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Non si anteponga nulla (Luigi Gioia, «La saggezza del monaco», pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

C’è almeno un’altra cosa, tra le molte, che il libro di Luigi Gioia1 sulla spiritualità monastica mi ha fatto capire bene. Un aspetto nel quale probabilmente mi devo essere imbattuto in precedenza, ma che qui è posto con un’evidenza e un’argomentazione che sono state per me rivelatrici.

Si ricorderà che nel capitolo 43 della Regola Benedetto conia la celebre espressione «Nihil operi Dei praeponatur»: al segnale dell’ufficio divino il monaco deve interrompere qualsiasi attività e accorrere alla celebrazione, in modo che non si anteponga nulla all’Opera di Dio. Raffigurandomi la scena, e considerando la composizione della Liturgia delle Ore, ho sempre pensato che la comunità dei monaci si riunisse per cantare le lodi del Signore, per rendere grazie, per celebrare, appunto, l’Onnipotente: questo è l’opus Dei. E invece no, la prospettiva va ribaltata.

Per farlo Gioia muove da un passo del Vangelo di Giovanni (6, 28-29): quando gli apostoli chiedono a Gesù cosa devono fare «per compiere le opere di Dio», Gesù, passando inaspettatamente al singolare, risponde: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato». «Prima di parlare di opere degli uomini per Dio», commenta Gioia, «occorre accogliere l’opera di Dio per l’uomo, l’opus Dei, ciò che Dio opera in noi, cioè il dono della fede». Una fede che si traduce primariamente nel dono di una grazia di natura comunitaria. Il moto di Dio verso gli esseri umani è di natura, per così dire, collettiva, e anche la risposta, il moto contrario degli esseri umani, lo sarà.

Ecco allora, prosegue Gioia, che «l’espressione della regola di san Benedetto nihil operi Dei praeponatur non vuole dire “non si anteponga nulla alle opere che noi dobbiamo fare per Dio”, ma “non si anteponga nulla all’accoglienza e alla celebrazione di ciò che Dio fa per noi”, cioè all’accoglienza e alla celebrazione dell’opera di salvezza di Dio in noi, dell’alleanza, della riconciliazione, della comunione di Dio». La comunità monastica si riunisce per ascoltare il Signore, per fargli posto, sempre e di nuovo, attraverso la sua parola che lei stessa pronuncia (allo stesso modo il singolo monaco prosegue su questa strada grazie anche alla lectio divina). «Con la liturgia», dice Enzo Bianchi sulla stessa lunghezza d’onda, «noi apprestiamo tutto perché Lui possa agire in noi efficacemente con la sua Parola»2.

L’insistenza sull’ascolto della parola di Dio permette, inoltre, di cogliere un altro aspetto decisivo della vita monastica, che non è, anzitutto, obbedienza a una regola3, bensì continua risposta di fede, la risposta di un figlio all’invito di un padre («La prima, fondamentale definizione del monaco è proprio questa: il monaco è un figlio»): l’atteggiamento filiale è il vero ponte tra Vangelo e Regola, essere figli come Figlio è stato anzitutto Gesù.

Il luogo per eccellenza di questo atteggiamento filiale è il «deserto». Il deserto è lo strumento per mettere a nudo il proprio cuore, e in questo senso il monachesimo ricrea in continuazione tale dimensione – o almeno questo dovrebbe fare – per integrarla nella vita spirituale: «Solo grazie al deserto, infatti, diventa possibile cessare di illuderci su noi stessi riguardo all’autenticità delle nostre intenzioni ed entrare nel processo di conoscenza di sé che è alla base di ogni spiritualità seria». Trovo qui, tuttavia, una particolare consonanza con quell’impegno a smascherare le illusioni e le storie che ci raccontiamo che non richiede il contesto della fede per essere affermato, e forse non richiede nemmeno il deserto, ma per il quale talvolta può essere sufficiente una notte insonne.

(2-fine)

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  1. Luigi Gioia, La saggezza del monaco. Spiritualità monastica e vita della Chiesa, Edizioni Dehoniane Bologna 2017.
  2. Enzo Bianchi, Al termine del giorno. Parole per illuminare il viaggio interiore, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2017, p. 153.
  3. «Se una regola, se un’esortazione, se la legge, se il semplice fatto di dire o di sapere cosa fare fosse bastato per salvarci, non ci sarebbe stato bisogno che Dio si facesse uomo in Cristo e soprattutto che morisse sulla croce» (Gioia, p. 23), una frase che mi ha dato molto da pensare.

 

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Tutti insieme. Luigi Gioia e Enzo Bianchi a confronto su due parole

C’è più di un punto di tangenza tra le ultime due letture che ho citato qui, il libro sulla spiritualità monastica di Luigi Gioia1 e il «commento» alla Regola di Enzo Bianchi2, ma uno in particolare mi ha colpito più degli altri. Entrambi i monaci, infatti, si soffermano con insistenza su due parole che concludono il famoso, penultimo capitolo, il 72°, del codice benedettino: nos pariter, «tutti insieme».

Che i monaci, conclude infatti Benedetto, «non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna». I monaci benedettini, commenta Luigi Gioia, «non cercano una salvezza individuale, ma una salvezza comunitaria, vogliono giungere tutti insieme, pariter, alla vita eterna». Sembra quasi che la sola salvezza individuale non si dia, e questo è forse il cuore della spiritualità benedettina, del carisma dell’Ordine: nulla viene prima di Cristo, della comunione con lui, ma nulla viene prima della comunione stessa. Nulla, infine, commenta ancora Gioia, «può essere anteposto a questo pariter: occorre avanzare tutti insieme; non c’è vera gioia se non si giunge al traguardo tutti insieme».

Confesso che tentenno davanti a quel tutti insieme, sia per le mie manchevolezze, sia se ne considero le dimensioni, che possono andare da due persone, a una comunità, al mondo; quel tutti (che per Benedetto è un ancor più interessante nos) possiede, ai miei occhi, una potenza eversiva pari soltanto a quella utopistica: due infiniti di segno opposto che si annullano e che forse danno luogo a qualcosa di possibile in un punto p imprecisato tra > 2 e < x…

Nondimeno capisco come questo possibile sia proprio ciò che il monachesimo (benedettino) deve ribadire, per la Chiesa e per il mondo in generale, «la comunione come missione», come la chiama Gioia, che chiarisce con belle parole: «La priorità attribuita alla comunione dalla regola di san Benedetto non è una forma di egoismo collettivo, paragonabile al particolarismo etnico o sociale che conduce regioni, razze, nazioni o classi sociali a chiudersi in se stesse. Al contrario si tratta di una preferenza per un amore che viene da altrove, che non chiude in se stessi, ma che è profetico, anzi è la profezia per eccellenza che parla da sé: quando è vissuto esso trasforma la comunità nella fiaccola posta sul lampadario» (p. 137).

Enzo Bianchi dedica due meditazioni (caso unico) al nos pariter, e anche lui osserva che deve essere un impegno prima ancora che un’invocazione, poiché dobbiamo essere consapevoli che «la salvezza o è di tutti noi che viviamo insieme oppure non può essere piena salvezza» (evidenzio anche qui la vertiginosa ambiguità di quel tutti noi che viviamo insieme, in questo caso parole di un priore alla sua comunità, ma in potenza parole di…). Ma effettua poi un leggero quanto interessante cambio di prospettiva: «Ciò che della Regola di Benedetto vorrei qui sottolineare è quel nos pariter. Giustamente traduciamo pariter “tutti insieme”, ma in realtà il vocabolo è ricco di altre sfumature: “Ci conduca tutti allo stesso modo”» (pp. 249-50). Allo stesso modo è carico di risonanze pratiche; allo stesso modo, per Bianchi, rimanda a una dimensione ancora più presente del desiderio di salvezza per sé e per gli altri, anche quelli che non amiamo: «Non possiamo dunque non sentire in questa parola di Benedetto un invito all’esercizio del desiderare che l’altro accanto a me, anche l’altro col quale faccio fatica a vivere, sia salvato con me e condivida con me il Regno, la vita eterna».

Tutti insieme e allo stesso modo è un complesso concettuale che non sono in grado di elaborare qui, con tutti i riferimenti cui può condurre, anche di carattere politico, anche decisamente controversi. Leggendo e rileggendo Benedetto, non riesco a trattenere l’impressione che lui, scrivendo, avesse davanti agli occhi un gruppo di persone, un gruppo finito di individui di ciascuno dei quali conosceva il nome, ma è anche vero che, come gli capitò di cogliere il mondo intero in un solo raggio di sole, così forse gli capitò anche di vedere in quel gruppo tutti noi. Tutti insieme.

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  1. Luigi Gioia, La saggezza del monaco. Spiritualità monastica e vita della Chiesa, Edizioni Dehoniane Bologna 2017.
  2. Enzo Bianchi, Al termine del giorno. Parole per illuminare il viaggio interiore, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2017.

 

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Un tenda per inesperti (Luigi Gioia, «La saggezza del monaco», pt. 1)

Se ripasso gli appunti che ho preso durante la lettura del libro di Luigi Gioia1, monaco olivetano, dottore in filosofia e professore di molte cattedre al Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo, mi rendo conto di quanto ricche siano le 184 pagine che lo compongono. La «saggezza del monaco», del monachesimo, vi viene esplorata in un intreccio di punti di vista molto stimolante: teologia, spiritualità, psicologia, sociologia, prassi, a riprova ancora una volta di come la vita monastica possa essere terreno specialissimo di esplorazione di questioni esistenziali in una combinazione inscindibile di teoria e pratica. Va detto anche che sullo sfondo della trattazione risuona sempre assai viva la domanda cui allude il sottotitolo del volume, «Spiritualità monastica e vita della Chiesa», tanto che forse si può dire che l’ampia e rigorosa riflessione che Gioia svolge sulla «sapienza monastica», e sulla Regola di Benedetto, abbia come scopo, oltre a un’innegabile autocritica sullo stato presente dell’«istituzione», anche la definizione precisa di una base da cui rivendicare il ruolo del monachesimo nella Chiesa di oggi.

Non so nemmeno bene da che parte cominciare, quindi comincerò da un’immagine, di origine biblica, che mi ha colpito e mi ha fatto guardare al «monastero» sotto una luce diversa. Il monastero (benedettino), infatti, dovrebbe essere la casa della sapienza, il risultato di una tipica azione del Signore: «Piantare una tenda in mezzo agli uomini per radunarli intorno a sé in un luogo di ristoro, senza toglierli dal mondo». E il bello è che a tale casa, a tale scuola, non sono chiamati i migliori e i perfetti, bensì «gli inesperti e gli insensati». Anche perché i migliori e i perfetti non esistono, si credono soltanto tali, peccando irrimediabilmente di orgoglio.

Una casa per inesperti e insensati sembra un luogo interessante, dove si può imparare qualcosa. La tenda-monastero è piantata in mezzo al mondo, e il monaco che sceglie di abitarvi, pertanto, non rifugge mai veramente dal mondo, «ma adotta piuttosto una certa distanza… per entrare in una relazione più profonda con esso, come dal di dentro». È un aspetto che trovo continuamente ribadito nella letteratura monastica contemporanea (e non solo), e che pare in questo mostrare una preoccupazione particolarmente viva per la solita accusa di comodità nella scelta di allontanamento dal mondo, in particolare da quello dolente; ed è un aspetto che confesso di faticare a comprendere, e che forse trova la sua verifica prima nella dimensione, a me preclusa, della preghiera, della preghiera comunitaria nello specifico.

Una delle radici di questo essere comunque nel mondo, mi pare di capire, è la conoscenza di sé, uno dei «lavori» più importanti che si svolgono quotidianamente nel monastero: «Il lavoro di conoscenza di sé lo conduce [il monaco] a una compassione sempre più viva e che finisce per estendersi a tutto il creato». Qui un ruolo fondamentale è svolto dall’accompagnatore spirituale, poiché si può dire che le «cose di Dio» richiedano un’educazione, l’apprendimento di un gusto. Ma altrettanto decisivo, ricorda l’autore, può essere qui un sostegno psicologico, anche professionale, ed è vitale, in questo snodo, distinguere tra accompagnamento spirituale e aiuto psicologico, la confusione tra i due essendosi «troppo spesso rivelata una delle forme più distruttive di manipolazione».

La vita in comune infatti può far deflagrare quanto di irrisolto si cela nell’animo di un monaco in prova, e la reazione più comune quando ciò accade è, oltre alla paura, la rabbia. Il rischio in questo caso è quello di «spiritualizzare» la rabbia, colpevolizzandola o affrontandola «soltanto» con la preghiera, là dove il vero problema qui è la mancata conoscenza di sé, poiché «nulla determina maggiormente il successo o il fallimento di una vita monastica quanto l’essere stati o meno iniziati alla complessa ed esigente arte dell’attende te ipse, del prendersi cura di sé, del fare attenzione a se stessi sotto la forma della conoscenza di sé»2.

Non faccio fatica in questo caso a riconoscere una preoccupazione, che forse possiamo chiamare «umanistica», che può essere abbracciata anche senza il contesto di fede. D’altra parte, non posso negare che faccia piacere ascoltare una persona autorevole che ribadisce una delle cose che mi ha spinto verso la conoscenza del monachesimo, e cioè che, per dir così, la psicologia moderna può rintracciare molte delle sue radici nei monasteri: «Se la saggezza monastica ha sviluppato un quadro così elaborato di formazione iniziale è perché anche prima che la psicologia moderna mettesse in luce tali meccanismi se ne aveva una certa premonizione e si era capito quanto decisivo fosse, per poterli affrontare positivamente, un quadro, una struttura flessibile e salda al tempo stesso».

(1-segue)

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  1. Luigi Gioia, La saggezza del monaco. Spiritualità monastica e vita della Chiesa, Edizioni Dehoniane Bologna 2017.
  2. «Generazioni di monaci e di monache sono rimaste preda di frustrazioni, rancori insanabili, risentimenti, amarezze e rimpianti per non essere stati educati fin dall’inizio a questo indispensabile lavoro di conoscenza di sé» (p. 62).

 

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