Nel suo trattato sulla Natura del corpo e dell’anima, composto intorno al 1140, Guglielmo di Saint-Thierry, per illustrare il rapporto che intercorre tra la seconda e il primo, si dilunga sull’esempio delle mani. Che non sia, come si suol dire, «farina del suo sacco», ce lo ricorda lui stesso: «Devi sapere che quanto leggi non è mio. Io ho raccolto qui, in un solo scritto, passi tratti in parte da libri di filosofi e medici, in parte da libri di dottori della Chiesa». E in questo senso il trattato di Guglielmo1 è molto utile per avere un’idea dello stato delle conoscenze condivise sulla fisiologia del corpo umano alla metà del XII secolo. Per la parte dedicata all’anima, in cui si trova l’esempio delle mani (II, 66 e segg.), la fonte primaria è il De opificio hominis di Gregorio di Nissa, che Guglielmo legge nella traduzione latina di Giovanni Scoto Eriugena, il De imagine.
Il modo in cui l’animo, l’anima, la sostanza intellettuale, «si accosta» al corpo è beninteso «sovrarazionale e inintelligibile» e «non può essere detto né inteso», tuttavia si può dire che l’animo produca i suoi effetti come se stesse suonando uno strumento musicale, essendo tale strumento il corpo, le parti del quale sono quindi concepite perché possano essere «suonate» dall’anima.
Si prendano ad esempio, appunto, le mani, che sono una prerogativa esclusiva dell’essere umano: «Sono molte le funzioni, di pace o di guerra [corsivo mio], per le quali la natura ha costruito le mani, ma di esse ha dotato il corpo umano anzitutto per una precisa necessità della ragione» (ah, la tentazione odierna di dimenticare l’evoluzionismo per una mezz’oretta…). Se non le avessimo, dovremmo mangiare come i quadrupedi, «il collo dovrebbe allungarsi per raccogliere il cibo da terra, il naso si ridurrebbe come quello dei bruti, davanti alla bocca sporgerebbero labbra callose, pesanti, spesse, adatte a strappare l’erba, le parti carnose attorno ai denti sarebbero solide e dure, come nei cani e negli altri animali che si cibano di carne», e così non potremmo articolare la voce, ma beleremmo o muggiremmo, e così via. L’animo, che accoglie tramite i sensi tutte «le sensazioni che penetrano in lui da ogni parte» (e che lui «annota nella memoria»), e che nel suo intimo è muto, grazie alla voce può invece esprimersi, permettendoci anche di «conversare fra di noi» e di esercitare la ragione. Le mani hanno quindi sollevato la bocca da un incarico che l’avrebbe compromessa. Ma non solo.
Con le mani abbiamo potuto mettere a punto la scrittura, altro mezzo esclusivo di espressione. «Sia le mani sia la bocca servono dunque alla ragione. Le mani scrivendo per chi verrà o per chi è assente, la bocca formulando in parole con la massima facilità e prontezza tutto quello che la ragione suggerisce nell’interiorità.» Le labbra si aprono e si chiudono, come quelle di un suonatore di flauto, che grazie ai movimenti delle dita trae dal suo strumento una melodia: «In tal modo la natura umana articola le parole; la loro disposizione però è opera della ragione».
Sarebbe bello poter condividere la fiducia di Guglielmo.
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- Guglielmo di Saint-Thierry, La natura del corpo e dell’anima (De natura corporis et animae), a cura di A. Siclari, Nardini 1991.