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Come in una pentola che bolle (Dice il monaco, C)

(Per il centesimo «Dice il monaco» la parola non può che andare ancora una volta a san Bernardo, che di questi appunti è un po’ il nume tutelare. E quindi…) Dice Bernardo di Chiaravalle, monaco e abate cisterciense (1090-1153), commentando il Cantico dei Cantici:

C’è, dunque, un unguento che l’anima, irretita nelle proprie colpe, produce per se stessa. Infatti, quando inizia a scrutare le proprie vie, raccoglie, riunisce e pesta nel piccolo mortaio della coscienza le molte e varie specie dei propri peccati e, all’interno del proprio cuore, come in una pentola che bolle, cuoce tutto insieme, con una specie di fuoco generato dalla penitenza e dal dolore… Ecco, questo è l’unico unguento con il quale l’anima peccatrice deve addolcire gli inizi della propria conversione e che deve applicare alle sue piaghe recenti: il primo sacrificio a Dio, infatti, è uno spirito contrito.

♦ Bernardo di Chiaravalle, Sermone X, 5, in Sermoni sul Cantico dei Cantici, introduzione di J. Leclercq, traduzione e note di C. Stercal, con la collaborazione di M. Fioroni e A. Montanari, parte prima («Opere di San Bernardo» V/1), Città Nuova 2006, p. 129.

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Imbottigliata e conservata (Dice il monaco, XCIX)

Dice Michael Casey (n. 1942), monaco trappista australiano dell’abbazia di Tarrawarra:

La tradizione benedettina è più che un vocabolario specializzato o un codice di condotta – per quanto ammirevole. È la trasmissione della vita. Mentre la continuità è la sua essenza, la sua missione è incompleta se non diventa un agente di cambiamento – se non fa la differenza per coloro che la ricevono. È una storia continua di un complesso di credenze, valori e pratiche che si sono cristallizzate nel testo del VI secolo conosciuto come Regola di san Benedetto. Oltre al suo contenuto oggettivo c’è un elemento che varia da persona a persona che è il cuore del suo potere di iniziare un processo di trasformazione. La tradizione non esiste al di fuori delle persone, non può essere imbottigliata e conservata. Essa è elettrica: la scintilla salta da una persona all’altra.

E in unintervista dello scorso anno risponde a questa domanda:

«Padre Michael, nei passaggi decisivi della storia la presenza monastica ha sempre avuto un’importanza decisiva. Tuttavia nel cambiamento epocale che stiamo vivendo il monachesimo registra oggi un ruolo abbastanza marginale.»

Certo, è vero: pensi a esempio che gran parte della classicità e della cultura umanistica che oggi studiamo nelle scuole e nelle università è giunta a noi attraverso la preservazione e trasmissione operata da generazioni di monaci. Ma, vede, i monaci custodiscono la memoria, la tradizione. Non è compito dei monaci cambiare il mondo, e neanche, in verità, cambiare le persone. Ai monaci non è richiesto di essere numerosi, e tantomeno di saper imporre un’egemonia culturale. Io penso piuttosto ai monaci come a un piccolo gruppo di uomini e donne, dal profilo ordinario, che cercano di vivere in semplicità il Regno di Dio. Null’altro che questo. La Grazia che i monaci possono trasmettere oggi al mondo viene da qui: essere ordinari, piccoli, semplici. La santità che i monaci ricercano nella loro vita semplice deve riuscire attrattiva, noi non dobbiamo convincere o convertire nessuno.

Michael Casey, La Regola e la tradizione. Un viaggio personale, lectio magistralis in occasione del Dottorato honoris causa consegnato dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, 6 aprile 2022, in: «Vita Nostra» 23, a. XII (2022), n. 2, p. 37.

♦ Roberto Cetera, Uomo della tradizione. Il monaco secondo padre Michael Casey, in: «L’Osservatore Romano», 20 aprile 2022.

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La grande convergenza (Dice il monaco, XCVIII)

Dice Bernardo di Chiaravalle, monaco e abate cisterciense (1090-1153), intorno al 1138:

Non stupirti se nelle qualità umane si trovino cose così dissimili: basta che tu faccia un’accorta attenzione a quanta diversità di nature si riscontra che coesistono nella stessa sostanza. Cosa è più sublime dello spirito di vita? Cosa è più umile del fango della terra? Di certo penso che non rimase nascosta agli stessi sapienti di questo mondo la grande convergenza nell’uomo di cose talmente divergenti, quando hanno definito l’uomo animale ragionevole e mortale. Di sicuro è stupefacente abbinare la ragione con la morte, come lo è accompagnare la discrezione con la corruzione. Ed è proprio così, nei comportamenti, così nei sentimenti, così nelle passioni degli uomini dove si trova una serie di contrasti non minore, anzi, forse, più ampia. Se poi scruti a parte tutta la depravazione, e di nuovo consideri singolarmente tutto ciò che di buono pure vi si trova, penserai certamente che la coesistenza di cose talmente diverse è un vero e proprio miracolo.

♦ Bernardo di Chiaravalle, Sermone V nella dedicazione della chiesa, 7, in Sermoni per l’anno liturgico, t. 2, introduzione, traduzione e note di D. Pezzini («Opere di San Bernardo» III/2), Città Nuova 2021, p. 815.

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I significati comuni delle parole (Dice il monaco, XCVII)

Dice Basilio di Cesarea, che «applicò l’esegesi in un’ampiezza e con una passione che tracimano in ogni sponda nelle Omelie sull’Esamerone» (F. Trisoglio), intorno al 378:

Io conosco le leggi dell’interpretazione allegorica, anche se non sono stato io a scoprirle, ma mi sono incontrato con altri che le avevano faticosamente elaborate. Quelli che non accettano i significati comuni delle parole che sono scritte dicono che l’acqua non è acqua, ma una qualche altra sostanza diversa; interpretano le parole «pianta» e «pesce» come credono loro; la creazione dei rettili e delle bestie selvatiche la spiegano distorcendola a seconda delle proprie congetture, come fanno gli interpreti dei sogni, i quali danno le interpretazioni che loro interessano delle immaginazioni che sono loro apparse durante il sonno. Per conto mio, quando sento parlare di erba penso all’erba; e anche pianta, pesce, bestia selvatica, mandria io li accolgo tutti come sono detti: «Infatti, io non mi vergogno del Vangelo».

♦ Basilio di Cesarea, Omelia IX, Gli animali terrestri, 1, in Omelie sull’Esamerone e di argomento vario, a cura di F. Trisoglio, revisione dei testi greci, indici e bibliografia di V. Limone, Milano, Bompiani, 2017, pp. 335-337.

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Lo stomaco dell’anima (Dice il monaco, XCVI)

Dice Bernardo di Chiaravalle, monaco e abate cisterciense (1090-1153), in uno dei suoi Sermoni sul Cantico dei Cantici:

Vi sono alcuni che vogliono sapere solo al fine di sapere: ed è turpe curiosità. Ci sono altri che vogliono sapere per essere, essi stessi, conosciuti: ed è turpe vanità. Essi certamente non schiveranno il beffardo Satirico che, per chi è così, canta: «Il tuo sapere non è niente, se un altro non sa che tu sai». Ci sono anche quelli che vogliono sapere per vendere la loro scienza, ad esempio per denaro, o per onori: ed è turpe guadagno. Ci sono, però, anche quelli che vogliono sapere per edificare: e questa è carità. Ci sono, infine, quelli che vogliono sapere per essere edificati: e questa è prudenza.

Di tutti costoro, soltanto gli ultimi due non commettono un abuso nei confronti della scienza, poiché desiderano conoscere al fine di compiere il bene. Inoltre: «La comprensione è buona per tutti quelli che la mettono in pratica». Tutti gli altri prestino ascolto: «Chi conosce il bene e non lo compie, commette peccato», come se dicesse, con un esempio: prendere un cibo e non digerirlo fa male. Un cibo indigesto, infatti, e non ben cotto produce umori cattivi e reca danno al corpo, invece di nutrirlo. Allo stesso modo accade per un’abbondante scienza introdotta nello stomaco dell’anima, che è la memoria; se questa scienza non è cotta dal fuoco della carità e trasfusa e assimilata attraverso le articolazioni dell’anima – cioè i comportamenti e le azioni – e non è resa positiva dalle cose buone che ha conosciuto – attestandolo con la vita e i comportamenti –, tale scienza non sarà forse considerata peccaminosa, come il cibo trasformato in umori cattivi e nocivi? […] Non soffrirà, forse, gonfiori e contorcimenti nella coscienza, un uomo di tal fatta, vale a dire che conosce il bene e non lo fa?

♦ Bernardo di Chiaravalle, Sermone XXXVI, III, 3-4, in Sermoni sul Cantico dei Cantici, introduzione di J. Leclercq, traduzione e note di C. Stercal, con la collaborazione di C. Dezzuto, M. Fioroni e A. Montanari, parte seconda («Opere di San Bernardo» V/2), Città Nuova 2008, pp. 39-41.

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I doveri di un camionista (Dice il monaco, XCV)

Dice Augustine Roberts, monaco trappista, nel 1970:

In realtà, gli obblighi derivanti dai voti non possono essere imposti dall’esterno, come leggi che restringano la libertà di una crescita spirituale, ma devono germogliare spontaneamente dal cuore della vita monastica. Essi sono di fatto espressioni e doveri di uno stato di vita speciale, come lo sono, ad esempio, i doveri di un camionista, di un medico o di un astronauta. Un camionista non può ubriacarsi o addormentarsi quando guida di notte. Tale attenzione è obbligo intrinseco alla sua condizione. Allo stesso modo, l’adempiere i voti della professione è dovere intrinseco alla condizione monastica. Non perché l’Ordine o la Regola li impongano, quanto piuttosto perché il monaco sceglie liberamente uno stato di vita in cui tutto si orienta verso l’amore di Cristo.

♦ Augustine Roberts, Il libro della trappa. Orientamenti pratico-dottrinali sulla professione monastica, traduzione di F. Mazzariol, Jaca Book 19762, p. 18. (Un primo assaggio di un testo di estremo interesse, nato alla fine degli anni ’60 come appunti ciclostilati, passato attraverso decenni di revisioni e di vita monastica [Hacia Cristo, 1970, che cito qui, poi 1978 e 1994], numerose traduzioni [Centered on Christ, 1979, 20053; Tendre vers le Christ, 2007, tra le altre] e approdato infine a Configurati a Cristo. Una guida alla professione monastica, Nerbini, «Quaderni di Valserena», 2018. Senza contare l’estremo interesse della figura del suo autore, nato a Nanchino nel 1932 da genitori statunitensi episcopaliani…)

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Forse mai più (Dice il monaco, XCIV)

Dice Lanspergio, al secolo Johannes Gerecht, «uno dei pochissimi certosini (due in tutto: lui e Sutor) che furono lodati ufficialmente dal Capitolo generale dell’Ordine per la loro attività letteraria», (1489-1539):

Dimorare pacifico nella solitudine è la sorgente di ogni beatitudine. Infatti è più formativo conservarsi puro e vergine in ogni cosa, che percorrere immensi volumi. Chiunque vuole conservare familiarità col mondo, ne riceverà numerose ferite. […] Non darti a nessuna cosa con eccesso, al di fuori del semplice uso e necessità richiesti dalle cose presenti, delle quali bisogna occuparsi, ma senza attaccarvi il cuore. […] Non vagabondare di qua e di là, riempiendoti di chiacchiere inopportune e parlando senza necessità. Infatti, in un’ora sola tu puoi uscire a tal punto da te stesso che non potrai rientrarvi che a gran pena e in molti anni; forse mai più. Ritorna continuamente alla solitudine, alla conversazione interiore… Quale che sia il tuo pensiero, la tua ricerca continua e qualsiasi cosa ti capiti di soffrire, continua il tuo cammino. Tu non vi giungerai mai in un’effervescenza di parole senza costanza.

♦ Lanspergio, Speculum christianae perfectionis, XXI, XXX; in Alla scuola del silenzio. Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, prefazione di A. Matteo, Rubbettino 2021, pp. 142-43.

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Le miserie e le fiacchezze spirituali da me collezionate (Dice il monaco, XCIII)

Scrive Gualtiero, «vecchio e malato monaco» benedettino, probabilmente dell’abbazia di Bury St. Edmunds, ad Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury, intorno al 1106:

Al desiderabile signore Anselmo, degno d’essere il più affettuosamente possibile accolto nel seno di sua madre la Chiesa universale: il fratello Gualtiero, uno dei suoi, l’ultimo resto dei suoi devoti; con l’augurio di bastantemente attingere la desiderata abbondanza, la gioia più profonda. […]

Prima della mia fine, se ciò fosse possibile, moltissimo desidererei avere la gioia di vedervi e dolermi con voi delle mie afflizioni. Poiché il mio tempo è trascorso, né so se dalla mia lunga esistenza ho tratto qualche frutto. Siccome però l’indebolimento dovuto alla vecchiaia rende tale mio desiderio irrealizzabile, eccomi a non senza gemiti delinearvi, qui dove mi trovo, le miserie e le fiacchezze spirituali da me collezionate. Ciò in particolar modo implorando: che – come vi siete fatto tutto a tutti – così non rifiutate di amabilmente istruirmi con una vostra risposta; proprio come, all’occasione, mi confortereste faccia a faccia. Avrò in tal modo un efficace riparo dalle mie difficoltà e un gradito ricordo della vostra dolcezza. Precisamente a ciò mira la mia preghiera: a far sì che, non potendo io avervi tutto quanto come mi augurerei, a me vi concediate almeno in piccola parte; non perché questa possa sostituirvi, ma perché, al guardarla, riprenda io fiato grazie al vostro conforto. Non già che alla mia infermità non basti il nutrimento delle Scritture; è però sempre preferibile, quando si è malati, ricevere in dono ciò di cui si avverte la mancanza. Basta talora il tocco di una sola persona a calmare chi da molti medicamenti non ricava alcun beneficio.

Anselmo d’Aosta, Lettera 433, in Lettere, vol. 2: Arcivescovo di Canterbury, tomo 2, traduzione di A. Granata, commento di C. Marabelli, Jaca Book 1993, pp. 427-29.

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Piccolo decalogo della comunicazione, © 373 by san Basilio (Dice il monaco, XCII)

Dice Basilio di Cesarea, scrivendo all’amico Gregorio di Nazianzo nel 373:

Prima di tutto occorre badare a non ignorare il modo di usare la parola, ma a interrogare senza animosità [1], a rispondere senza ambizione [2], senza interrompere l’interlocutore [3] quando dice qualcosa di utile, senza desiderare di mettere avanti il proprio discorso [4] per mettersi in mostra; a porre discrezione nel parlare e nell’ascoltare [5], a imparare senza vergognarsi [6], a insegnare senza invidia [7]; e se si è imparato qualcosa da un altro, a non nasconderlo, ma a proclamare equamente l’autore di quel tale discorso [8]. Il tono di voce da preferire è quello medio [9], in modo che l’ascolto non sfugga per troppo fievolezza né sia troppo faticoso per eccessiva intensità. Solo dopo aver esaminato in precedenza il contenuto del discorso, bisogna esporlo in pubblico [10]

♦ Basilio di Cesarea, Lettera all’amico Gregorio, in Epistolario, a cura di A. Regaldo Raccone, Edizioni Paoline 1968, p. 49.

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In altre parole, un affarone (Dice il monaco, XCI)

Dice Pietro di Celle, abate benedettino (morto nel 1182):

Certo, dal punto di vista del diritto, il merito e la ricompensa dovrebbero camminare allo stesso passo, ma da quello della grazia prevale la ricompensa. È stupefacente chiudersi per poco tempo nel recinto di un chiostro [antro claustri] e poi possedere per l’eternità gli spazi infiniti del cielo; prosciugare con l’astinenza questa carne fatta di fango [limosam carnem] e ricevere, alla risurrezione, con gli angeli un corpo spirituale liberato da ogni fardello; scambiare il chiasso del mondo per le melodie degli angeli; raccogliere consolazione per la desolazione, ricchezze per la povertà, gloria per la sottomissione, Dio Padre per un padre, Dio Figlio per dei figli, Dio Spirito Santo per ogni conoscenza e affetto carnale. Nessun venditore ha venduto così, nessun acquirente ha acquistato così, nessun mercante ha mercanteggiato così.

♦ Pietro di Celle, La scuola del chiostro (De disciplina claustrali), Epil., a cura di p. M. Di Monte, Edizioni Monasterium 2022, p. 141.

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