Che belle che sono le cronache monastiche! Certo, sono importanti per la ricerca storica; certo, non sono proprio tutte interessanti e leggibilissime, ma quando lo sono al lettore è offerta l’impagabile opportunità di sentire i rumori di un monastero di quattrocento anni fa, ad esempio, di osservarne le tavole apparecchiate in refettorio, di sbirciare nelle celle, di notare quella riparazione che ancora non è stata fatta e, di più, di ascoltare le voci della comunità che l’abitava.
L’arco temporale coperto dalla cronaca che ho appena finito di leggere1, nella eccellente edizione curata da Eleonora Rava (ricercatrice e direttrice dell’Archivio generale delle monache clarisse urbaniste d’Italia), va dal 1557 al 1650: un secolo all’incirca, che s’incastra in una storia, quella del monastero di Santa Rosa di Viterbo, che si estende senza interruzioni dal 1235 a oggi (a quella originaria di clarisse è subentrata in tempi recenti una comunità di francescane alcantarine). Il testo, non lungo, è steso da una monaca scrivana2 che si affida per la prima parte ai documenti e alla memoria delle consorelle e, a partire dal 1591, alla propria testimonianza diretta: «Dopo questo tenpo che il Signore mi agratiò di venire in questo santo loco ò visto, osservato e sperimentato il tutto»3. Ed è, in fondo, la sua la prima voce che, sin dal prologo, ci giunge chiara e distinta, e, mi sento di dire, toccante: «… io nell’ultimo di mia vita ò raccolte alcune cose passate alle mie care et amate madre e sorelle, per farne ricordo a voi figliole carissime. Non potendo in altro mostrarli quel vero e grande amore che porto al monastero di Santa Rosa, mia patria, abbitatione e sepoltura». (E che l’autrice/scrivana pensi alle sorelle che verranno, unite tramite le presenti a quelle che sono passate, lo si evince da tanti particolari. Quando ad esempio fa menzione della collocazione in archivio, «in un cannello di stangno, vicino li processi di Santa Rosa», di alcune scritture importanti per la gestione patrimoniale, aggiunge quasi a margine un «vi servi per aviso». Oppure quando ricorda che per oltre trecentocinquant’anni il monastero non era provvisto di parlatorio, aggiunge che «per vedere li secolari ci assedevamo per terra»: un plurale di secoli.)
Nei primi anni descritti dalla cronaca le cose non vanno bene: il monastero è pieno di magagne, la disciplina assai allentata (le giovani delle ricche famiglie viterbesi che vestono l’abito non pensano per questo di dover rinunciare a certi agi e privilegi), le badesse non sempre sanno imporsi o condurre bene le situazioni (una di esse vuole introdurre in comunità la pratica della musica, e fa venire da fuori quattro giovanette che «cantavano bene vesperi, messe e mottetti», ma «vi nacquero tante discordie, che penzo sia meglio aver la pace in casa, che la musica»), capitano pure gravi intossicazioni alimentari (scambiate per fatture), i confessori sono incapaci di guidare le anime, tanto che le virtù sono «ingolfate in mille pazie et in particolare nelle amicitie e gelosie di monache tumultuose et ingiuriose di parole offensive»: ognuna vuol fare a modo suo dicendo, e qui la cronaca presenta l’unico virgolettato: «La voglio così, così, così à da stare se venisse giù il cielo! così à da essere»4.
Insomma, «il vescovo non vi era in Viterbo, li ministri poco zelanti, le abbadesse non ardivano richiamarsi per non ronper la pace: tutte le nostre cose andavano al peggio. Quando in un monasterio manca l’obbedientia e i’ rispetto direi fosse bene levarli le mura».
A ulteriore riprova restano anche i verbali (le «ordinazioni») successivi alle visite pastorali del vescovo, pieni di disposizioni dettagliate e ripetute (alcune delle quali mi hanno fatto pensare a un’assemblea condominiale tardo novecentesca: «Che le monache che hanno le celle in alto con le finestre sopra le finestre di altre celle di sotto, non debbino tenere orticelli né vasi con herbe o fiori da inacquarsi, acciò non si dia impaccio o imbrattino le finestre et le cose di quelle che hanno le celle di sotto»; «Che in termine di diece dì si mandino fuora li gatti».)
Poi, nel 1624, la svolta. Dopo qualche anno a capo della diocesi di Viterbo, il vescovo Tiberio Muti trova tra il proprio clero la persona giusta al momento giusto per il compito giusto: è il sacerdote cinquantaduenne Antonio Grandini, cui viene affidata la cura di alcuni monasteri femminili, tra i quali quello di Santa Rosa. «Homo di molti fatti e poche parole», il Grandini si mette all’opera con ferma pazienza: «Quando diceva di far una cosa poteva dirsi “è fatta”». Poco alla volta ristabilisce la disciplina, restaura l’autorità delle badesse, allontana le monache che turbano la comunità, mette a posto i locali e i conti, assicura la continuità delle scritture e recupera i documenti. Forse non è il tipico «Deputato», «per dar gusto alle monache», infatti, «li mancava assai. Ognuno sa che le monache si conpiacciono esser conpatite con paroluccie dolci e lunghi raggionamenti et esser conpiaciute di quanto sanno desiderare, il che non si trovava in lui». Quando una sorella si mette a piangere per convincerlo, lui «diveniva aspro e si partiva subbito»; nondimeno agisce e difende a spada tratta la comunità verso l’esterno, rivendicano rendite e facendo rispettare accordi e proprietà, senza recedere di fronte a chicchessia. Quando muore, nel 1649, a 77 anni, il monastero è uno specchio di carità cristiana e in città, per i casi controversi, si è diffuso un modo di dire: «Rimettemoci al parere del Grandini».
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- Memorie segrete. Una cronaca seicentesca del monastero di Santa Rosa di Viterbo, a cura di E. Rava, contributi di A. Bartoli Langeli e F. Sedda, premessa di G. Zarri, Edizioni di Storia e Letteratura 2020.
- Le pagine dedicate alla probabile identificazione dell’autrice e della redattrice della cronaca sono dottissime e appassionanti al tempo stesso.
- Per rispetto al lavoro della curatrice, cito il testo nella forma in cui è edito, anche quando può essere meno chiaro o far pensare a errori di battitura.
- Questa descrizione del «disastro» è memorabile: «Non esser fidele della robba del monastero, voler l’officii contro la volontà de la abbadessa, metter li secolari per mezzani, non andar in cuoro, legger libri di battaglia pubblicamente; per ricreatione confessarsi quattro o cinque volte l’anno, sturare una vaschia di aquato [cioè “scolarsi una vasca di vinello”, chiosa la curatrice], schiaffare la abbadessa, minacciar di peggio, far raddunanza di persone discole, calpistare e perseguitare la quete. E quel che era peggio, e più insopportabile ci pareva il vivere in conpagnie di streghe con sospetto di essere amaliate».