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Con sorpresa di molti (Paul Quenon e la vita inutile)

Gethsemani 2023 01

Abbazia di Gethsemani (foto Potts)

 Ho avuto modo di tornare su un libro che avevo letto qualche anno fa, In Praise of the Useless Life, Elogio della vita inutile1, il cui autore, Paul Quenon, è monaco trappista presso l’Abbazia di Gethsemani, a New Haven, in Kentucky, da oltre sessant’anni e vi ha passato la prima parte del suo noviziato sotto la guida di Thomas Merton, che quella abbazia a suo modo ha reso famosa. Allora, ad attrarre la mia attenzione era stato, oltre alla testimonianza su Merton, il capitolo dedicato agli eremitaggi che sorgevano nei dintorni dell’abbazia; questa volta, invece, il libro mi ha colpito per la quantità di particolari che, mi sento di poter dire, soltanto un monaco americano poteva scegliere di includere nel suo testo.

Si tratta di osservazioni, immagini, paragoni, piccoli aneddoti che restituiscono una concretezza che un monaco europeo, forse avrebbe evitato, per pudore o per non dare l’impressione di eccessiva «ordinarietà» e quotidianità al racconto (per episodi) di una vita dedicata alla ricerca di un rapporto più intimo con Dio.

Quando ad esempio parla dell’utilità di mandare a memoria poesie, salmi, brani della liturgia fr. Paul ricorda che «un mattino l’anziano fr. Claude, mentre aiutava il cuoco a pulire le verdure, si lanciò in un medley di vecchie canzoni di Broadway, addirittura precedenti la Prima guerra mondiale». Per far capire lo «sballottamento» che può produrre la lettura dei Salmi dice che è un po’ come quando, «da bambini, seduti sui sedili posteriori della Chevrolet nera di papà, molto prima che fossero obbligatorie le cinture di sicurezza, attraversavamo veloci le colline della Virginia del West» – sballottati su e giù, appunto. La sveglia che punta per alzarsi per l’ufficio notturno e che poi non sente perché ha messo la testa sotto il cuscino; il calendario che gli mandano quando scrive per la prima volta all’abbazia e le foto che lo affascinano; il giradischi col quale ascolta le sinfonie di Bruckner mentre è in ritiro all’eremitaggio; la piccola macchina fotografica che tiene in una delle capienti tasche del saio. Oppure, ripensando a lungo viaggio in auto per seguire alcuni corsi a San Francisco, ricorda ancora «le autostrade che attraversano i Great Plains: così ampie, e vuote. Potevo sistemare il Salterio sul volante e recitare l’ufficio divino mentre guidavo (non è una pratica che deve essere imitata, tuttavia)». E l’annuncio dato in refettorio della morte di Merton, paragonato a quello della morte di J.F. Kennedy: «Il tempo si fermò». E il ricevimento nell’ufficio dell’abate in onore di un famoso poeta che aveva tenuto una conferenza all’abbazia: «Qualche morceaux di formaggio trappista, la nostra crostata e un assaggio del celebrato bourbon del Kentucky».

Gethsemani 2023 02

Il coro dell’Abbazia di Gethsemani (foto Potts)

 Il capitolo dedicato alla recitazione dei Salmi («Una vita di canto e musica») mi è stato inoltre di grande aiuto per capire meglio. Anzitutto lo sforzo di mettere a punto il canto collettivo è un’attività che ha un valore in sé (la partecipazione di tutta la comunità, il contributo del singolo e l’accordo, la fusione). La recitazione, poi, non è sempre uguale, non va immaginata come una pratica immutabile. Fr. Paul lo dice molto chiaramente: «Talvolta seguo il significato delle parole, altre volte la mia mente scivola in un casuale flusso di coscienza, oppure semplicemente si perde». Poi, però, una singola parola, una frase emerge, per inabissarsi di nuovo; un intero salmo passa nell’indifferenza, ma all’improvviso uno scatto riaccende l’attenzione: si accorge di pronunciare parole che dicono con esattezza lo stato d’animo del presente. Anno dopo anno «ho l’impressione che quelle non siano soltanto le mie parole, sono le nostre parole, e mi abbandono a una voce più vasta della mia». È la voce dell’umanità. «Quanto è bello essere tirato al di là dei soliti limiti dei tuoi pensieri e delle tue parole, essere spinto a pronunciare parole che non diresti mai… […] Le emozioni vengono sempre prima della dottrina, quando si canta la Scrittura.»

Queste e altre osservazioni sulla vita quotidiana del monaco, o almeno di Paul Quenon, monaco trappista da sessant’anni, sono sempre offerte con un tono piano e privo di qualsiasi enfasi, e credo mi abbiano fatto fare un piccolo passo avanti nella comprensione (anche circa il valore delle testimonianze monastiche): «Nel complesso credo che monache e monaci debbano condividere con gli altri qualche momento della loro vita (per quanto modesto possa essere). Con sorpresa di molti, questo mondo continua a essere un posto in cui esiste il monachesimo, e noi monaci facciamo bene a far sì che la gente ne possa cogliere anche una vaga idea, sia che sia disposta a prenderlo sul serio o no».

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  1. Paul Quenon, In Praise of the Useless Life. A Monk Memoir, foreword by Pico Iyer, Ave Maria Press 2018.

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Consueti, regolari, «ordinari» (Dice il monaco, CV)

Dice Paul Quenon, ocso, monaco dell’abbazia di Gethsemani in Kentucky:

La natura stessa mi insegna il distacco in virtù della sua caducità. Il mutamento è intrinseco alle cose, e io posso semplicemente fermarmi e accogliere il mutamento come una lezione di vita. Non si può sviluppare un grande attaccamento là dove nulla dura a lungo: anche l’incanto delle mattine più luminose svanisce, persino l’intatto paradiso della primavera in Kentucky mi lascia insoddisfatto. Il cuore sa che non è abbastanza, e ambisce a qualcosa di più. Chiamarla «desolazione» sarebbe eccessivo. Le stesse meraviglie del mondo pare dicano: «Non siamo abbastanza». Il meglio che posso fare è prendere le cose come sono, e come sono lasciarle. Il passare dei giorni e la routine quotidiana della comunità rinforzano questo «naturale esercizio». Essere consueti, regolari, «ordinari» è un modo di essere autentici. Alzarsi al suono della campana significa essere pronti ad abbandonare qualcosa per prepararsi a qualcos’altro, e questo cambiamento, questa alternanza è al tempo stesso una sfida e un sollievo: anche lasciare il coro e andare al lavoro è un sollievo. La giornata del monaco offre un ritmo, un continuo lasciare, prendere, lasciare di nuovo e riprendere: è un allenamento al distacco, mediante il quale posso dimenticarmi di me stesso, perché il più delle volte non ho il controllo della situazione, non devo prendere decisioni. Persino l’idea del mio progresso spirituale si smarrisce a fronte di ciò che sta accadendo qui, adesso, vicino. Possibile che sia così semplice ciò che Gesù intendeva dicendo: «Il regno dei cieli è vicino»?

♦ Paul Quenon, In Praise of the Useless Life. A Monk Memoir, foreword by Pico Iyer, Ave Maria Press 2018, pp. 50-51.

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Capanne, porcili, depositi, roulotte e pollai

Qualche anno fa ho scritto una nota su un libro dedicato agli eremiti contemporanei della cui superficialità mi rammarico ancora (il pezzo è rimasto dov’era, ovviamente). Da allora, credo soprattutto di aver capito quanto sia improprio unire strettamente la dimensione eremitica a quella dell’ascetismo penitenziale. È possibile che tale «errore» sia dovuto all’idealizzazione dei «fondatori» dell’eremitismo, i Padri del Deserto, coloro che ne avrebbero posto le vere coordinate: uomini (e donne) anzitutto di penitenza e poi di contemplazione. Ma non è detto che sia così, che la chiave dell’eremitismo sia l’espiazione, l’autopunizione per i propri peccati. Se cerco quindi di essere molto più cauto, non riesco tuttavia a non sentire una certa forma di sollievo nel desiderio di fuga dal mondo, e dagli altri, finalmente soddisfatto, non importa se all’interno di una stanza senza finestre o in una capanna ai margini di un bosco. È solo una mia proiezione?

Mi è capitato ancora leggendo il capitolo che, nel suo libro In praise of the Useless Life1, il monaco trappista Paul Quenon dedica ai famosi eremitaggi che circondavano l’Abbazia di Gethsemani nel Kentucky. E non soltanto al più famoso, il «bungalow» di Thomas Merton, del quale Quenon è diventato oggi il «custode», ma a tutti quelli dei molti monaci che negli anni Sessanta e Settanta diedero vita a quella che l’autore stesso chiama «la nostra età d’oro degli eremitaggi». «C’è qualcosa in certi posti che reclama la presenza di un eremitaggio, ben prima che un eremita si presenti alla ricerca di un luogo adatto», dice Quenon, osservando i boschi circostanti l’abbazia. La forma che questi rifugi presero, poi, dipese molto dalla personalità dei monaci che li edificarono.

Ad esempio quello di d. James Fox, abate di Gethsemani per vent’anni: una struttura seminascosta e sorprendente, in pietra, cemento e vetro, disegnata per lui dal cellerario (ex impiegato nello studio di Frank Lloyd Wright) come luogo dove deporre il peso delle responsabilità abbaziali (all’epoca delle sue dimissioni, nel 1968, Gethsemani ospitava oltre trecento monaci). La baracca di fr. Odilo, invece, era costruita con materiali di scarto: più che costruita, «messa assieme», senza un vero progetto, «stravagante e imprevedibile» come il suo abitante, definito dallo stesso Quenon «un solitario», e ricordato mentre attraversava la cucina del monastero sussurrando: «Sono solo di passaggio». Fr. Alan aveva riadattato un porcile, mentre fr. Hilarion aveva recuperato una roulotte usata; nella sua roulotte fr. Chrysogonus (Waddell) aveva trasportato un piccolo pianoforte e aveva trasformato la toilette in una libreria; poi era passato a una sistemazione più grande e l’aveva riempita di libri: «Teneva le finestre chiuse per evitare che l’umidità del Kentucky rovinasse i vecchi volumi. Quando cominciò a usare un computer, schermò tutte le finestre e l’ambiente diventò buio come una caverna, a eccezione di una piccola lampada sulla scrivania».

Fr. Rene costruì la sua «Arca» con gli avanzi dei pannelli di legno usati per realizzare le confezioni di formaggio vendute dall’abbazia; l’Arca, priva di acqua corrente e di elettricità, diventò in seguito l’eremitaggio di fr. Roman Ginn, «quanto di più simile a un Padre del Deserto ti potesse capitare d’incontrare»: ci passava tutta la settimana e soltanto la domenica faceva un salto al monastero, con i suoi due asini al seguito, per concelebrare la messa e per recuperare cibo e acqua. Fr. Matthew Kelty usò un prima un deposito di dinamite abbandonato, vicino a una cava, poi la casupola di un pozzo; mentre fr. Augustine prima si rinchiuse in una piccola stanza del monastero, chiamata «La casa dei 10.000 oggetti», poi passò in un pollaio dismesso. La galleria di personaggi è lunga, fitta di curiosità e bizzarrie, piena, credo di poterlo dire, anche di piccoli segnali di un conforto cercato nel contatto stretto con la natura e nella separazione dagli altri esseri umani.

«La stagione degli eremitaggi è finita», conclude Paul Quenon. «Come i funghi sono spuntati dalla terra e alla terra sono tornati… Oggi infatti ne sono rimasti due, che vengono usati solo di tanto in tanto.» Ma di eremiti ce ne saranno sempre nella Chiesa, aggiunge, e io provo una gran simpatia per questa particolare versione kentuckyana, che unisce al richiamo verso un più concentrato e profondo dialogo con Dio, attraverso la solitudine, una dose, anche non necessariamente consapevole, di asocialità, di anarchia e di spirito d’avventura.

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  1. Paul Quenon, o.c.s.o., In Praise of the Useless Life. A Monk’s Memoir, foreword by Pico Iyer, Ave Maria Press 2018.

 

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