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«Mia patria, abbitatione e sepoltura»: le «Memorie segrete» del monastero di Santa Rosa di Viterbo

MemorieSegreteChe belle che sono le cronache monastiche! Certo, sono importanti per la ricerca storica; certo, non sono proprio tutte interessanti e leggibilissime, ma quando lo sono al lettore è offerta l’impagabile opportunità di sentire i rumori di un monastero di quattrocento anni fa, ad esempio, di osservarne le tavole apparecchiate in refettorio, di sbirciare nelle celle, di notare quella riparazione che ancora non è stata fatta e, di più, di ascoltare le voci della comunità che l’abitava.

L’arco temporale coperto dalla cronaca che ho appena finito di leggere1, nella eccellente edizione curata da Eleonora Rava (ricercatrice e direttrice dell’Archivio generale delle monache clarisse urbaniste d’Italia), va dal 1557 al 1650: un secolo all’incirca, che s’incastra in una storia, quella del monastero di Santa Rosa di Viterbo, che si estende senza interruzioni dal 1235 a oggi (a quella originaria di clarisse è subentrata in tempi recenti una comunità di francescane alcantarine). Il testo, non lungo, è steso da una monaca scrivana2 che si affida per la prima parte ai documenti e alla memoria delle consorelle e, a partire dal 1591, alla propria testimonianza diretta: «Dopo questo tenpo che il Signore mi agratiò di venire in questo santo loco ò visto, osservato e sperimentato il tutto»3. Ed è, in fondo, la sua la prima voce che, sin dal prologo, ci giunge chiara e distinta, e, mi sento di dire, toccante: «… io nell’ultimo di mia vita ò raccolte alcune cose passate alle mie care et amate madre e sorelle, per farne ricordo a voi figliole carissime. Non potendo in altro mostrarli quel vero e grande amore che porto al monastero di Santa Rosa, mia patria, abbitatione e sepoltura». (E che l’autrice/scrivana pensi alle sorelle che verranno, unite tramite le presenti a quelle che sono passate, lo si evince da tanti particolari. Quando ad esempio fa menzione della collocazione in archivio, «in un cannello di stangno, vicino li processi di Santa Rosa», di alcune scritture importanti per la gestione patrimoniale, aggiunge quasi a margine un «vi servi per aviso». Oppure quando ricorda che per oltre trecentocinquant’anni il monastero non era provvisto di parlatorio, aggiunge che «per vedere li secolari ci assedevamo per terra»: un plurale di secoli.)

Nei primi anni descritti dalla cronaca le cose non vanno bene: il monastero è pieno di magagne, la disciplina assai allentata (le giovani delle ricche famiglie viterbesi che vestono l’abito non pensano per questo di dover rinunciare a certi agi e privilegi), le badesse non sempre sanno imporsi o condurre bene le situazioni (una di esse vuole introdurre in comunità la pratica della musica, e fa venire da fuori quattro giovanette che «cantavano bene vesperi, messe e mottetti», ma «vi nacquero tante discordie, che penzo sia meglio aver la pace in casa, che la musica»), capitano pure gravi intossicazioni alimentari (scambiate per fatture), i confessori sono incapaci di guidare le anime, tanto che le virtù sono «ingolfate in mille pazie et in particolare nelle amicitie e gelosie di monache tumultuose et ingiuriose di parole offensive»: ognuna vuol fare a modo suo dicendo, e qui la cronaca presenta l’unico virgolettato: «La voglio così, così, così à da stare se venisse giù il cielo! così à da essere»4.

Insomma, «il vescovo non vi era in Viterbo, li ministri poco zelanti, le abbadesse non ardivano richiamarsi per non ronper la pace: tutte le nostre cose andavano al peggio. Quando in un monasterio manca l’obbedientia e i’ rispetto direi fosse bene levarli le mura».

A ulteriore riprova restano anche i verbali (le «ordinazioni») successivi alle visite pastorali del vescovo, pieni di disposizioni dettagliate e ripetute (alcune delle quali mi hanno fatto pensare a un’assemblea condominiale tardo novecentesca: «Che le monache che hanno le celle in alto con le finestre sopra le finestre di altre celle di sotto, non debbino tenere orticelli né vasi con herbe o fiori da inacquarsi, acciò non si dia impaccio o imbrattino le finestre et le cose di quelle che hanno le celle di sotto»; «Che in termine di diece dì si mandino fuora li gatti».)

Poi, nel 1624, la svolta. Dopo qualche anno a capo della diocesi di Viterbo, il vescovo Tiberio Muti trova tra il proprio clero la persona giusta al momento giusto per il compito giusto: è il sacerdote cinquantaduenne Antonio Grandini, cui viene affidata la cura di alcuni monasteri femminili, tra i quali quello di Santa Rosa. «Homo di molti fatti e poche parole», il Grandini si mette all’opera con ferma pazienza: «Quando diceva di far una cosa poteva dirsi “è fatta”». Poco alla volta ristabilisce la disciplina, restaura l’autorità delle badesse, allontana le monache che turbano la comunità, mette a posto i locali e i conti, assicura la continuità delle scritture e recupera i documenti. Forse non è il tipico «Deputato», «per dar gusto alle monache», infatti, «li mancava assai. Ognuno sa che le monache si conpiacciono esser conpatite con paroluccie dolci e lunghi raggionamenti et esser conpiaciute di quanto sanno desiderare, il che non si trovava in lui». Quando una sorella si mette a piangere per convincerlo, lui «diveniva aspro e si partiva subbito»; nondimeno agisce e difende a spada tratta la comunità verso l’esterno, rivendicano rendite e facendo rispettare accordi e proprietà, senza recedere di fronte a chicchessia. Quando muore, nel 1649, a 77 anni, il monastero è uno specchio di carità cristiana e in città, per i casi controversi, si è diffuso un modo di dire: «Rimettemoci al parere del Grandini».

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  1. Memorie segrete. Una cronaca seicentesca del monastero di Santa Rosa di Viterbo, a cura di E. Rava, contributi di A. Bartoli Langeli e F. Sedda, premessa di G. Zarri, Edizioni di Storia e Letteratura 2020.
  2. Le pagine dedicate alla probabile identificazione dell’autrice e della redattrice della cronaca sono dottissime e appassionanti al tempo stesso.
  3. Per rispetto al lavoro della curatrice, cito il testo nella forma in cui è edito, anche quando può essere meno chiaro o far pensare a errori di battitura.
  4. Questa descrizione del «disastro» è memorabile: «Non esser fidele della robba del monastero, voler l’officii contro la volontà de la abbadessa, metter li secolari per mezzani, non andar in cuoro, legger libri di battaglia pubblicamente; per ricreatione confessarsi quattro o cinque volte l’anno, sturare una vaschia di aquato [cioè “scolarsi una vasca di vinello”, chiosa la curatrice], schiaffare la abbadessa, minacciar di peggio, far raddunanza di persone discole, calpistare e perseguitare la quete. E quel che era peggio, e più insopportabile ci pareva il vivere in conpagnie di streghe con sospetto di essere amaliate».

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Il mortologio (Reperti 56: d’Annunzio)

56. Dal 6 al 9 novembre 1898 Gabriele d’Annunzio è a Ferrara, dicono in compagnia della Duse, e si dedica a una serie di visite molto accurate, «taccuino alla mano», dei principali tesori artistici della città. Sono quattro giorni in cui il poeta si trasforma in una spugna dalla capacità assorbente pressoché illimitata, come dimostrano i relativi Taccuini, il XIX, il XX e il XXI, che riportano una serie di appunti che verranno fusi, rifusi e sviluppati, fino all’ultima parola, in scritti successivi di varia natura1. Tra i luoghi frequentati, addirittura per due giorni consecutivi, non sorprende la presenza del monastero delle clarisse del Corpus Domini, dove d’Annunzio visita le sepolture estensi, con particolare riguardo per quella di Lucrezia Borgia, ma rimane poi colpito dall’atmosfera che vi regna. Le pagine che ne sono testimonianza (piccole, circa 7 cm x 11, e scritte a matita) sono molto belle e mostrano già i segni della trasformazione delle cose in letteratura – una trasformazione ancora incompleta e quindi molto interessante. La morte è il tema, e il disfacimento prodotto dal tempo, l’abbandono, il passato remoto ne sono le variazioni.

Ad accoglierlo la prima volta ci sono quattro monache, curve e anzianissime:

La porta grigia si apre con stridore, entro. Mi attendono quattro clarisse con il volto coperto dal panno bruno. Odo le loro voci senili, sento la mancanza dei denti nelle loro bocche disfatte. Sembrano incappati che sieno per trasportare una bara.

La seconda volta a fargli da guida è un «custode», che «precede sonando il campanello, per avvertire le monache affinché si ritraggano o si velino», ma le quattro clarisse del giorno prima ci sono ancora – «ci seguono balbettando puerilmente» – e conducono il poeta al forno di santa Caterina Vegri. Già, perché prima di fondare e guidare il monastero del Corpus Domini di Bologna (dove il suo corpo incorrotto è visibile ancora oggi), Caterina Vegri è monaca a Ferrara, dal 1431, anno della sua vestizione, e in cui si insediano le clarisse, al 1456. Davanti ai mattoni anneriti, le monache raccontano che la santa

un giorno attendeva colà a cuocere il pane, quando fu chiamata alla preghiera. Ella lasciò il pane nel forno, raccomandandolo al Signore, e si partì per l’ufficio, ove restò circa quattro ore. Quando tornò al forno, essa e le compagne credevano di trovare il pane incenerito. Lo trovarono invece del color delle rose e odorifero e di sapore paradisiaco. Il Miracolo!2

Il drappello si avvia verso il refettorio e

la badessa afferma che si sente nel Monastero di tratto in tratto l’odore della Santa. Si sente specialmente quando qualcuna deve morire: è l’avvertimento della morte, è l’annunzio funebre. Allora in qualche luogo del Convento aleggia l’odore di Santa Caterina, e la Morte elegge la sua beata.

Il refettorio è molto più ampio di quanto servirebbe alla piccola comunità rimasta, che si raccoglie intorno a un solo tavolo sul fondo della sala. Uomo di parole, d’Annunzio è ovviamente attirato da un particolare:

Durante i pasti una di loro fa la lettura. V’è un leggio, e sul leggio un libro ove è tenuta nota delle suore che muoiono: il loro nome, la loro età, il giorno della loro morte. È il Mortologio. Lo leggono durante i pasti. È una commemorazione delle clarisse defunte.

Si può quasi sentire l’eco di quella debole voce in quello stanzone semivuoto. E forse non solo, come dimostra la trasformazione letteraria completa, in cui il Vate riscrive da par suo la scena, e vi aggiunge un particolare a effetto, ma nondimeno commovente:

La mano esangue e sgualcita della ottuagenaria apre il Mortologio, sopra un leggìo sperduto nel refettorio vastissimo dove le quattro superstiti occupano nelle ore dei pasti una menserella al fondo; e là tre nutricano la morte, e una legge il libro ove il trapasso d’ogni suora si registra; e le defunte clarisse così rimemorate vengono a risedersi su le panche e a rimasticare nella cenere il pane non incenerito3.

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  1. Gabriele d’Annunzio, Taccuini, a cura di E. Bianchetti e R. Forcella, Mondadori 1965, pp. 251-282; gli episodi qui annotati confluiranno ad esempio in alcune parti del romanzo Il secondo amante di Lucrezia Buti e di lì nella raccolta delle Faville del maglio (cfr. Le clarisse al limitare della morte e La tabella del lebbroso). Le citazioni sono prese da entrambe le fonti.
  2. È interessante vedere come il brano si trasforma nella pagina pubblicata: «Caterina Vegri attendeva a cuocere il pane della comunità, quando fu chiamata dalla campanella. Abbandonò il pane alla fiamma e l’accomandò al Signore, partendosi per l’ufizio. Divotamente al suo ufizio attese quattr’ore. Credette ella, tornando al forno, trovare il pane incenerito; e il medesimo credettero le compagne. Ma nella bocca ancor tiepida, e non più fosca ma rosea, lo videro d’un color dorato più dolce che l’oro delle aureole; e inebriate furono dall’odore, imparadisate furono dal sapore. O miracolo del celestiale frumento!» (da Le clarisse al limitare della morte).
  3. Sempre da Le clarisse al limitare della morte.

 

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«Sì, sono io che ti parlo» (Il «Colloquio interiore» di suor Maria della Trinità; pt. 3/3)

(la prima parte è qui; la seconda qui)

«All’inizio di gennaio del 1940 Suor Maria della Trinità comincia ad annotare su un taccuino delle parole interiori», scrive Alain-Marie Duboin nell’ultima «introduzione» che ancora precede gli appunti della clarissa, e in cui ancora si ritiene opportuno avvertire che «questo genere di comunicazione deve certamente essere accolto con prudenza». E la prima comunicazione – prima di 670 – dice: «Dimenticati! Non ti preoccupare dei tuoi bisogni materiali o spirituali. Quando hai tutto ciò che ti occorre, mi privi della gioia di prendermi cura di te»1. Dunque Gesù parla nella mente di Luisa Jacques e lei trascrive queste «parole interiori» in linguaggio umano. È anche interessante notare come sul manoscritto le parole ispirate siano poste tra virgolette (quindi sono riportate più che trascritte), mentre i commenti della monaca siano preceduti e seguiti da due trattini lunghi.

All’inizio, dal mio punto di vista, è difficile liberarsi dall’impressione che questa voce interiore sia quella della coscienza di sr. Maria, che adotta2 più o meno consapevolmente tale sistema per richiamare a se stessa i doveri della nuova vita (solo da un anno e mezzo sr. Maria è postulante, e poi novizia), per sottolineare le mancanze più o meno gravi («Non ridere della tua Superiora»), per definire e ridefinire in continuazione quello che è stato chiamato «un direttorio esigente e molto concreto di vita cristiana e di docilità alla Chiesa». In pratica, una risposta, che dopo un breve rodaggio diventerà un diario pressoché quotidiano, alla domanda che certi individui finiscono col porsi in modi più o meno pressanti: che cosa devo fare? (E anche la sua compagna: che cosa non devo fare?) Gli esempi sono innumerevoli, ne faccio alcuni, positivi e negativi: non giudicare nessuna; sii fedele nei particolari; il lavoro che devi fare è togliere; essere esigenti con se stessi, non imporre nulla agli altri; non dubitare più; ascoltami e scrivi, non occuparti più di ricami; che ciascuna delle tue giornate sia un’immagine di quanto ti dico; fate silenzio nel più profondo di voi stessi…3
Le istruzioni, tuttavia, a poco a poco, passano da un livello personale a uno decisamente più comunitario, e infine a uno ancora più astratto: sono parole rivolte alle claustrali in genere e posseggono un tono mi verrebbe quasi da dire di magistero, che poco si accorda con la figura della giovane clarissa. O forse, al contrario, queste parole sono proprio lo sfogo di una personalità ingombrante e sapiente che osserva e giudica, e al tempo stesso ne soffre il doloroso peccato di superbia? Sono molto affascinato da questo documento, dal conflitto interiore che rende leggibile e che arrovellava la stessa sr. Maria: come interpretare altrimenti una nota come la 34 (non isolata nel suo genere): «Sì, sono io che ti parlo; perché non mi credi? Ti ho mai ingannata? Tutto ciò che ti ho detto, è accaduto»? (Nota che apre la dimensione profetica di questo colloquio, intorno alla quale gli stessi curatori si muovo con ancor più cautela.) «Il maggior pericolo per voi, nella vita religiosa», recita Gesù-maestro nella nota 146, rivolgendosi ormai sempre più spesso a un voi, «sta nel cercare consolazioni dalle creature e preferire le vostre illusioni alle mie esigenze»; «Il valore della vostra vita», insegna nella nota 410, «consiste nel fatto che Dio vi è affidato, perché trasmettiate la sua conoscenza alle generazioni che vi succedono, la sua conoscenza vera, quale la Chiesa l’ha in deposito»; «Le vostre opere mi piacciono», riassume nella nota 526, «nella misura in cui vi insegnano a conoscervi e a dominarvi. Infatti, perché venite voi nel chiostro, se non per questo lavoro interiore su voi stesse che vi rende padrone dell’anima vostra, sicché possiate farmene dono?»; «Il monastero non vi appartiene», ricorda infine nella nota 657, «vi è prestato. Voi non avete diritto di vivervi secondo le vostre proprie idee, dovete vivervi così come la Chiesa lo indica. Perché la Chiesa sono io».

Ci sarebbe poi l’aspetto, molto delicato e rilevante, del cosiddetto «voto di vittima» che viene affrontato in numerose note, ed è stato anche oggetto di particolare studio, ma si tratta di materia nella quale è meglio che non mi avventuri. Se quell’impressione di cui dicevo prima è rimasta, mi è altrettanto difficile negare la forza che sprigionano questi testi. In essi si fa sentire una voce potente, talvolta delicata, talvolta inflessibile, una voce che richiede il silenzio per poter essere udita («È necessario fare un silenzio profondo, perché la mia voce è dolce»), una voce che regge il mondo ma che accetta di essere coperta dal suo rumore, una voce che dice: «Un amore che non esagera, non è amore, è affetto».

Che sia di sr. Maria della Trinità o di Qualcun altro rimane oggetto di libera e personale scelta, ma, avendola ascoltata, non si potrà dire che non risuoni a lungo.

(3-fine)

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  1. Suor Maria della Trinità (Clarissa di Gerusalemme), Colloquio interiore. Dalla conversione all’ascolto della voce divina, prefazione di Hans Urs von Balthasar, Edizioni Terra Santa 2015.
  2. Lascio volentieri l’ambiguità se qui il soggetto sia sr. Maria o la sua coscienza.
  3. Riporto qui, in nota, perché è un po’ lunga, quella che può essere quasi considerata una specie di regola: «La più sacrificata in tutto il monastero non è colei che fa il maggior lavoro visibile, è colei che fa il maggior lavoro invisibile, che sa meglio nascondersi, non incomodare nessuna, essere leggera agli altri e rendere la propria anima trasparente sicché mi si scopra in lei. Il più importante non è il lavoro che fate voi, è quello che voi mi lasciate fare tra voi. Il pericolo del chiostro sta nel cercare una distrazione alla vostra vita di privazione, fuori di me, nelle creature; Io, che vi aspetto! che sono più che la consolazione, la sorgente della gioia. Bevete alla sorgente come il vostro Padre San Francesco» (nn. 31-32).

 

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«Una piccola cosa insignificante» (Il «Colloquio interiore» di suor Maria della Trinità; pt. 2/3)

(la prima parte è qui)

Il percorso biografico che porta Luisa Jacques al Monastero Santa Chiara di Gerusalemme, dove l’attende l’ascolto diretto della voce di Gesù, comincia, come si diceva, nel 1901 a Pretoria, dove Luisa nasce da una coppia di calvinisti svizzeri impegnati nell’attività missionaria: Numa, pastore, ed Elisa, che lo assiste e che muore poche ore dopo il parto. Il racconto dei primi venticinque anni della vita di Luisa è affidato a un breve testo del francescano Alain-Marie Duboin, che narra dell’infanzia e della giovinezza trascorse prevalentemente in Svizzera, segnate da continui problemi di salute: l’educazione elementare e le cure amorevoli della zia Alice, che ha preso il posto della mamma, gli studi e i primi impieghi (contabilità, segreteria, dattilografia); letture interessi concerti amiche; la solitudine quando la famiglia si disperde e in parte ritorna in Africa; l’ombra di una relazione finita drammaticamente, piccoli, continui spostamenti, crescente inquietudine interiore.

Fino al febbraio 1926: «La notte tra il 13 e il 14 febbraio mi accadde questa piccola cosa insignificante che non fa rumore, che ha la levità di un sogno, ma che pur tuttavia è una realtà – essa ha capovolto tutta la mia vita». Qui il racconto passa nelle mani di Luisa stessa che, ormai suor Maria della Trinità, obbedendo nel 1942 alla richiesta del suo confessore, «descrive le circostanze che l’hanno condotta alle Clarisse di Gerusalemme». Luisa è ospite dell’amica Bluette, a La Chaux-de-Fonds, la sua inquietudine è sprofondata sino alla tentazione di negare Dio e quella notte le appare ai piedi del letto una persona, una religiosa, con «una specie di cappuccio in testa», muta, «trafelata e ansante come se avesse corso». La visita notturna, che spaventa molto la giovane Luisa, porta con sé la decisione: «Prima di disperare di Dio c’è ancora questo: andrò a pregare in un convento».

«Era una chiamata?» riflette Luisa, con l’accesa lucidità che contraddistingue tutti i suoi documenti. «È stata questa l’unica causa di un’attrazione irresistibile, che non era ragionata, che era subìta, verso il chiostro. Ciò valse a mutare la mia vita. Quante volte mi sono augurata di non aver avuto questa aspirazione che mi è costata tanti tentativi e tanti sacrifici!» Tentativi e sacrifici che Luisa racconta insieme con i molti dubbi, le complicazioni, le svolte, gli inciampi. È singolare la franchezza con la quale confessa la sua distanza iniziale dal mondo claustrale: è a Milano, dove ha trovato un lavoro, che ha il primo contatto con una comunità di monache: «Avevo sempre provato come una paura matta per quelle case chiuse, misteriose, che mi facevano pensare ad una specie di losca massoneria, e per quelle creature stranamente vestite che rassomigliavano a delle immagini». L’incontro è comunque decisivo, soprattutto per la delicata questione della conversione al cattolicesimo: il battesimo ha luogo nel marzo del 1928 e la sua famiglia non la prende benissimo («Papà è invecchiato di dieci anni», le scrivono dal Sudafrica).

Negli anni successivi Luisa accetta vari incarichi come istitutrice privata e intanto cerca una comunità disposta ad accogliere lei, convertita, indipendente, malaticcia. Va letteralmente «a suonare i campanelli dei conventi» e «non potrei dire quanti ne ho visitati!» È una strada tortuosa: le Piccole Suore dell’Assunzione («quest’Ordine non è per voi, noi siamo troppo austere!»), le francescane missionarie d’Egitto («troppo attaccamento alla famiglia»), le francescane del Bambino Gesù («la vita religiosa è assai dura… poco indicata per un organismo delicato»), la Società delle Figlie del Cuore di Maria (una congregazione non conventuale, all’interno della quale Luisa emette i primi voti) e infine, nel 1936, le Clarisse, presso il monastero di Evian. Ma l’approdo non è definitivo, e infatti, poco meno di un anno dopo: «Abbiamo il dispiacere di dirvi che siete rifiutata all’unanimità, non per la vostra salute, con qualche cura avrebbe  ancora potuto essere passabile, ma a causa del vostro cattivo carattere…»

Ci vorranno ancora due anni, e un viaggio in Sudafrica, prima che Luisa trovi finalmente la sua «casa» («Mi sono offerta a tutti i conventi che mi presentavano qualche possibilità di essere accettata: dovunque rifiuti»). Prima di rientrare in Italia, Luisa decide di fermarsi a Gerusalemme, in pellegrinaggio. Vi arriva il 24 giugno del 1938. Il giorno successivo, mentre si trova nella cappella del monastero delle Clarisse, Luisa ha un incontro fortuito con una suora: «“Vi volete far Clarissa?” “Avete del posto?” “Il monastero è stato costruito per 51 (!!), noi non siamo che venti. Volete parlare alla nostra Rev. Madre?” “Sì”».

Sì, Luisa Jacques è arrivata a casa, e forti di questo quasi interminabile insieme di premesse, possiamo infine avvicinarci alla «voce divina» che sr. Maria della Trinità ha ascoltato e fedelmente trascritto.

(2-segue)

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«Un’eco di ineffabili esperienze» (Il «Colloquio interiore» di suor Maria della Trinità; pt. 1/3)

Trovo molto significativo che nella più recente edizione italiana del Colloquio interiore di sr. Maria della Trinità1 i suoi «appunti» siano preceduti da un cospicuo corteo di testi introduttivi. Un’introduzione è normale, ma qui è come se, per arrivare alle «stanze» più importanti del libro, si dovesse attraversare una lunga teoria di anticamere, ognuna occupata da qualcuno che ritenga necessario avvertire il lettore sul carattere di ciò che sta per leggere. E cioè le trascrizioni dei quaderni che sr. Maria della Trinità, clarissa colettina del monastero di Santa Chiara di Gerusalemme, riempì di annotazioni dall’inizio del 1940 fino a due giorni prima della morte, avvenuta il 25 giugno del 1942.

A richiamare la mia attenzione su questa singolarissima figura del monachesimo femminile del XX secolo è stato l’intervento del francescano Claudio Bottini, pronunciato nel dicembre del 2015, proprio in occasione della presentazione del volume, e in seguito pubblicato2. Oltre a trarre le prime notizie biografiche di sr. Maria della Trinità – nata Luisa Jacques nel 1901, a Pretoria, da genitori svizzeri calvinisti, missionari in Sudafrica, e approdata infine, dopo una vicenda molto travagliata, alla comunità delle clarisse di Gerusalemme –, sono rimasto molto colpito dalle foto che accompagnavano l’articolo, e in particolare dall’immagine di alcune pagine dei quaderni3. Sono quindi andato sul sito, molto ricco, delle clarisse di Gerusalemme4, che tra le altre cose pubblicano il «Piccolo seme in terra di Gerusalemme», una newsletter dedicata alla loro consorella che ne divulga (in italiano, in inglese e in francese) documenti, testimonianze e spiritualità. A quel punto, recuperare una copia del Colloquio interiore è diventato un obbligo, e la cosa può sembrare sorprendente, persino a me stesso.

Il libro si apre con una breve prefazione del teologo Hans Urs von Balthasar, tratta dall’edizione francese del 1979, che comincia così: «Se chi possiede una certa conoscenza del Vangelo e della grande tradizione spirituale della Chiesa si accosta, senza partito preso, alla lettura degli Scritti di Luisa Jacques sarà subito colpito dall’importanza spirituale e dall’innegabile autenticità del loro contenuto». Le coordinate di avvicinamento al testo sono poste subito: cautela, niente pregiudizi, importanza spirituale, autenticità. Quest’ultima assume un rilievo tutto particolare se si considera che il tema fondamentale del Colloquio «è quello dell’ascolto interiore della voce del Signore». Sì, perché le 670 annotazioni di sr. Maria della Trinità trascrivono in parole umane i messaggi che Gesù stesso le avrebbe dettato, «messaggi senza parole tradotti in linguaggio parlato», come li definisce von Balthasar.

Il teologo svizzero indica in questa capacità di zittirsi al punto da poter udire la voce divina («Dio parla dolcemente; è molto facile coprire la sua voce») un primo aspetto della grandezza di Luisa Jacques; il secondo è il riconoscimento profondo della libertà che il Signore lascia alle sue creature («Tra la libertà umana e l’offerta divina c’è il mistero… mistero dell’azione congiunta dell’impotenza e dell’onnipotenza divina»); il terzo, quello forse più difficile per i credenti di oggi, è l’adesione al cosiddetto «voto di vittima», che si concretizza nel «grado sommo di disponibilità e di non-resistenza a tutte le decisioni di Dio», e in questo sr. Maria si allinea a una lunga tradizione che va dai Padri della Chiesa ai mistici medioevali, da sant’Ignazio a Fénelon.

Il «corteo introduttivo» di cui parlavo all’inizio prosegue con la lettera del 1942 del patriarca di Gerusalemme Luigi Barlassina al primo curatore degli scritti di sr. Maria, Silvère van den Broeck; poi con la Prefazione dei curatori  della nona edizione del 2004, Claudio Bottini e Lino Cignelli, i quali danno notizia della composizione del volume (si tratta della prima edizione integrale) e prendono le distanze dalla discussione sui possibili disturbi psicologici sofferti dalla giovane clarissa. Discussione che trovava spazio invece della nota del primo traduttore del Colloquio, Francesco Canova, di seguito ristampata. Le parole usate dal medico missionario, figura assai importante nella diffusione della conoscenza di sr. Maria della Trinità, sono all’insegna della cautela: «Il volume che presentiamo comprende nella loro traduzione letterale (tanto letterale da rispettare anche la poca chiarezza che in alcuni passi ha il testo francese) una breve autobiografia di Suor Maria della Trinità ed un mirabile colloquio che ella avrebbe avuto con una voce che le risuonava dentro l’anima e da cui venne stimolata e sorretta nella difficile via della perfezione» (il corsivo è mio). E più avanti, ancora più esplicitamente: «Quanto alla natura ed all’origine del contenuto del Colloquio interiore è ovvio che non intendiamo pronunciarci in alcun modo, ogni cautela ed ogni circospezione in tale materia sembrandoci più che giustificata. Malgrado il rispetto che noi abbiamo per un’anima tanto tormentata, è però lecito chiederci se esso sia l’eco di ineffabili esperienze o non piuttosto l’espressione delle fantasticherie di una mente troppo fervida ed esaltata». Di un’isterica, in sostanza, riassume il medico, che, ricordiamoci, scrive nel 1955. Pur non scostandosi dall’espressione di «voce interiore», il medico dedica interamente la seconda parte della sua Prefazione a confutare il sospetto di «quella malattia certamente più morale che fisica che è l’isterismo».

L’attesa per le parole di sr. Maria è a questo punto sempre più grande, ma non è ancora giunto il momento di ascoltarle.

(1-segue)

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  1. Suor Maria della Trinità (Clarissa di Gerusalemme), Colloquio interiore. Dalla conversione all’ascolto della voce divina, prefazione di Hans Urs von Balthasar, Edizioni Terra Santa 2015.
  2. Giovanni Claudio Bottini, Suor Maria della Trinità: un piccolo seme che porta frutti nella Chiesa, in «Forma Sororum» 54 (2017), 5-6 (settembre-dicembre).
  3. I manoscritti originali sarebbero, ahimè, andati perduti nel 1945 a causa di un furto perpetrato nello studio del Padre Custode di Terra Santa.
  4. Dove ho ritrovato quell’immagine e anche altre: Clarisse a Gerusalemme. Custodia di Terra Santa.

 

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«Quattro piccole persone che nel mondo non contano nulla»: le clarisse di Cademario

Vorrei avere il tempo – e non è un luogo comune – per seguire il più possibile, almeno sulla carta, le vicende di alcune comunità monastiche attraverso i vari documenti che lasciano in giro e che ormai non è difficile reperire: articoli, interviste, blog, opuscoli e piccole pubblicazioni. Lo dico perché quando ci riesco lo trovo allo stesso tempo molto istruttivo e, sì, molto riposante.

Il maggio scorso, ad esempio, le clarisse di Cademario (Canton Ticino) hanno celebrato il venticinquesimo anniversario della fondazione del loro monastero, e ovviamente la cosa ha lasciato diverse tracce scritte, a cominciare da un articolo, semplice e bello, firmato da loro stesse e apparso sull’ultimo numero di «Forma Sororum»1. «Quest’anno abbiamo la grazia di festeggiare un quarto di secolo», scrivono le monache, «il tempo appena di un respiro, ma a noi sembra di aver percorso già un lungo tratto, sia per l’intensità della vita accaduta sia per quel continuo – ma essenziale! – dirsi e ridirsi il significato di una presenza, e quindi di una vocazione»: quanto mi pare tipica, quell’insistenza, di una «professione», quella monastica, che non smette mai, a differenza di quasi tutte le altre, di interrogare se stessa.

L’articolo ripercorre la vicenda del monastero, risalendo al primissimo impulso dato dall’allora vescovo di Lugano, Eugenio Corecco, del quale vengono citate due espressioni che mi hanno incuriosito. Anzitutto le parole rivolte nel 1986 alla badessa del monastero di S. Maria di Monteluce a Perugia, per sollecitare l’invio in Svizzera di un’avanguardia di monache e che contengono una singolare ammissione di pragmatismo provvidenziale: «Penso che la verifica della volontà di Dio scaturisce dal riuscire a realizzare il progetto stesso. Se si riesce a realizzarlo, rispettando tutti i passaggi che le circostanze e le persone impongono, allora non dobbiamo dubitare di noi stessi»; e poi una frase pronunciata nel 1992, in occasione dell’inaugurazione: «Non stiamo ponendo la prima pietra di un monumento, ma di una storia di persone, una storia che ci porta verso l’eternità. Quattro piccole persone che nel mondo non contano nulla iniziano un cammino di salvezza per tutti noi»: parole che sembrano echeggiare quelle di m. Cànopi che citavo in un appunto precedente: «È certo infatti che fino alla fine del mondo ci sarà bisogno di piccoli uomini e piccole donne senza alcuna importanza, ma che sappiano stare là davanti al Signore»2.

Dopo una prima fase, non brevissima, di assestamento, si giunge all’erezione canonica del monastero, nel giugno del 2006, passo necessario per procedere alla ristrutturazione e all’ampliamento della sede originaria, una villa messa a disposizione dalle sorelle cappuccine e poi donata dalla diocesi. Mentre le monache si trasferiscono temporaneamente in città, a Lugano, presso il monastero di S. Giuseppe lasciato vuoto da una comunità di cappuccine (sempre loro), si apre la «fase del cantiere», che è molto interessante ripercorrere attraverso le tesimonianze video disponibili (qui ad esempio si possono ascoltare s. Miriam e s. Giuseppina).

La storia del monastero non è stata priva di «difficoltà varie e numerose», come ammettono con estrema discrezione le monache stesse3, e come si può trovare accennato in altre testimonianze. Qualcosa traspare, ad esempio, nelle parole dell’allora parroco di Cademario, d. Pierangelo Regazzi, qui intervistato in occasione del rientro della comunità (oggi composta da nove sorelle) nel nuovo edificio nel 20124.

Di articolo in testimonianza, si potrebbe andare avanti a lungo, e ognuno può farlo se lo desidera, per avere almeno un’idea, seppur indiretta, di monachesimo in atto: «Più volte in questi anni abbiamo constatato con stupore», riflettono le monache, «come le difficoltà ci hanno rivelato una comunione vera tra noi, mentre avrebbero potuto dividerci, oppure far morire la piccola pianta. Più volte siamo dovute ritornare con umiltà sulle scelte fatte… Più volte abbiamo dovuto ricominciare con lavori già fatti o impostati, più volte ci siamo interrogate sul nostro essere qui… La pedagogia del Signore ci continua ad educare ad un dinamismo del cuore, dove nulla sembra mai essere definitivo e sicuro, ma tutto chiede di essere continuamente accolto, guardato e amato».

Da qualunque posizione si guardi a questa letizia, non credo se ne possa dubitare.

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  1. Le clarisse di Cademario, 25 anni di presenza a Cademario, in «Forma Sororum» 55 (2018), 1 (gennaio-giugno), pp. 43-51.
  2. Anna Maria Cànopi, L’amore che chiama. Vocazione e vita monastica, prefazione di G. Savagnone, EDB 2017, vedi qui.
  3. Naturalmente anche di natura economica. Sul pieghevole diffuso per sollecitare le donazioni si può leggere ad esempio: « La costruzione di un monastero è una grossa sfida anche dal punto di vista finanziario: per questo, mentre vi ringraziamo di cuore per gli aiuti giunti sinora, continuiamo a confidare nella vostra generosità e in quella di nuovi benefattori, anche per superare alcune sopravvenute e inattese complicazioni finanziarie, che al momento non consentono il completamento di alcuni lavori».
  4. Nel ricordo che il sacerdote dedica al suo vescovo, mons. Corecco, si può leggere: «Tra le istituzioni che ha accolto in diocesi c’è stata pure la comunità delle Clarisse di Cademario: a quei tempi ero proprio io il parroco di quella parrocchia. Le cose non sono andate subito lisce. Ma alla fine la presenza di queste sorelle è stata “provvidenziale”», in «Bollettino dell’Associazione internazionale amici di Eugenio Corecco, Vescovo di Lugano» XX, 11 (settembre 2016), p. 96.

 

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«Con le sue manj». Il taglio dei capelli di Chiara d’Assisi

LeggendaSantaChiara«Et poi sancto Francesco la tondì denante allo altare, nella chiesia de la vergine Maria dicta dela Portiuncola.»

Ho approfittato dell’edizione in volume separato da poco pubblicata dalle edizioni Paoline per leggere la Leggenda di santa Chiara vergine di Tommaso da Celano. Quando mi avvicino alla «regione francescana» (e clariana), in particolare alle sue fonti, si accende una sensibilità inconfondibile, e sono certo di non essere il solo miscredente (peraltro non si è mai il solo «qualcosa») che Francesco d’Assisi zittisca. Oggi è stata la volta di una scena: il taglio dei capelli di Chiara d’Assisi.

Richiesto su come comportarsi per seguirlo nella «religione» («quando e come dovesse agire»), Francesco ha detto a Chiara di lasciare la casa paterna e di raggiungere lui e i suoi compagni a Santa Maria degli Angeli, la notte della Domenica delle Palme («el dì de la oliva», del 1211 o del 1212). Lei lo fa, uscendo da una porta secondaria, che apre miracolosamente, e «accompagnata da una onesta compagnia». In breve raggiunge la chiesa della Porziuncola, illuminata da fiaccole e dove i frati la stanno aspettando in preghiera. «E lì subito, gettate via le brutture di Babilonia, diede al mondo il libello del ripudio, tagliati per mano dei frati i capelli, depose anche i vari ornamenti» (Leggenda, IV).

Così scrive Tommaso da Celano. È un brano che nel suo complesso è stato, come è ovvio, attentamente analizzato, poiché ricco di sfumature e allusioni, ma del quale rimane intatta la forza dell’immagine notturna della chiesetta, illuminata dalle torce e presumibilmente fredda (è marzo), in cui fa il suo ingresso Chiara, attesa dai frati. Il curatore della Leggenda, Marco Guida, osserva sulla scorta di diversi studi anche il significato preciso della scelta del Celano di attribuire collettivamente ai frati, in contrasto con le fonti agiografiche precedenti, il taglio dei capelli di Chiara: la «responsabilità corale» nella fuga della giovane serve a ribadire, a molti anni di distanza dai fatti «il legame tra “sorelle povere” e “frati minori” caratteristico delle origini».

Altre «leggende», invece, scelgono comprensibilmente di unire Chiara e Francesco anche in quel gesto. Come nel caso della Legenda minore umbra, in volgare, probabilmente della fine del XIV secolo, che anzitutto precisa che i frati stavano proprio pregando per Chiara, «che non havesse impedimento al suo sancto desiderio et proponimento»; che restituisce poi ancora più poetica l’immagine della chiesa, «et intrando nella echiesia dove erano multi lumi accesi, però che li frati cantavano multe belle laude de Dio, et himnj sancti multo devotamente»; e arriva infine così all’apice della scena (che merita la citazione estesa):

«Et vestita de una soctana grossa, sancto Francesco con le sue manj sì li moçço et tondì li soi capilli, et cénseli una grossa corda, et puseli in capo uno velo biancho et uno negro de grosso et materiale panno. – Porresti pensare piatosamente, che era ad vedere una fanciulla tanto dilicata de .xiij anni andare con una soctana grossa et così grosamente velata con quillo angelico volto, et acompagnata da così poveri frati.»

Tommaso da Celano, Leggenda di santa Chiara Vergine, a cura di M. Guida, Edizioni Paoline 2015; la Legenda minore umbra, e tante altre cose molto interessanti, si può trovare nel sontuoso Fonti clariane. Documentazione antica su santa Chiara d’Assisi…, a cura di G. Boccali ofm, Edizioni Porziuncola 2013.

 

 

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Clausura e cardiochirurgia

Sul numero 1/2015 di «Forma Sororum» si è concluso un ciclo di «Riflessioni sulla clausura» di m. Elena Francesca Beccaria, clarissa. Sono testi tratti da incontri di formazione tenuti in un monastero di clarisse, origine che li rende di particolare interesse: sono, se così si può dire, la relazione di un chirurgo cardiaco, che ha riflettuto a lungo sulla propria pratica, fatta a un convegno di colleghi. Certo che, se così è, che cosa ci vado a fare a un congresso di cardiochirurgia? Che cosa penso di poter capire della materia esposta? La risposta è: niente.

Una cosa, forse, posso dire di averla capita, e cioè che il cuore è un organo complesso e dall’equilibrio delicato. Anzi, lasciamo da parte subito la metafora: la clausura è un meccanismo, no, una condizione complessa e dall’equilibrio delicato; che ha una sua storia, che non è uguale per tutti i monaci e le monache che vi hanno aderito, che anche per chi la sceglie oggi è una strada ardua, priva di automatismi e scorciatoie – forse ancor più per chi oggi vi è chiamato. È la stessa m. Beccaria a parlare di «crisi della clausura», della necessità di ripassarne le strutture fondamentali, ben al di là della «poesia» del fenomeno. Mi pare che dalle sue parole traspaia una tensione accesa, seppure ben dissimulata, tra quello che viene interpretato come un scivolamento sempre più deciso del mondo verso una «antropologia non cristiana» e la costante del significato primo della clausura. Se infatti la clausura è anzitutto una risposta particolare a una particolare chiamata, le conseguenze di questa risposta «sono concrete e costose, non così romantiche», e se non sono ricondotte sempre al suo centro (l’amore di Gesù, una «cosa» davanti alla quale faccio completo silenzio) possono rendere la situazione «intollerabile».

Il mondo, sembra dire m. Beccaria, va da una parte, noi claustrali dall’altra, e ciò nonostante da esso non siamo sganciate, soprattutto da chi lo popola, con un movimento paradossale che ricorda le beatitudini: gli ultimi saranno i primi…, chi si nasconde è tanto più «presente». In fondo un’aria di paradosso, che voglio credere assai proficua per chi la respira, c’è anche, ad esempio, per ricordare un emblema della clausura, nel «valore della grata», che separa per, prima ancora da; o ancora nel fatto che la reclusione ponga un accento fortissimo sulle relazioni fraterne: «Siamo come inchiodate al fianco della sorella, di ogni sorella». La relazione viene vissuta, così, in maniera molto più radicale che nelle situazioni cosiddette normali: la monaca di clausura sta, sta dentro, costantemente, il luogo, la relazione, la preghiera, ecc. Sta lì, credo si possa aggiungere, in attesa.

Io non capisco quando un cardiochirurgo parla di cardiochirurgia, ma in linea di principio credo che sappia di cosa stia parlando, a maggior ragione se ne va della vita di qualcuno. Magari, talvolta, mi disturba un po’ quando suggerisce velatamente che la sua percezione delle cose, da quello che sarebbe il suo punto di vista privilegiato, è più profonda delle altre. La questione qui non è semplice, ma diciamo che se l’affermazione è fatta insieme con passione e con garbo la mia irritazione non dura molto.

m. Elena Francesca Beccaria, o.s.c., Per amore dello sposo celeste. Riflessioni sulla clausura, in «Forma Sororum», 4/2014, 5-6/2014, 1/2015.

 

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Racchiusi insieme protesi

«Custodiscimi come pupilla degli occhi, / proteggimi all’ombra delle tue ali, / di fronte agli empi che mi opprimono, / ai nemici che mi accerchiano» (Salmi, 17 [16], 8-9); «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali» (Matteo, 23, 37).

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Sano di Pietro, “Madonna della Misericordia” (Siena; 1440 ca.; coll. priv.)

Poche immagini come quella della Madonna della Misericordia si prestano così bene a sintetizzare il senso della comunità monastica: il senso dell’essere racchiusi in un luogo, dell’essere insieme, dell’essere protesi verso qualcuno che sta al di sopra di quel luogo. E il Cristo può essere più che degnamente sostituito, in quest’ultimo aspetto, da sua madre. Negli esempi medievali di questo potentissimo tema iconografico, assai diffuso anche tra i laici, c’è poi per me un tratto particolarmente significativo, cioè l’anonimato dei membri della comunità raccolti sotto il manto di Maria, un anonimato dovuto non soltanto allo sviluppo del linguaggio pittorico, ma anche all’acerbità del concetto di individuo.

Come nel caso, scegliendo un esempio tra i più belli, delle clarisse (?) di Sano di Pietro: sorelle distinte soltanto dai voti – si riconoscono chiaramente le due novizie più «piccole» anche nelle dimensioni – e da un codice del velo che, ahimè, non so decifrare. Oltre a quelle visibili, poi, ve ne sono altre quattro, sulla destra, di cui si scorge a malapena solo il contorno del capo: sorelle dell’anonimato perfetto.

Zurbaran_Sevilla

Francisco de Zurbarán, “La Virgen de las Cuevas” (1665; Sevilla, Museo de Bellas Artes)

Che differenza, giusto per fare un altro esempio, con gli immacolati certosini di Zurbarán, che hanno con tutta evidenza un nome e un cognome, una personalità e che il giorno prima che venisse il maestro per il quadro devono essersi ricordati di far stirare le loro tonache con particolare cura. (Anche qui d’altra parte ci sono tre confratelli completamente nascosti.)

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Un pane e due pesciolini (courtesy of santa Chiara)

FontiClariane«Sono molti anni che p. Giovanni Boccali, con pazienza, umiltà e sapienza, raccoglie antiche memorie attorno alla figura di Chiara d’Assisi.» Questa frase apre – con notevole finezza direi – la presentazione che Marco Bartoli firma delle Fonti clariane, cioè del volume di «Documentazione antica su santa Chiara d’Assisi: scritti, biografie, testimonianze, testi liturgici e sermoni», a cura di Giovanni Boccali ofm, che le Edizioni Porziuncola hanno pubblicato l’anno scorso. Un volume eccezionale.

È una sensazione molto bella, e molto precisa, quella che si prova quando si ha in mano un libro che unisce a un argomento di proprio vivo interesse una forma elegante e sostanziosa: tutto è in ordine, disposto con chiarezza e distinzione, la promessa di sapere è limpida, il caos, o almeno una parte di esso, sembra vinto. In maniera più seria, lo dice anche il presentatore, che commenta: «Si tratta, come è evidente a chiunque lo prenda in mano, di un tesoro considerevole, con testi di natura, genere letterario e epoche di redazione differenti», e aggiunge in modo un po’ inatteso: «Come lo si può utilizzare?»

Per mia fortuna io mi ci posso buttare dentro, senza doveri né cautele. E così, nella pagina che apro a caso, «si parla di un segno di pesciolini e di un pane che le furono mandati da Dio». È uno degli «episodi singolari» che compaiono nella Leggenda tedesca di Chiara d’Assisi, di sr. Caterina Hofmann, volgarizzamento della «leggenda» ufficiale Admirabilis femina, attribuita a Tommaso da Celano.

Un giorno, a carnevale, «la cara santa volle che le sue sorelle fossero nutrite con qualcosa che le consolasse». Va in cucina a chiedere, ma la dispensiera la informa che non c’è niente, «né pane, né farina, né alcunché da mangiare», nix, nada. Ciò nonostante, dopo i Vespri, Chiara va in refettorio e apparecchia («e adornò le tovaglie come meglio poté con le sue stesse mani»); dopodiché, sotto gli occhi meravigliati delle consorelle si mette in ginocchio a pregare. Nell’istante in cui termina la sua preghiera bussano alla porta del convento: una «bellissima signora» consegna un cesto alla portinaia e le dice di portarlo subito alla santa, che lei sa.

«La beata santa Chiara aprì il cestello e vi trovò un pane e due pesciolini come aveva chiesto a nostro Signore.» Allegrezza, rendimento di grazie e distribuzione, e qui il fatto interessante: i pesciolini arrivano sulla tavola «arrostiti». Lo erano da prima? Si sono cotti nel trasporto? Chi può dirlo. Ah, va da sé che tutte le consorelle, nonostante si trattasse di due pesci e un pane, ne ebbero «una parte sufficiente e soddisfacente».

Mi si perdonerà la celia, non è altro che un omaggio a un volume davvero eccezionale, per il quale è doveroso essere grati a chi l’ha curato e a chi l’ha pubblicato.

Fonti clariane. Documentazione antica su santa Chiara d’Assisi: scritti, biografie, testimonianze, testi liturgici e sermoni, a cura di G. Boccali ofm, Edizioni Porziuncola 2013.

 

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