vogliono, nessuno è giusto se non per sua volontà, e nessuno può essere ingiusto se non per sua volontà, e dunque solo grazie al suo libero arbitrio. Ma la volontà è elevata alla giustizia solo dalla grazia; nell’ingiustizia invece sprofonda da sola.

* * *

Veda, dunque, chi può, creda chi non può vedere. Chi vede ne gioisca, ma nell’umiltà; chi non vede, creda, ma con preseveranza, perché «se non crederete non comprenderete». Veda, dico, che ogni creatura è fatta dal niente, ed è fatta mutevole, e che, spinta da questa mutabilità che fa parte della sua natura, continua a volgersi a ciò da cui è stata tratta, il niente.

♦ Aelredo di Rievaulx, Lo specchio della carità, I, XII, 36; I, XIII, 40, a cura di D. Pezzini, Paoline 1999, p. 121, 123.

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La sventurata aspettava il segnale (Aelredo a Watton)

È lo stesso Aelredo di Rievaulx, mite cantore cisterciense dell’amicizia monastica, e dell’amicizia tout court, a raccontare con cautela la storia terribile di una «certa ragazza» (niente nome, solo puella quaedam) del monastero gilbertino di Watton (Yorkshire), accaduta intorno alla metà del XII secolo. La racconta in una lettera a un destinatario ignoto per prevenire in qualche misura lo scandalo che i nemici della virtù e dell’ordine potrebbero suscitare, e lo fa perché ne è stato in parte testimone oculare e perché ha saputo il resto da persona «la cui maturità e santità non le avrebbero permesso di mentire»1.

La bambina entra in monastero come oblata all’età di quattro anni, con la benedizione del vescovo di York, e, raggiunta l’adolescenza, comincia a comportarsi da… adolescente: nessun amore per la religione, nessun rispetto per la disciplina, nessun timore di Dio; e ancora, a mano a mano che passa il tempo, ammicca, è sboccata, si muove in maniera indecente, non si cura delle punizioni, morali o corporali che siano, fa gestacci e dà il cattivo esempio. Ciò nonostante è costretta a restare, per paura, e a mantenere un’apparenza di «onestà». Una ragazza ribelle, una bomba pronta a esplodere o, per usare altri termini, la preda perfetta del diavolo.

Che infatti si presenta nelle forme, avvenenti, di un giovane converso (?) che entra con altri nel chiostro per fare dei lavori. È il diavolo, certo, che ha combinato la «cosa», ma le parole di Aelredo (suo malgrado?) raccontano qui, in un primo momento, la storia eterna: lei lo guarda, lui la guarda; qualche cenno del capo, poi qualche gesto («res primum nutibus agitur, sed nutus signa sequuntur»), quindi una, due, tre parole e infine un breve e dolce dialogo amoroso – e il sostantivo che «scappa» al monaco dice tutto: «Tandem rupto silentio conserunt de amoris suavitate sermonem». E qui Aelredo fa un’osservazione che merita di essere sottolineata. Entrambi i giovani alimentano l’un l’altro il seme della lussuria, «ma lui pensava allo stupro, mentre lei, come disse in seguito, pensava soltanto all’amore» («et ille stuprum meditabatur, illa vero postea dicebat, de solo cogitabat amore»).

Comunque la miccia è accesa, la premessa della tragedia è posta. I due si parlano ancora, si accordano per un incontro, lui lancia un sasso sul tetto del dormitorio («e tu, infelice ragazza, cosa pensavi? Cosa ti spingeva a prestare orecchio alle tegole con tanta attenzione?»), lei cede, e infine («chiudete le vostre orecchie, vergini di Cristo, copritevi gli occhi») esce dal dormitorio vergine per rientrarvi poco dopo adultera, esce colomba e finisce tra gli artigli del falco («è gettata a terra, la bocca coperta in modo che non possa chiamare e, già corrotta nella mente, viene corrotta nella carne»). Sperimentata la voluttà, il male impone di essere ripetuto, sicché la cosa si ripete, le monache si insospettiscono (che sono tutti ’sti sassi?), lei resta incinta, lui scappa, lei confessa, le monache perdono la testa: la picchiano, alcune vogliono bruciarla, altre scuoiarla; la superiora riprende il controllo della situazione: la puella quaedam viene imprigionata, frustata e pesantemente incatenata, a pane e acqua.

Ma la gravidanza diventa evidente: che fare? La cosa migliore è rimandare la ragazza, che è diventata un’immonda prostituta («meretrix adulterino fetu gravida»), a chi l’ha traviata. Ed è lei, stremata, a indicare il luogo dove avrebbe potuto ritrovare il giovane se mai fosse uscita dal monastero. Alcuni membri dell’ordine maschile preparano l’agguato, uno si traveste da monaca, catturano il giovane (che, vista la figura velata «sicut equus et mulus, quibus non est intellectus, irruit in virum quem feminam esse putabat»), lo massacrano di botte e lo consegnano alle monache. La punizione deve essere esemplare. Le monache lo portano al cospetto della sventurata, obbligano costei a evirarlo e – lasciamo parlare il latino di Aelredo – «una de astantibus, arreptis quibus ille fuerat relevatus, sicut erant foeda sanguine in ora peccatricis projecit».

Aelredo inorridisce, ma non può condannare apertamente, così, dopo otto righe di premesse bibliche, dice: «Non lodo il gesto, bensì lo zelo; non approvo lo spargimento di sangue, bensì l’indignazione delle sante vergini nei confronti di tale turpitudine», e cambia argomento.

La giustizia, anzi, la vendetta è consumata. Il ragazzo viene restituito ai confratelli e la ragazza, spezzata come possiamo solo immaginare, viene rimessa in cella, e di nuovo incatenata. Qui il suo pentimento giunge a compimento – come la sua gravidanza, assai faticosa e complicata dalla prigionia e dalle angherie2 –, tanto che la notte prima di quello che ormai è un parto imminente, la giovane ha una (seconda) visione: il vescovo stesso le si presenta insieme con due donne dal volto bellissimo… La ragazza offre al prelato piena confessione del suo peccato e poi le sembra («ut sibi videbatur») che le due donne si allontanino insieme col vescovo recando un bambino avvolto in panni candidi. Quando si desta il suo ventre è vuoto e il corpo perfettamente integro.

Sulle prime, le monache la accusano di ulteriore empietà: maledetta, cos’hai fatto? Ma non v’è alcun segno che la incolpi di alcunché, non v’è traccia di neonati e, anzi, una delle pesanti catene che la imprigionavano si è spezzata. La giovane racconta la sua visione e le monache chiamano il superiore della congregazione che, a sua volta, chiama proprio Aelredo. Seguono giorni, di racconti, testimonianze, nuove accuse, verifiche di catene, preghiere, finché Aelredo torna al suo monastero, «lodando e glorificando il Signore per tutto quello che avevo visto e udito e quello che mi era stato raccontato dalle sorelle». Qualche giorno dopo una lettera lo informa che anche l’altra pesante catena che inchiodava a terra la giovane si è spezzata: bene, «ciò che Dio ha sciolto, tu non legherai».

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  1. Ho letto il De sanctimoniali de Wattun, «Le monache di Watton», nella Patrologia latina, vol. 195, cc. 780-96, aiutato nella comprensione da una traduzione in inglese di John Boswell.
  2. Tra l’altro, la descrizione dei particolari fisici della gravidanza fornita in queste pagine è stata oggetto di studi che ne hanno approfondito gli aspetti di storia della medicina.

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Ragazze, vedove & mogli (Dice il monaco, LXXXIII)

Dice Aelredo, abate dell’abbazia cisterciense di Rievaulx, intorno al 1160:

È difficile in questi tempi trovare una qualche reclusa che stia sola, che non abbia invece, seduta davanti alla sua finestra, una qualche vecchia garrula e pettegola, che stia lì a intrattenerla raccontando storie, a nutrirla con mormorazioni e maldicenze, a descrivere l’aspetto, il volto, le abitudini di questo o quel monaco, o di un chierico, o di qualcuno che appartenga a un qualche ordine, infilando in mezzo a queste chiacchiere qualche tratto piccante, dipingendo o la lascivia di ragazze giovani, o la libertà di vedove che si concedono tutto quello che loro piace, o l’astuzia di mogli abili a ingannare i mariti e a soddisfare le loro voluttà. In mezzo a tutto ciò la bocca si scompone in risa e schiamazzi, e il veleno bevuto con dolcezza si diffonde nelle viscere e per le membra. Così, quando l’ora costringe a salutarsi, la reclusa si trova appesantita dai piaceri, e la vecchia carica di vettovaglie. Ritornata alla quiete, la poveretta rimugina nel suo cuore, trasformate in immagini, le cose che le sue orecchie vi avevano inserito, e trasforma in incendio violento quel fuoco che era stato attizzato dalle chiacchiere precedenti. Nei salmi balbetta, come fosse ubriaca, nella lettura le si appanna la vista, barcolla nella preghiera.

♦ Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, I, 2, a cura di D. Pezzini, Edizioni Paoline 2003, pp.124-25.

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Per favore (Dice il monaco, XLVI)

Dice Aelredo di Rievaulx, monaco cisterciense, nel 1142:

… contempla con maggiore attenzione il volto della tua anima. Se ti sei scoperto a sguazzare nei banchetti, a scaldarti spesso col vino, a impicciarti di affari mondani, a farti tormentare dalle preoccupazioni di questo mondo, a covare desideri carnali, a passare il giorno fra liti e sciocchezze, a lacerare con i morsi immondi della maldicenza la carne dei tuoi fratelli, abbandonato a un pigro ozio; se ti sei scoperto a vagare qua e là in volubile movimento come tormentato da un pungolo, a procurarti le delizie del ventre non con la tua fatica ma con il sangue e il sudore dei poveri, se poi ti sei scoperto a macchiarti spesso di ira, impazienza, invidia, disobbedienza e a preoccuparti più del tuo ventre che della tua mente, a trasgredire di continuo le regole della tua professione; se dunque in tutte queste cose te ne vai elegante e pasciuto, per favore non gloriarti delle tue lacrimucce.

Aelredo di Rievaulx, Lo specchio della carità, 2, XIV, 35, in Trattati d’amore cristiani del XII secolo, vol. II, a cura di F. Zambon, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori 2008, pp. 211-13.

 

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Rissa tra monaci

Dopo aver scritto («certamente prima del 1170») la vita del suo amatissimo abate Aelredo di Rievaulx, figura di primissimo piano dei cisterciensi, e uno dei «quattro evangelizzatori di Cîteaux», Walter Daniel riceve molte critiche. Ha esagerato, ha proposto miracoli senza portare testimoni, ha usato espressioni forvianti. Ed è così amareggiato e indignato per queste critiche che poco dopo redige una Lettera a Maurizio (probabilmente il predecessore di Aelredo) per respingerle e confutarle. Il testo è sopravvissuto poiché l’autore stesso ha finito con l’anteporlo alla Vita di Aelredo di Rievaulx, per evitare ulteriori controversie («Ho posto separatamente questa lettera all’inizio del nostro libretto in modo che vi si possa ricorrere come a un indice, soprattutto nel caso in cui, riguardo ai fatti, si rivelasse necessario produrre il nome dei testimoni»). Tutta la vicenda di Aelredo, per non parlare dell’opera, merita un’attenzione speciale, ma qui è scattata prima la curiosità per un episodio singolare.

Walter si premura anzitutto di citare estesamente i testimoni dei fatti narrati, poi di rivendicare il diritto dello scrittore di usare le armi della retorica e infine di aggiungere altre storie a riprova della santità di Aelredo. Santità che ha la sua radice primaria nella carità dell’abate, capace di sopportare le offese più gravi e di amare senza riserve anche i nemici più maligni. «Io, miserabile qual sono», scrive Walter, «porto l’abito monastico, sono tonsurato, indosso la cocolla, ed è come tale che parlo, che dico, che attesto, che garantisco, che giuro, giuro al cospetto di Colui che è la Verità stessa, Cristo nostro Signore: mi stupisco di più davanti alla carità di Aelredo di quanto mi stupirei se avesse risuscitato quattro uomini da morte.»

Era tormentato da tanti guai di salute, Aelredo, e un giorno, distrutto da una colica particolarmente dolorosa, è sdraiato su una stuoia davanti a un camino: «Tutto il suo corpo, come un foglio di pergamena posto vicino a una fiamma, era a tal punto accartocciato che sembrava avere la testa direttamente tra le ginocchia». Walter è seduto vicino a lui, molto triste. Ed ecco che arriva un «monaco epicureo, dall’aspetto taurino [quidam epicurus monachus… aspectu taurino]» e aggredisce l’abate, dapprima verbalmente, poi, afferrata a due mani la stuoia, lanciando letteralmente il sofferente nel fuoco: «Ah, miserabile! Ora ti uccido!… Che fai lì disteso, impostore della peggior specie, individuo assolutamente inutile e sciocco», adesso ti faccio vedere io! Walter reagisce e agguanta l’energumeno per la barba, ma quello è più grosso e, in poche parole, lo mena. Lo strepito è tale che sopraggiungono altri monaci, i quali, visto lo spettacolo, «non desiderano altro che mettere le mani addosso [inicere manos] a quel figlio della peste». Ma prima che la situazione degeneri, si leva la voce di Aelredo: «No, no, ve ne prego! No, figli miei!… Sono tranquillo, non sono ferito, non sono turbato», anzi, sono riconoscente al confratello che buttandomi nel fuoco mi ha purificato.

Così dicendo, Aelredo prende tra le mani il capo del monaco violento, lo bacia e lo benedice e «non diede ordine di espellerlo dal monastero, né di bastonarlo; non comandò di legarlo come un pazzo furioso, né di metterlo in ceppi; non permise infine che nessuno gli rivolgesse una sola parola di biasimo». È contro di me che ha peccato, e solo io potrei vendicarmi, ma non lo farò mai, perché la perfezione passa attraverso queste prove, ed «è così che saremo salvati». «Talionem non reddit», commenta Walter, chi sarebbe capace di tanto?

Walter Daniel, Lettera a Maurizio, in Vita di Aelredo di Rievaulx, a cura di A. Tombolini, Jaca Book 2012, pp. 173-211.

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