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Le «tracce» di Charles Dumont (pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Le parole con le quali Charles Dumont rievoca la sua reazione alla «vocazione»1 sono preziose anche per chi vuole soltanto provare a capire – ammesso che capire si possa. La grazia della vocazione, per il monaco belga, pone fine a una fase di confusione, di vuoto continuamente riproposto al di sotto della molteplicità degli impulsi e delle occupazioni giovanili, e dà un senso a quel disinteresse per le scelte e le attività comuni che pure è fonte di sentimenti contrastanti: «Una tale mancanza di interesse per un’esistenza normale mi faceva sentire in colpa, mi accusavo come di una forma di pigrizia, di noncuranza, di fuga… Fin dall’infanzia avevo provato un sentimento religioso, ma in modo misterioso. Non mi riconoscevo nel mondo in cui dovevo entrare, in cui volevo entrare e persino avere successo, ottenere considerazione. Mi vergognavo del mio isolamento, del mio credermi diverso, speciale, unico».

La risposta alla vocazione è anche l’inizio di un viaggio di ritorno, come dopo aver doppiato una boa, e come ogni ritorno è fatto di attesa, di pazienza in vista della meta, di pieni e di vuoti; e la narrazione frammentaria di quel viaggio è l’occasione per ripercorrerlo, per recuperare i ricordi («i piccoli ciottoli bianchi sparsi nella Storia con la “S” maiuscola») che testimoniano l’opera di Dio su di lui, le tracce di un’esperienza metafisica senza date, i rapporti che si sono stabiliti nella coscienza tra cielo e terra. Lo sguardo retrospettivo, conciliato, remissivo, debole, consente di intravedere una parvenza di unità, nel segno dell’intelligenza e dell’amore di Dio: «La fede ci permette talvolta di cogliere nella sequenza di luci e ombre il disegno di una volontà intelligente, di una mano che ci tiene per mano». Questi momenti «di grazia» restano tuttavia «inverificabili», se non mercè la certezza di una Presenza, e di un Amore personale, che vuole la nostra felicità.

Questa parola, «inverificabili», è stata per me come una spia luminosa che si acccende: quei momenti possono essere «di grazia» solo all’interno di una dimensione che li precede, la fede; è la fede che li rende possibili («La fede», commenta infatti Dumont, «conferisce a questi ricordi il loro posto nel susseguirsi delle fasi della mia esistenza») e riconoscibili come tali. Al di fuori di essa il caso è altrettanto «credibile»: il caso, l’intreccio delle volontà, i condizionamenti, le inclinazioni innate, gli errori, le intuizioni, il sovrapporsi confuso di tutto, non il disegno. Da questa parte di una linea per me invalicabile seguo allora il racconto del vecchio monaco, non mi chiedo se il luogo nel quale – lui come ogni credente – si è inoltrato esista o no e ne ascolto la testimonianza, i cui accenti conclusivi sono molto belli e meritano una citazione estesa:

«Eccomi, Signore, davanti a te, a ricordare i miei primi anni mentre sono sono arrivato agli ultimi, quasi al mio ultimo respiro. Come posso rivolgermi a te, che conosci la mia vita, che conosci il mio cuore? Come, soprattutto, ascoltarti, se nel rumore dei ricordi cerco la tua presenza in me ieri, oggi, proprio in questo momento in cui scrivo? Perché era il tuo silenzio che teneva uniti i miei giorni e le mie notti, e come potrò udirlo nel fragore della cascata del tempo? La sua irreversibilità non mi tormenta più da quando so che il tempo di una vita è la chiamata, al di là di ogni linguaggio, ad andare verso di te, anche al di là di ciò che separa parola e silenzio. Una chiamata irreversibile perché incomprensibile, e di una bellezza commovente: la vita di un uomo».

Molte altre spie si sono accese (il corsivo è mio), e mi pare di cogliere soprattutto un’immensa, umanissima, sconfinata speranza lanciata nel vuoto silenzioso, ma, non posso evitare di dirlo, non vedo mistero, anche se – come dice il cardinale Angelo Scola – «il mistero è sempre vicino, è a meno di un millimetro persino dal cuore dell’ateo più ostinato».

(2-fine)

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  1. Come si possono leggere in Marie-Benoît Bernard, Charles Dumont. La grâce d’être vaincu, in «Collectanea Cisterciensia» 77 (2015), pp. 273-293.

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Le «tracce» di Charles Dumont (pt.1/2)

Mentre leggevo il suo saggio su Bernardo di Chiaravalle, cercavo notizie su Charles Dumont, e ho trovato un articolo che una monaca, trappista come lui, gli ha dedicato nel 2015, sei anni dopo la morte, e che sin dalle prime righe mostra di essere ben più che un semplice ricordo (ricordo che, peraltro, era stato pubblicato in precedenza, ma non ho potuto leggere). Quello di Marie-Benoît Bernard, Charles Dumont. La grazia di essere vinti1, è un testo singolare cui mi sono avvicinato con particolare cautela, sia perché scende a un non comune livello di intimità spirituale con il soggetto trattato, sia soprattutto perché il suo argomento fondamentale è, in fondo, quello della vocazione. Non della vocazione in generale, bensì di una vocazione precisa, quella appunto di Charles Dumont.

Il motivo di questa singolarità risiede nel fatto che l’articolo è basato sulla lettura che sr. Marie-Benoît Bernard ha potuto fare di un manoscritto inedito di Dumont, Traces d’une conscience en deux mondes, cominciato, se ho capito bene nel 1998, dal monaco studioso ottantenne, già malato e già confinato nell’infermeria dell’abbazia belga di Scourmont, dove sarebbe morto nel 2009, dopo 68 anni di vita monastica2.

Queste Tracce, lungamente meditate, sono lo sguardo di un uomo, di un «vecchio monaco» sul viaggio della sua vita («un viaggio nel paese di se stesso», lo definisce sr. Marie-Benoît), frammenti recuperati dalla memoria e punteggiati da citazioni degli autori più letti e meditati: filosofi e poeti, tanti poeti (Dumont stesso era anche poeta), a cominciare da Rilke, a un verso del quale si ispira il titolo dell’articolo: «Esser fino in fondo / da una forza sempre più grande vinto»3. Un viaggio che ha un suo momento cruciale proprio in un viaggio, quello che Dumont compie in treno per raggiungere Scourmont l’11 giugno del 1941 ed entrarvi come postulante: il Belgio è occupato dai nazisti, il giovane Charles ha fatto il servizio militare, è stato mobilitato, ha combattuto e ha passato un mese in un campo di prigionia; orfano inconsolabile della madre, si è ribellato all’autorità del padre, che lo vorrebbe con sé nella sua sartoria di Bruxelles, e sta andando a Scourmont, la cui comunità è dimezzata dagli obblighi militari (43 monaci su 84 sono mobilitati) e dove lo attendono il maestro dei novizi Albert Derzelle e l’abate Anselme Le Bail.

Dumont ricorda nitidamente quel momento, quando ha fatto l’«esperienza, unica nella mia vita, di un momento di assoluta libertà. E ho capito che paradossalmente era legata all’esperienza altrettanto chiara di non poter fare diversamente. Sono sicuro di aver vissuto allora la verità che san Bernardo ha così esattamente delineato in risposta all’insolubile problema della grazia e della libertà. Ho capito in quell’istante che tutto è grazia e tutto è libertà; che senza grazia non c’è vera libertà e che la grazia non può che unirsi a una libertà. […] Quell’atto privilegiato di libero consenso alla voce interiore ha deciso la mia vita». Indipendentemente da quello che si crede, o non si crede, si percepisce qui un’intensità che non può essere trascurata.

La meditazione sulla vocazione si approfondisce, e il «consenso», l’«acconsentire», si delinea come termine chiave del suo manifestarsi, limpido anche se non privo di durezze: «Talvolta», ricorda Dumont, «mi sembrava che un’altra coscienza fosse unita alla mia, più libera e che al tempo stesso trasferisse alla mia la sua libertà. Una coscienza che amava la mia. Essa mi riprendeva, mi staccava dolcemente o bruscamente da ciò da cui la mia debole libertà si lasciava asservire.»

Dopo tante esitazioni, slanci e rifiuti – «Spesso nella mia vita mi sono visto come sotto scacco: la scuola, la salute, il rapporto con mio padre, la perdita di mia madre, il mestiere e il commercio per i quali non sentivo alcuna attrattiva, la vaghezza adolescenziale, da romantico atttardato, e poi la durezza della vita militare e anche la mia vocazione monastica: questa continua indecisione, per paura di sbagliare, di ingannare la comunità, di ingannare persino Dio» – un accordo di volontà finalmente raggiunto, che rappresenta l’inizio di un nuovo viaggio di progressivo abbandono e spogliazione, di trasformazione e maturazione, di abbandono e resa, nella confortante certezza di essere, appunto, «fino in fondo da una forza sempre più grande vinto».

È il passaggio dall’esitazione alla certezza che trovo sommamente interessante e che suscita in me, non posso nasconderlo, un disagio non tanto sottile. Che cosa è successo? È in quel passaggio che «avviene» la grazia? È una di quelle esperienze che chi non ha fatto non potrà mai capire? Esistono, dunque, tali esperienze? O è quella l’esperienza incomunicabile per antonomasia? (La seconda parte non sarà facile.)

(1-segue)

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  1. Marie-Benoît Bernard, Charles Dumont. La grâce d’être vaincu, in «Collectanea Cisterciensia» 77 (2015), pp. 273-293. Sr. Marie-Benoît è monaca presso l’abbazia francese di Sainte-Marie du Rivet, non lontana da Bordeaux, dove è entrata nel 1999 e dove, dal 2008, è maestra delle novizie.
  2. Va notato che sr. Marie-Benoît ha potuto anche parlare direttamente con Dumont quando costui l’ha accompagnata, nel 2006, nel suo ritiro in preparazione dei voti solenni.
  3. Rainer Maria Rilke, Der Schauende («Colui che contempla»), in Il libro delle immagini, II, 2. L’ultima strofa, in cui Rilke fa riferimento all’Angelo che appare ai patriarchi della Bibbia, recita: «Chi da quest’angelo fu sopraffatto / che così spesso rinunzia alla lotta, / è lui che esce a testa alta e grande / da quella dura mano che, come per plasmarlo, / al suo corpo aderiva. / E le vittorie non lo tentano. / Crescere è per lui: esser fino in fondo / da una forza sempre più grande vinto» (Poesie I, 1895-1908, a cura di G. Baioni, Einaudi 1994; traduzione di G. Cacciapaglia).

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Bernardo esistenzialista

Per molti mesi, a lettura ultimata, ho tenuto sul banco il volume di Charles Dumont su Bernardo di Chiaravalle1, nella speranza di riuscire a farne una sintesi adeguata al valore e alla ricchezza del libro. Senza successo. E d’altra parte, perché puntare a un’ulteriore sintesi di quello che già si propone come un «saggio di sintesi sull’insegnamento spirituale monastico di san Bernardo»? Maturato in oltre vent’anni di letture, riflessioni, articoli e conferenze – e in quarantacinque di vita monastica –, il libro di Dumont (belga, cisterciense a Scourmont, nato nel 1918 e morto nel 2009) è una piana, distesa, impegnativa e gratificante esposizione del pensiero teologico-antropologico-filosofico-monastico di Bernardo, derivata da una lettura integrale delle sue opere, da cui sono tratte innumerevoli citazioni, una più bella e interessante dell’altra. Non è, tuttavia, un florilegio: «Nello scegliere le citazioni e nel presentarle», dice Dumont, «talvolta mi è sembrato di ritrovare il mestiere che avevo imparato prima di entrare in monastero. Si trattava di tracciare con il gesso sul tessuto dei segni calcolati per tagliare dei pezzi di quella stoffa, di riunirli e cucirli insieme per farne un vestito».

Niente sintesi, dunque. C’è però almeno una parola, un concetto, che ho visto riapparire costantemente nel testo e intorno al quale si sono raggruppate molte delle cose che credo di aver appreso da questa lettura. La parola è: conversione, quella conversio-conversatio cruciale in ogni esperienza monastica che l’uso corrente dell’espressione (specialmente nel verbo convertirsi) non restituisce più: «Tutta la vita monastica è una vita spirituale», commenta Dumont, «ed ogni vita spirituale è una vita di conversione», e ricostruisce con bella evidenza il dinanismo, la concretezza di tale movimento.

Accecati dal peccato originale, avvelenati dalla menzogna che rappresenta e sempre più incapaci di vedere ciò che realmente siamo («Trovatemi dunque un figlio di Adamo che non dico desideri, ma sopporti di apparire quello che è», ci sfida Bernardo), ci allontaniamo progressivamente da Dio, dimenticando di essere stati da Lui creati a immagine e somiglianza e quindi deformandoci; la vaga memoria di quella forma ci spinge tuttavia a cercare qualcosa di analogo nelle cose sensibili, e siamo così consegnati alla curiosità (per lo meno a quella cattiva), alla sua tipica ricerca, sempre insoddisfatta. E qui, con una mossa – diciamolo – a sorpresa e assai efficace, Dumont affianca all’abate di Chiaravalle i grandi esistenzialisti: Kierkegaard, Heidegger e Sartre: «La perdita della somiglianza, nella dottrina dell’immagine, corrisponde abbastanza bene all’esistenza non autentica di cui parlano i pensatori contemporanei»2.

Mentre ci addentriamo immemori nella «regione straniera della dissimiglianza», dobbiamo dunque fermarci – ecco l’inizio del nuovo movimento, «che ritrova il suo orientamento» –, guardarci e considerarci, e quindi voltarci e intraprendere il percorso inverso di riavvicinamento alla nostra forma originale, passando dalla tristezza della visione autentica di sé alla gioia della prospettiva del ritorno a Dio; cominciare la ricerca di quel Dio che ci sta a sua volta cercando: «In questo duplice atteggiamento», dice Bernardo, «si riassume tutta la nostra vita spirituale: uno sguardo su noi stessi che deve riempirci di un rammarico e di una tristezza salutari; uno sguardo su Dio che ci permette di respirare in lui [scelta terminologica, questa, molto interessante del «respiro», contrapposto al progressivo soffocamento nella propria palude] e di trovare la nostra consolazione nella gioia dello Spirito Santo. Così, lasciamo nascere in noi da una parte il timore e l’umiltà, dall’altra la speranza e l’amore» («Un’esposizione tra le più chiare e concise dello spirito della nostra vocazione», la definisce Dumont).

E in questa conversione, che comincia ora per concludersi soltanto alla fine dei tempi, scopriamo di non essere soli, bensì fratelli di tutti gli altri esseri che insieme si stavando allontanando dalla comune Origine e che insieme, voltandosi, si possono ritrovare sul medesimo cammino di ritorno. Bello, non facile, forse soltanto ideale e simbolico (non creduto, da me), ma indubbiamente bello.

(E a me viene in mente quando stiamo guidando un’auto, la nostra auto, e la voce del navigatore ci avvisa che abbiamo sbagliato strada, completamente, e che, se possibile, dovremmo fare inversione «a U», e allora gettiamo uno sguardo allo specchietto retrovisore e poi guardiamo il passeggero che ci è accanto e che dici, torniamo indietro?)

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  1. Charles Dumont, Sulla via della pace. La sapienza cisterciense secondo san Bernardo, introduzione di B. Olivera, traduzione a cura delle monache trappiste di Vitorchiano, Jaca Book 2000 (ediz. orig. Au chemin de la paix. La sagesse cistercienne selon saint Bernard, 1998).
  2. Oltre che sui concetti di «condanna alla libertà» e «coscienza infelice» di Sartre, Dumont richiama l’attenzione sulla famosa trattazione di Heidegger della curiosità e della chiacchiera: «[La curiosità] cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente la possibilità di abbandonarsi al mondo. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa quindi non cerca nemmeno la calma della contemplazione serena [cioè proprio quella «pace» di Bernardo che intitola il saggio di Dumont], dominata com’è dall’irrequietezza e dall’eccitazione che la spingono verso la costante novità e il cambiamento» (Essere e tempo, paragrafo 36).

 

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