Archivi categoria: Certosini

La schiuma delle parole: i certosini e i libri

Sull’ultimo numero di «Benedictina» è apparso un articolo molto interessante della studiosa Emanuela Garibaldi dedicato al ruolo dei libri e della lettura all’interno dell’ordine certosino, con particolare riguardo agli aspetti pratici e normativi1. Lo studio si estende dalle prime scritture normative, le Consuetudines Cartusiae del priore Guigo I, del 1127, attraverso le varie stesure degli Statuti, fino agli Annales ordinis Cartusiensis del priore Innocent Le Masson (1627-1702).

Sin da subito è chiaro come il libro sia centrale per la vocazione certosina («oggetto privilegiato nella propria formazione intellettuale e spirituale»), orientata al distacco dal mondo e alla contemplazione delle «cose divine»; libro da leggere, da trattare con somma considerazione, ma anche libro da ricopiare: il monaco, scrive infatti Guigo, «riceve dalla biblioteca [de armario] due libri da leggere. Riguardo ad essi gli viene ordinato di prestare tutta l’attenzione e la cura a che non vengano sporcati né dal fumo, né dalla polvere, né da qualunque altro tipo di sporcizia. Vogliamo, infatti, che i libri, quale eterno cibo delle nostre anime, siano custoditi con la massima cautela e con il massimo impegno, affinché, dato che non possiamo predicare la parola di Dio con la bocca, lo facciamo con le mani. Quanti sono, infatti, i libri che ricopiamo, altrettanti araldi della verità in vece nostra ci sembra di fare»2.

Cautela e impegno massimi anche perché i libri sono pochi e costosi da produrre, in termini di materiali e di tempo, tanto che nei testi legislativi compaiono assai presto disposizioni riguardanti il loro possesso, il prestito e la mancata restituzione. Anzitutto il possesso che non può mai in alcun modo essere individuale, bensì sempre e soltanto del monastero, un legame che rimane inscindibile anche in caso di prestito (per esigenze di copiatura) o di temporaneo spostamento (in seguito a viaggi, soprattutto di priori). La mancata restituzione, poi, è trasgressione tutt’altro che lieve: «Il XV secolo è costellato di ordinationes capitolari inerenti a diatribe legate alla proprietà di beni librari». Gli scambi e le delibere vengono discusse nel Capitolo annuale di Grenoble e non sono cose da trattarsi con leggerezza: c’è traccia ad esempio del priore della certosa di Capri che nel 1423 si dimentica di portare i libri che doveva restituire ai monaci di Villeneuve-les-Avignon, o il denaro corrispondente al loro valore, e non è nemmeno la prima volta: gli viene quindi imposta l’astinenza dal vino. In certi casi le pene per i «crimini librari» possono arrivare alla sospensione dal proprio ufficio o addirittura all’incarcerazione (occorsa nel 1426 a un monaco di Valbonne per aver sottratto una Bibbia e un salterio già promessi ad altra certosa).

Va da sé che il punto di svolta è rappresentato dall’invenzione e diffusione della stampa, ma, se l’ansia per la penuria dei libri si stempera (ancorché lentamente), non diminuisce la preoccupazione per la correttezza dei testi sui quali i monaci pregano, studiano o meditano, che anzi si acuisce in seguito all’esplosione della Riforma e ai risvolti anche librari che assume. Il tempo che prima era dedicato alla copiatura si riversa, per così dire, in quello riservato alla lettura; attenzione, però: la maggiore disponibilità non deve tradursi in distrazione o pericolosa bramosia di sapere. Per dire, sono proibite tutte le edizioni delle sacre scritture curate da Erasmo («contrarie alla religione certosina»); viene scoraggiato lo studio eccessivo del greco («Vi sono infatti alcuni che […] affermano anche che nessuno possa giungere alla vera conoscenza e comprensione delle Sacre Scritture se non è istruito nella lingua greca. E così trascorrono il tempo concesso per le letture sacre, cedendo a una certa curiosità d’animo, nelle lettere greche, oltre che in quelle ebraiche»); va bene lo studio, soprattutto per i monaci maturi e formati, ma alcune materie vanno evitate, in primis l’alchimia e l’astrologia («Ingiungiamo solennemente, pena la reclusione, che [il monaco] non si immischi nelle previsioni fallaci dell’astronomia», 1462), ma anche in certa misura la medicina e il diritto (che spinge a occuparsi di questioni cavillose e infruttuose).

Da tali preoccupazioni derivano così elenchi di libri «giusti» e di edizioni corrette, l’introduzione dell’approvazione del priore generale per la stampa di testi liturgici, il divieto di porre aggiunte o correzioni in margine ai libri concessi, l’adozione delle disposizioni dell’Indice di Paolo IV (1559) e di quelli successivi, l’obbligo per i padri visitatori di controllare i libri presenti nelle biblioteche e nelle celle dei monasteri («Ordiniamo che i visitatori di ciascuna Provincia, nonché i convisitatori, quando visitano le case a loro affidate, verifichino i libri conservati sia nelle singole celle sia nelle biblioteche comuni, e che lo facciano con la massima cura possibile», 1567); le grandi imprese di pubblicazioni uniformi dei testi fondativi e statutari. E così via, in buona sostanza fino al XVIII secolo.

D’altra parte, la lettura del monaco certosino ha sempre e soltanto uno scopo, ben chiaro anch’esso sin dalle origini. Lo afferma Bernardo, priore di Portes, nella famosa lettera a un monaco recluso, del 1128-30: «Accostati alla lettura devotamente e con desiderio spirituale, affinché tu possa udirne qualcosa che valga come esempio per la tua conversione, oppure, come il Signore si degnerà di fartene dono, tu possa essere ristorato dalla dolcezza dei discorsi e dei misteri divini. Leggi tutte le sacre Scritture di cui potrai disporre con questa diligenza e con tale intenzione, non per gonfiarti di sapienza, ma per essere edificato nella carità». E con una bella immagine lo suggerisce lo stesso Guigo, in una lettera sulla vita solitaria dei medesimi anni: «Si dedica [il monaco] alla lettura, soprattutto di opere canoniche e religiose, nelle quali conta più il midollo del significato che la schiuma delle parole [in quibus eam magis occupat medulla sensuum quam spuma verborum]».

______

  1. Emanuela Garibaldi, «Eterno cibo delle nostre anime»: la disciplina della lettura nelle fonti normative dell’ordine certosino, in «Benedictina» 69 (2022), n. 1-2, pp. 55-93.
  2. Le consuetudini di Guigo I, XXVIII, 3-4, in Fratelli nel deserto. Fonti certosine II. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2000.

Lascia un commento

Archiviato in Certosini, Dalle riviste

Poveri esseri di un giorno (Dice il monaco, LXXXVII)

Mi capita spesso di leggere pagine di autori certosini come se fossero resoconti di viaggio in una terra lontana e ignota, se non – devo essere sincero – come descrizioni di un mondo alternativo, nel quale esseri viventi del tutto simili a noi, dotati forse solo di una più accesa autoconsapevolezza, fanno esperienza di una realtà che nella nostra dimensione, invece, non è data. Letteratura fantastica, in un certo senso. E qui la distanza per me è incolmabile, anche, se non soprattutto, quando la spesso incomparabile mitezza certosina di quei resoconti può spingere a dire sottovoce: «Se solo fosse vero…»

Anche quando… dice Augustin Guillerand, certosino, morto nel 1945:

Creature impotenti, poveri esseri di un giorno, piccoli fiori nati all’alba e già appassiti alla sera, eppure possiamo volgerci verso di lui e immediatamente ci dà ascolto, ci parla, ci accarezza, si dà a noi; si china sulla nostra miseria e la innalza fino al suo trono; ci fa entrare nella sua dimora, e questa dimora è il suo Amore, è il respiro stesso del suo Essere e della sua vita. Io stancherei il migliore e il meno occupato degli uomini presentandomi così a lui ad ogni momento con, purtroppo, una disinvoltura e una sfacciataggine che offenderebbero anche i più indulgenti; Dio mi riceve sempre, perdona e scusa i miei modi sfacciati. Egli mi riceve e mi coccola. Mi scopre gli splendori del suo palazzo, ha sempre qualche luce nuova da offrire alla mia intelligenza, qualche delizia per il mio cuore. E se la luce è antica, egli la riveste di freschezza come un fiore di una acerba primavera; e se crede utile lasciarmi nella notte, questa stessa notte si illumina di chiarezza e le tenebre più spesse si cambiano in vive luci. E se mi rifiuta le delizie sensibili, mi fa trovare nella preghiera del deserto delle dolcezze superiori che incantano la mia fede di bimbo che confida in suo Padre.

♦ Augustin Guillerand, in Alla scuola del silenzio. Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, prefazione di A. Matteo, Rubbettino 2021, pp. 193-94.

Lascia un commento

Archiviato in Certosini, Dice il monaco

L’oscuro dramma del monaco recluso (Reperti 58: Angelini alla Certosa di Pavia)

CertosinoAllaFinestra58. Nelle pagine e nelle lettere di antiquata finezza, e per questo belle, per non dire confortanti, di Cesare Angelini (1886-1976) che ho letto non ho trovato finora moltissimi monaci; un po’ di abbati, «lodatissimi per pietà e dottrina», i dodici monaci biondi che seguirono Colombano e arrivarono al Lambro, qualche altra comparsa sfumata sullo sfondo: lì troverò, anche se forse gli sembravano un po’ lontani, come Benedetto che, salvata l’Italia e la civiltà, finì «in monastero a scandir salmi o a chiosar codici» (ma «creando tuttavia quelle correnti spirituali che non paiono ma salvano il mondo»). Ho già trovato però un mirabile testo dedicato alla Certosa di Pavia, pubblicato nel 1970 nella raccolta Questa mia Bassa1.

Mirabile per il tono di ferma malinconia, derivato da paziente frequentazione unita a una erudizione discreta, che sa di cara memoria più che di studio, per il ricordo conservato di una visita estiva con Ada Negri (e del «nostro pane e della nostra frittata» con cui «s’andò a fare un po’ di cena in un alberguccio poco discosto, tra i campi e i fossi»), per lo sguardo sereno che accompagna le informazioni («guardo i monumenti come guardo gli alberi, solo per rallegrarmi»), e per un’improvvisa apertura sul chiostro grande, la cui immagine bucolica cede a poco a poco il passo a una considerazione tanto vera quanto appena accennata:

«Dai portici… si passa al chiostro grande: un gran campo che secondo le stagioni, s’annunzia con sapore d’erba o di fieno, circondato con alti portici a vela e dove, staccate una dall’altra, s’allineano le ventiquattro celle dei monaci. Piacerebbe vederne uscire uno da una. Ma da troppo tempo la Certosa, che pure è ancora piena della loro presenza, è senza certosini; fuor quello dipinto (e par vivo) dal pio Bergognone su una parete interna del tempio, nell’atto d’affacciarsi a una finestra a dare il benvenuto ai visitatori che arrivano da ogni paese.

«E qui, tacendo la bellezza un poco provocante dell’arte, la Certosa torna natura; e nel gran silenzio, che è lo spazio in cui l’anima ha bisogno, il visitatore ritrova il senso intimo e religioso del monumento: cella, coelum, secondo la parola di Caterina da Siena.

«Anni fa, sull’architrave d’una cella lessi un motto propiziatorio: Pax multa in cella. E, sotto, scritta in un secondo tempo, un’altra parola che pareva rispondere alla prima: Si est in corde. Scritta da qualche visitatore impietoso o dalla stessa mano dell’ospite? E, per un momento, nel balenio dell’oscuro dramma del monaco recluso, mi parve che tutta franasse la grande serenità del monumento.»

Per una curiosa coincidenza, poco prima avevo letto una frase di un eremita contemporaneo che all’improvviso è risuonata in singolare consonanza con le parole di Cesare Angelini. Un brevissimo appunto di Frédéric Vermorel che si mette in guardia dall’«idolatria dei luoghi»: «La vocazione non coincide mai con il luogo, neppure per il monaco benedettino che fa voto di stabilità. La vocazione è sequela, sradicamento»2.

La bellezza dei luoghi monastici, il fascino delle valli remote, delle isole, del chiostro grande della Certosa di Pavia e di tutti i chiostri, della cella: tutte cose che rinfrescano solo il visitatore in fuga dal caos cittadino o segni di qualcos’altro?

______

  1. Cesare Angelini, Questa mia bassa (e altre terre), All’Insegna del Pesce d’Oro 1970, seconda edizione accresciuta 1971.
  2. Frédéric Vermorel, Una solitudine ospitale. Diario di un eremita contemporaneo, prefazione di G.M. Bregantini, Edizioni Terra Santa 2021, p. 136.

1 Commento

Archiviato in Certosini, Reperti

La chiave della vita e delle cose (Gregorovius alla Certosa di Trisulti)

È il tardo pomeriggio del 28 agosto 1857 quando, proveniente da Alatri in compagnia del «villico Francesco Romano», il grande medievista tedesco Ferdinand Gregorovius giunge a cavallo nei presso della Certosa di Trisulti, ansioso di poterla visitare. Uno splendido bosco di quercie mi toglieva ancora la vista del convento. Andando avanti vidi da lontano due frati vestiti di bianco che passeggiavano su e giù nella fresca ombra di quegli alberi maestosi, ed invidiai la quiete filosofica che sembravano godere. Se vi è un luogo in cui lo spirito umano possa raccogliersi nella più seria ed elevata meditazione, dev’essere qui in una delle più sublimi solitudini che io abbia mai visto.

Si avvicina a un monaco, ben pasciuto, e, chiesta ospitalità, viene indirizzato al padre guardiano. Nel frattempo la vista sulla Certosa si è aperta, e quel piccolo paradiso, l’Eden di quei monaci, spiccava sul fondo delle foglie verdi, solitario, fantastico, meraviglioso, circondato da una vasta animazione di persone e animali. Il guardiano accoglie il viandante senza esitazioni e lo manda dal priore, il quale, accoltolo anch’egli senza esitazioni, lo affida a un converso che lo conduce alla foresteria. Le camere non sono tutte uguali, ve ne sono di prima o seconda classe secondo la condizione dell’ospite, e al Gregorovius ne viene data una, bella, con un letto pulito, cambiato di fresco, vicina al refettorio. In attesa della cena, cui non manca molto, l’ospite è libero di vistare il monastero.

Perfetto, andiamo. Peccato, però, che vi siano poche cose notevoli nella Certosa, poiché purtroppo tutto ciò che vi era di antico è sciupato o scomparso. C’è la memoria, tuttavia, la memoria dell’Ordine, della sua fioritura, dei rapporti con il territorio circostante, della sua ricchezza per quanto non individuale. Gregorovius visita il refettorio, la cucina, brillante di pulizia, ed il forno dove si prepara in grande abbondanza un pane gustoso di due qualità una fina e l’altra più ordinaria, e si sofferma nella magnifica spezieria, di cui i monaci sono molto orgogliosi: un bel frate con una lunga barba rossiccia che gli dava proprio l’aria di un mago del medio-evo, mi ricevette nel più lindo tempio di Esculapio che si possa immaginare. Mentre il certosino illustra al visitatore il suo regno, entrano parecchi contadini per chiedere pareri o medicine (che sono date gratuitamente). La farmacia di Trisulti è assai nota ai laici, anche in terre decisamente lontane. Pare, invece, che i monaci vi ricorrano raramente: non mi ricordo di aver trovato facilmente dei frati di aspetto più robusto. La tranquillità d’animo, una dieta sempre ugualmente severa e soprattutto l’aria eccellente di quei monti li conservano in salute.

Dalla farmacia Gregorovius passa alla biblioteca, ma dopo qualche domanda che provoca l’imbarazzo del bibliotecario, lo studioso torna nel vasto chiostro e si siede a osservare i monaci e a meditare sulla loro forma di vita. Essi apparivano veramente maestosi nelle loro tonache bianche come la neve. […] Vi sono molti gradi fra i monaci, simili a quelli dei mistici seguaci di Pitagora. Non vidi i frati più elevati in grado perché erano nelle loro celle. Il silenzio nel quale si racchiudono, può esser considerato come il sacrifizio supremo a cui possa giungere il fanatismo umano spinto dalla religione. Rinunciando alla parola, la chiave della vita e delle cose, essi confinano l’anima in una quiete quasi spaventosa che equivale ad una completa cecità morale: Memento mori è il raccapricciante saluto col quale essi interrompono il silenzio incontrandosi.

Spettri viventi, li chiama, e considera le poche cose che sono loro concesse per abbellire le celle dove vivono reclusi. E considera l’immane silenzio che li avvolge, più sopportabile perché consente l’ascolto della voce di Dio, che parla nello stormire del vento, fra le foglie del bosco, nello scrosciare impetuoso del Cosa selvaggio, nella bufera che imperversa fra lampi e tuoni, su quelle alte cime. Che spiriti tetri e melanconici, conclude, devono giungere a plasmare la natura, le celle e la regola del convento! Se lo sguardo avesse la potenza di penetrare in queste anime chiuse certamente vedrebbe le cose più straordinarie.

Da queste riflessioni mi liberò felicemente la cena: si va a tavola, di buon grado (l’appetito e la curiosità erano ugualmente grandi). Il menù serale prevede: maccaroni all’olio, senza formaggio, cucinati alla perfezione, insieme con erbe squisite cresciute in quei monti, fagioli verdi, freddi, conditi con olio e aceto, un fiasco di vino, più che mediocre con una punta di aceto, e per finire un pezzo di torta cotta coll’olio.

Rientrato infine nella sua camera, il primo sonno del rispettosissimo protestante è interrotto dalla campana che chiama i monaci all’ufficio notturno. Ascoltai i rintocchi della campana, che parevano risuonare strani e fantastici nell’aria, e sarei sceso volentieri in chiesa se non avessi temuto di turbare le preghiere di quei santi uomini. Mi addormentai al suono dei loro canti e appena spuntò il giorno la mia guida venne a bussare alla porta della mia cella, per avvertirmi che era l’ora di partire.

♦ Ferdinand Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, versione dal tedesco, vol. I, Ulisse Carboni, Libraio Editore, Roma, 1906, pp. 123-34.

Lascia un commento

Archiviato in Certosini, Luoghi, spazi e sopralluoghi

Nuvole di tristezza e fantasmi della notte (Dice il monaco, LVI)

Dice Bernardo di Portes, certosino, priore, intorno al 1130:

Capita spesso, inoltre, a coloro che vivono in solitudine di essere tormentati intimamente e di veder passare qualche nuvola di tristezza [quamdam nebulam tristitiae], per colpa del diavolo. Il nostro eterno avversario, infatti, conosce parecchi strumenti per nuocere ai servitori di Dio e per distoglierli dalle loro sante occupazioni, e si studia di attaccarli con la tristezza o con una collera immotivata, con l’orgoglio o con la rievocazione di un’offesa, con il vano ricordo di ciò che qualcuno ha detto, o forse ha fatto, e ancora con la memoria dei propri doveri o con i pensieri impuri, e poi scusando un animo tiepido e il tepore del sonno: tutto al fine di deviare l’animo dai desideri santi e di contrastarlo. Se poi si accorge, il nostro eterno avversario, che riesce a far cedere il solitario nelle piccole cose, allora lo avvolge in una rete di tentazioni più gravi, poiché preferisce sempre abbattere piuttosto che ostacolare. Nondimeno, non smette un istante di porre ostacoli sul cammino di chi non riesce ad abbattere. […] Contro queste e contro tutte le altre tentazioni, di qualunque tipo esse siano, nonché contro i fantasmi della notte [quoque nocturnas illusiones], àrmati della preghiera e afferra quello scudo del quale l’Apostolo dice: «Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno».

♦ Lettera di Bernardo, priore di Portes, al fratello Rainaldo, recluso di Saint-Rambert, sulla vita religiosa dei reclusi, in Lettres des premieres chartreux, vol. II: Les moines de Portes, Bernard, Jean, Etienne, Les Editions du Cerf 2013 («Sources Chretiénnes»; 274), pp. 68-71.

 

Lascia un commento

Archiviato in Certosini, Dice il monaco

Non meritavano di vivere sepolti nelle tane e nelle spelonche delle fiere (Voci, 14)

 Sono hoggidì, mi dirà per avventura qualche altro sfacendato, molto diverse le habitationi de’ Solitarij da quelle de gli Antichi Anachoreti, Stiliti e altri Solitarij; convertitesi le loro spelonche, le capanne, le grotte e l’elevate colonne, già alberghi aerei de’ Simeoni, de’ Danielli e de gli Alipij, in sontuose fabbriche, non solo garreggianti, ma superanti nella magnificenza le Regie più riverite de Potentati dell’Universo. […]

Questo, siasi in rimprovero, o in lode dell’Ordine Cartusiano, il quale fra il lusso di ricche mura sa viver povero, non possedendo monaco alcuno particolare cosa veruna propria di cui vantar si possa d’esserne possessore, di questo, dico, chi l’origine ne considera, del fondar edificij a prima vista non corrispondenti alla profonda humiltà, alla povertà che professano, conoscerà doversene non demerito o colpa a buoni monaci dell’Ordine, ma molto merito attribuire a que’ caritativi magnati, i quali si compiacquero con la loro liberalissima pietà riconoscere il merito grande di questa veneranda e in sommo grado accreditata Religione, e far conoscere al mondo che, vivendo i di lei monaci in terra una vita celeste e angelica, non meritavano di vivere sepolti nelle tane e nelle spelonche delle fiere, come da loro stessi i primi fondatori dell’Ordine per humiltà e grande desiderio di patire per Christo eletti si furono.

Né per ciò cotesti santi religiosi hoggidì, con lo stare a coperto sotto tetti sontuosi, vengono forzati a scordarsi del loro Instituto, che ad altra povertà non gli obbligò giammai che a quella dello spirito, e de gli appetiti del senso, e dello affetto delle cose terrene, nel rimanente per propria loro volontaria elettione si vogliono da tutte le pompe, vanità e pretensioni del secolo disgiunti, non oltre passando col desiderio i limiti della necessità, tutto il rimanente internamente abborrendo, e sì com’esternamente non di grosso panno bigio, ma di lane più civili coprono i loro corpi, sotto quelle però su le nude carni vengono da hispidi, setolosi cilicij e grosse funi cinti e coperti, che giorno e notte mortificate le tiene: non bastando loro l’astinenza, severamente praticata, da cibi grassi, i frequenti digiuni, le discipline, il necessario riposo di poche hore notturne, fatto sopra non teneri e spiumacciati guanciali, ma su vili e ruvidi pagliaricci. […]

La bellezza de’ monasteri è come un’esca per allettare e introdurre l’anime alla meditatione della ineffabile bellezza e struttura della fabbrica della Celeste Hierusalem. A quanti giovani per avventura per primo motivo di promuoversi alla Religione sarà servito loro la consideratione che dentro quell’ampiezza e sontuosità di fabbriche si sono perfetionati nel servitio di nostro Signore innumerabili servi di Dio, che al presente godono gloriosi l’eterna beatitudine del Paradiso, quantunque in terra habitassero tra le mura sontuose de’ Padri Cartusiani? Ma che dico solo di questi, di tante altre Religioni potiamo dire l’istesso, le habitationi delle quali poco o nulla cedono di bellezza ed ampiezza a quelle de’ Padri Cartusiani; e pure non v’è una sola di coteste che non habbia riempito molte e molte seggie vote del Paradiso. Ah, che Iddio non considera quali case habitino i servi suoi, ma osserva s’essi si rendino degne case di lui. Habita Dio più volontieri ne nostri cuori che nelle case fabricate di pietre, e se ne dichiarò manifestamente quando instituì il Santissimo Sacramento dell’Altare, transustantiando il Pane nel Corpo suo sotto una picciola portione di pane commestibile, per accomodarsi all’essere ricettato da noi, fatti hospiti degni di lui: e quivi consiste il punto, dovendo il servo di Dio costituirsi tale dentro di sé, che si renda non indegno di ricever Dio per suo hospite.

♦ Carlo Antonio Manzini, Incentivi alla vita solitaria e beata, promossi dalla notitia de’ Gloriosi Gesti del Grande Maestro de gli Eremi Cartusiani S. Brunone. Descritti dall’indegno suo divoto Carlo Antonio Manzini, filosofo collegiato, per accendere la brama di quelli che inclinano a fuggire il mondo e eleggersi luoghi idonei alle penitentie, orationi e alle contemplationi, tacitamente additando loro le ritiratissime celle de gli venerandi monaci certosini, alias cartusiani, Bologna, presso Domenico Maria Ferroni, 1674,  capitolo XIV, pp. 132-37.

 

Lascia un commento

Archiviato in Certosini, Voci

Petrus Sutor (Who’s Who, XIV)

Pietro Sutore (Petrus Sutor, «il Ricucitore»; Pierre Cousturier, ca. 1475-1537), o.cart., francese; dottore in teologia alla Sorbona (si dice che arrivò terzo nella sua classe di laurea del 1510), fu anche insegnante, di ferreo tradizionalismo, prima di entrare nell’ordine dei Certosini, nel quale ricoprì molte cariche. Fu diuturno avversario di Erasmo, che a un certo punto, colpito dalla violenza degli attacchi del contendente, cessò di rispondergli, non senza peraltro aver disseminato le sue lettere di espressioni poco lusinghiere nei confronti del monaco: «Che farragine di abusi verbali, di arroganza, stupidità e ignoranza vi si può trovare [nei suoi scritti]. Mi ricorda quel vecchio proverbio che invita il sarto a limitarsi a cucire»; «Ed ecco un nuovo libro di Pierre Cousturier, palesemente l’opera di un uomo che più che di un medico, ha bisogno di un esorcista»). La veemenza del certosino, estesa a tutto il campo degli umanisti («i quali, pazzi come sono, e incapaci per la più parte di articolare una replica, si rifugiano negli insulti, compongono libelli calunniosi, per di più anonimi, disprezzano qualsiasi forma di ragionamento e sillogismo, definendole “sofismi”, e ridono delle Scritture: ammirano soltanto le infiorettature retoriche, chiamano gli argomenti scolastici, cioè di grammatica, “belle lettere”, “umane lettere”, che è abitudine vergognosa, e infine, quando hanno disprezzato ogni cosa, quando hanno condannato chiunque, si considerano gli uomini più colti e avvertiti»), gli fu poi rimproverata, fin negli scritti degli eruditi dei secoli successivi, unitamente alla considerazione per la vastità del suo sapere. Un tema singolare sul quale s’incaponì fu qello del triplice matrimonio di sant’Anna.

Quasi tutti i repertori annotano che le sue opere non riscossero particolare successo: «Abbiamo di lui molte opere di critica e di controversia, che non ebbero grande incontro» (Storia ecclesiastica di Claude Fleury, l. CXXXVIII); «Lasciò molte opere, che adesso servono a’ tarli» (L.-M. Chaudon, Dizionario storico degli autori ecclesiastici, t. IV). Anche a non esser troppo severi, i toni sono comunque misurati: «Se si considera l’epoca nella quale è vissuto, non si potrà dire che dom Cousturier non sia stato un dotto teologo. Aveva un grande zelo per la fede e un grande amore per la Chiesa, e nutriva una profonda avversione nei confronti di qualsiasi novità, ancor più essendo stato testimone dei mali e delle complicazioni suscitate da Lutero» (J. Liron, Singularités historiques et littéraires, t. III).

Pubblicazioni più recenti antologizzano brani delle sue efficaci descrizioni della Grande Chartreuse, tratti dalla sua opera oggi meno dimenticata, il De vita cartusiana. Efficaci e cupe, e così lontane dalla cosiddetta sensibilità moderna. «Si consideri l’apetto temibile del luogo», scrive ad esempio il Sutor. «Nulla di bello, nessuna consolazione, nessuna piacevolezza terrena; il terreno è a malapena coperto dall’erba, gli uccelli a malapena vi cantano, gli animali selvatici a malapena vi scavano le loro tane. Che più? Le nevi risplendono di un candore eterno, ma il freddo conferisce ai corpi di chi vi dimora un livido pallore. Né la desolazione del deserto di Scete, né quella delle solitudini egiziane possono essere paragonate all’austerità del massiccio della Certosa: è un’orribile prigione, una sede di espiazione, ben più che un luogo adatto alla vita degli uomini.»

 

Lascia un commento

Archiviato in Certosini, Who's Who

Qualcosa, qualcuno («La forza del silenzio» di Robert Sarah, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Dopo le faticose pagine del cardinal Sarah – e dopo essermi preso dell’animale festaiolo «senza anima né speranza»1 – le prime parole di dom Dysmas de Lassus sono senza dubbio sorprendenti. Ecco come esordisce infatti il priore della Grande Chartreuse e Ministro generale dei Certosini nel quinto e ultimo capitolo del volume2: «Gli uomini considerano il silenzio come la semplice assenza di rumore o di parole, ma la realtà è molto più complessa. Il silenzio di una coppia che sta cenando tra sé può esprimere la profondità della comunione che non ha più bisogno di parole o, al contrario, non essere più capaci di parlarsi». Il fatto che, come immagine di un silenzio espressivo e comunicativo, dom de Lassus scelga quella di una coppia a tavola, che mangia tranquilla, mi pare molto significativo di una sensibilità che non faccio fatica a seguire. «Fintantoché ci saranno innamorati sulla terra», dice ancora il priore, scegliendo un’altra immagine per così dire «ecumenica», «cercheranno di vedersi da soli, e, nei loro incontri, il silenzio avrà la sua parte. Questo è forse il modo più semplice di spiegare la nostra scelta di vita.»

Sarà soltanto una differenza di tono, ma devo ammettere che trovo molto più interessante il discorso del priore, anche quando, com’è ovvio, si avvicina alle questioni centrali della sua fede e del modo certosino di viverla. Un modo che non rifugge nemmeno da quella dimensione paradossale che pure mi stancava nelle parole del cardinale: «Tutto è paradossale nella relazione con Dio», dice dom de Lassus, per il quale il «silenzio di Dio» coincide con i trent’anni in cui la parola di Gesù non ha superato i confini di un villaggio di qualche centinaio di abitanti. «Possiamo parlare di un Dio silenzioso?» chiede ancora. «Preferirei parlare di un Dio nascosto. Sono due sfumature di una stessa realtà, che ha in sé lo stesso contrasto: è la maniera di parlare di Dio che è silenziosa.» La prospettiva va ribaltata, e il silenzio di Dio va collegato più alla nostra poca voglia di ascoltarlo che alla sua mancanza di espressione; il suo cosiddetto silenzio non potrebbe forse essere, invece, il segno di una infinita delicatezza nei nostri confronti? «Siamo fragili come il vetro», ricorda il priore, e Dio deve moderare la sua potenza per non travolgerci.

Che io accetti o meno tali sottili distinzioni non ha importanza, quello che m’importa qui è la possibilità di cogliere i tratti di un’esperienza che non è sufficiente registrare alla voce «ineffabile». È necessario esprimerla, tale esperienza? Per me lo è, in nome di quella «esteriorità» che spesso è oggetto della condanna degli scrittori di religione, ma che è anche il sostegno della vita di relazione, della sussitenza e della conoscenza. Dunque la formulazione per cui opta dom de Lassus, tornando sul tema del silenzio e citando Isacco il Siro (di Ninive), mi colpisce: «All’inizio, bisogna fare uno sforzo per tacere», dice il priore, «ma se noi vi siamo fedeli, poco a poco, dal nostro silenzio nasce qualcosa che ci attira a un silenzio maggiore. Questo “qualcosa”, di cui non saprei definire i contorni, sappiamo che è “Qualcuno” che ci attira sempre più nel suo mistero».

Mi pare che questa breve frase riesca a condensare un aspetto vertiginoso di quell’esperienza: il silenzio permette la percezione di un qualcosa dai contorni indefiniti, che però sappiamo essere qualcuno, la cui dimensione primaria è quella del mistero.

Lo scambio tra Robert Sarah e dom Dysmas de Lassus è ricco di molti altri spunti, ma io mi fermo qui: quanto mi piacerebbe chiedere al priore cosa c’è, da dove viene, come si manifesta quel «sappiamo», ma non posso farlo, ed è lui stesso a ricordarmi che «nella fede, l’incomprensione è essenziale e non è una frustrazione, questo permette di sognare».

(2-fine)

______

  1. «Non ignoro il fatto che questo linguaggio sia assolutamente incomprensibile e scioccante per coloro che non hanno la fede. L’uomo materialista vuole fare della vita una grande festa, un tempo per approfittare di tutti i piaceri, un godimento compulsivo. Poi, il più tardi possibile, la morte viene a fermare questa corsa e conduce al vuoto. Non c’è più niente. Questi uomini si comportano come animali, senza anima né speranza», p. 217.
  2. Robert Sarah con Nicolas Diat, La forza del silenzio. Contro la dittatura del rumore, prefazione di Benedetto XVI, traduzione di A. Cappelli, Cantagalli 2017.

 

Lascia un commento

Archiviato in Certosini, Libri

Senza forma propria (Meditazioni certosine, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Se, pur con qualche difficoltà, ho letto con interesse l’Introduzione alla vita interiore, con ancora maggiore partecipazione ho acoltato i Sermoni capitolari che compongono la seconda parte di Amour et silence.1 La cosa potrebbe suonare paradossale se le letture di cui do conto qui non avessero prodotto almeno una certa dimestichezza con certi discorsi, tanto che mi risulta ormai più facile seguire le parole di un priore certosino della prima metà del secolo scorso che quelle di un commentatore politico di oggi.

Il prefatore, il teologo svizzero Charles Journet, definisce questi Sermoni, pronunciati tra il 1940 e il 1943, «sorgenti di paradiso sulla nostra terra desolata» e riporta un brano di una lettera ricevuta dall’autore stesso, Jean-Baptiste Porion: «Non sono opera mia, in realtà. Sono i pensieri dei miei confratelli che io ripeto per far loro piacere. Sono la fiamma del loro cuore, sulla quale soffio dolcemente per farla brillare ancora di più».

Dolcemente è il tono prevalente che risuona in questi testi, tanto più intenso e struggente se si pensa, come ci ricorda Journet, che i loro protagonisti furono infine mobilitati e «andarono ad assistere i feriti sulle ambulanze o a morire al fronte». Gli argomenti affrontati si offrono come una serie di «variazioni sul tema», tema rappresentato dalla purezza e trasparenza cui deve tendere la vita contemplativa certosina, in modo che l’anima del monaco si trasformi in un vetro pulito e senza imperfezioni nel quale Dio possa nuovamente specchiarsi. Ogni pensiero distolto da Dio rischia di diventare una macchia, un’ombra che oscura la possibilità del Suo sguardo. Persino la memoria e l’aspettazione, che ci distraggono dal presente, sono tracce di quella particolarità individuale che va cancellata2: «Non perdete tempo a considerare le vostre azioni passate», dice Porion, e rintraccia nella prima Lettera di Pietro la formula più efficace: «Gettate3 su Dio le vostre preoccupazioni, e il verbo usato qui è quello che definisce esattamente l’azione di gettare a mare ciò che appesantisce un’imbarcazione che rischia di naufragare».

Anche senza inseguire risonanze esterne alla cultura occidentale, e mettendo da parte un possibile discorso sulla responsabilità, mi colpisce molto questo «progetto» estremo di annientamento di sé, perché è privo di quell’accanimento contro la propria imperfezione di tante figure di santi e sante che hanno perseguito l’annientamento anzitutto come espiazione. Il priore certosino invita invece a perseguire la calma, il silenzio, la tranquillità del cuore, che possa essere limpido come acqua ferma: «Non soltanto il nostro cuore non deve essere occupato dalla preoccupazione degli altri, ma non deve esserlo nemmeno da quella di noi stessi». Solo così possiamo abbandonarci a Dio, il medesimo «pensiero delle nostre imperfezioni non deve in alcun modo turbarci: è a Dio che dobbiamo pensare, non a noi stessi». Il modello sublime, e inarrivabile, additato in più di un sermone, è la madre di Gesù: «La Vergine santa è uno specchio limpido, così libero di qualsiasi forma propria che l’essenza divina vi si può riflettere senza riserve». Si libre de toute forme propre, una espressione che mi pare rasentare quella della non esistenza.

Come si suol dire, questi Sermoni meritano analisi ben più approfondite, ma non posso non accennare almeno allo «spirito di corpo» certosino che vi ho percepito e che sempre mi affascina: forse vi si può ravvisare – oseremo dirlo? – una punta di debolezza nella forma umanissima della vanità. È una minuscola crepa che appare in qualche impercettibile inciso, come ad esempio in questa frase: «Per noi, certosini, la rettitudine risiede con tutta evidenza nella via tracciata dalla Regola [Pour nous, Chartreux, la rectitude…4, oppure in questa: «Questi rapporti esteriori, da noi, certosini, si riducono a poca cosa, ma non sono del tutto cancellati [Ces relations exteriéurs, chez nous, Chartreux, son réduite à peu de chose…5. In fondo, perché mai un priore che sta parlando ai suoi confratelli in capitolo dovrebbe specificare? Non gli basterebbe dire: «Per noi la rettitudine risiede…»? No, qui c’è una precisa specificazione, e in tale specificazione di un altrimenti anonimo «noi» si avverte l’eco della consapevolezza certosina: Per noi, certosini, è così, per gli altri non sappiamo…

(2-fine)

______

  1. Un Chartreux, Amour et silence (1951), préface de C. Journet, Editions du Seuil 1977 (edizione italiana: Jean-Baptiste Porion, Amore e silenzio. Introduzione alla vita interiore, Edizioni Certosa 2005).
  2. Anche quella cosa che non di rado le persone considerano al pari dell’oro, cioè l’«esperienza».
  3. Molte, ovviamente, sono le forme utilizzate nelle varie traduzioni di questo verbo, che nella Vulgata è proicio: «buttare, riversare, scaricare, deporre».
  4. Aux Fréres convers pour le Dimanche dans l’ocatve de la Purification, p. 91.
  5. Exaltation de la Sainte Croix, p. 103.

 

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

1 Commento

Archiviato in Certosini

Il tempo di voltare la pagina (Meditazioni certosine, pt. 1/2)

C’è quasi sempre un’atmosfera speciale negli scritti dei certosini, anche proprio nelle pagine più recenti, sulle quali si proietta l’ombra di una tradizione che ormai si avvicina al millenario; sembra che queste voci vengano da un’altra dimensione, anche rispetto a quelle di membri di altri Ordini: la lingua è più o meno la stessa, ma pare che i certosini si trovino davvero altrove, e che da là mandino i loro messaggi.

Ho provato la stessa sensazione anche con Amour et silence, un libretto firmato, al suo apparire, da «un certosino», successivamente identificato con Jean-Baptiste Porion, grande figura del monachesimo del XX secolo e Procuratore generale dei certosini dal 1946 al 1981. Apparso per la prima volta, se non sbaglio, nel 1951, Amour et silence attraverso le continue ristampe si è affermato come «un grande classico della spiritualità», «un testo maiuscolo della spiritualità monastica»1. Il volume unisce una Introduzione alla vita interiore, del 1945, ad alcuni sermoni capitolari pronunciati dall’autore quando era vicario alla certosa svizzera della Valsainte, negli anni 1940-432. Le due parti distinte si completano, ma al tempo stesso suscitano impressioni diverse.

Mi viene da definire l’Introduzione un piccolo trattato sulla possibile fusione di astrazione e concretezza: il testo infatti si ripromette di tratteggiare, dopo aver richiamato i «principi della vita spirituale», «un metodo semplice e pratico di meditazione», che consenta di estendere a tutta la giornata l’orazione continua: «Noi non ci accontentiamo2 di qualche gesto di pietà all’inizio e nel corso della nostra giornata. Tali pratiche non costituiscono una vita, cosa che presuppone un’attività permanente e ininterrotta».

Il richiamo ai principi muove dalla consapevolezza della propria nullità, nullità che è alimento primario della fede e non, ad esempio, premessa del desiderio di perfezionarsi: rifiutando le illusioni dell’«ascetismo egocentrico», le proprie debolezze non sono più ostacoli, bensì occasioni per riconoscere la presenza e l’azione di Dio: «Non c’è nulla, assolutamente nulla che non sia sottomesso alla sua azione: nemmeno il peccato. Nell’atto del peccato, Dio è là, Dio dà il potere di agire e di commettere l’atto. L’unica cosa che non deriva da Dio è la perversione della nostra volontà». Questa presenza «immediata e universale», nelle cose, negli esseri viventi, nelle loro circostanze, assume nelle pagine del monaco certosino una dimensione – mi si perdonerà il termine – mitologica, amplificata da una scrittura così rarefatta da suonare «poetica». «Se l’azione divina cessasse un solo istante, l’universo e noi stessi svaniremmo come un sogno»; è soltanto l’azione divina che, dopo la creazione, trattiene qualsiasi cosa, anche la più piccola, «al di qua del nulla»; la nostra sostanza sta a Dio come la nostra ombra sta a noi stessi.

La nostra nullità rappresenta al tempo stesso uno spazio, nel quale Dio può manifestarsi, come amore, nella persona del Figlio. Il Figlio è già dentro di noi, da sempre, e per riconoscerlo dobbiamo «semplificare»: «L’uomo è un essere complicato, e sembra purtroppo che si impegni a complicare ulteriormente le cose nei suoi rapporti con Dio. Dio, al contrario, è la semplicità assoluta. Più siamo complicati, più ci allontaniamo da Dio». Semplici come bambini: quando un figlio si rivolge a suo papà usa forse un manuale di retorica? No di certo.

Dall’unione di fede e semplicità, e del messaggio evangelico, deriva dunque il metodo di orazione, che rifugge da formalismi ed eccessi di immaginazione, ma che approfitta di ogni occasione per prolungare la meditazione: «Prima di ogni azione, e talvolta persino durante l’azione stessa, ci fermeremo in un istante di raccoglimento», e getteremo una sguardo sul Signore che è in noi. Questo sguardo fuggevole mi ha colpito, perché l’ho riconosciuto come mio, seppur rivolto a un’altra «realtà» e senza quello struggimento di eternità: «Quando leggeremo un libro sarà sufficiente, ogni tanto, riportare l’attenzione al centro della nostra anima, per ritrovare il contatto con Dio, non foss’altro che per il tempo necessario a voltare la pagina».

Da dove viene, appunto, questa voce? Viene da un mondo «incredibile», cioè «difficile a credersi», e tuttavia abitato da individui che vi adeguano i propri gesti, tutti.

(1-segue)

______

  1. Io ho letto: Un Chartreux, Amour et silence, préface de C. Journet, Editions du Seuil 1977 (?), ma esiste anche una recente edizione italiana: Jean-Baptiste Porion, Amore e silenzio. Introduzione alla vita interiore, Edizioni Certosa 2005.
  2. Altri sermoni di Jean-Baptiste Porion saranno pubblicati in seguito; vedi, qui, Fuggi, taci e stai tranquillo.
  3. Il «noi» dei certosini, per quanto involontariamente, si presenta sempre come se fosse sottolineato.

 

Salva

Salva

Salva

Salva

2 commenti

Archiviato in Certosini