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Tutta la materia del mondo, ovvero: Come ti spiazza Pacomio

Rientrando al suo monastero, dopo una visita ad alcuni fratelli, il santo Pacomio viene avvicinato da un giovane monaco, che gli confida una situazione, diciamo così, irregolare: «In verità, padre, da quando sei partito… fino a ora non ci è stata cucinata né della verdura né della farinata». No problem, risponde Pacomio, ci penso io.

Fatto il suo giro di ispezione, Pacomio entra in cucina e vede il cuoco intento a intrecciare stuoie: E da quand’è «che non cucini ai fratelli della verdura?» «Da due mesi», risponde il cuoco. E si può sapere perché, replica Pacomio. Non mi pare che la regola dica questo, anzi, «i precetti e i santi padri ordinano che al sabato e alla domenica si cucini della verdura per i fratelli», o sbaglio? Lo so, lo so, risponde il cuoco. Guarda, io l’avrei fatto anche ogni giorno, ma poi quelli per la storia dell’astinenza non toccano niente e si finisce col buttare via tutto. Tra l’altro, «spendiamo quaranta sestarii di olio al mese [più di venti litri] per la consueta pietanza cotta dei fratelli». Sicché ho smesso, per evitare tutto quello spreco, tanto quelli mangiano soltanto un’insalata condita «con aceto e olio, aglio e verdura minuta». E allora ti sei messo a fare stuoie… osserva Pacomio. Sì, «per non starmene seduto a far nulla».

Be’, ragionevole, no? No, niente affatto.

Appreso che con quel «sistema» erano state fabbricate cinquecento stuoie, Pacomio le fa portare e, sotto lo sguardo sbalordito del cuoco e dei suoi aiutanti, le fa gettare nel fuoco. Ecco, «come voi avete trascurato la regola che vi era stata assegnata riguardo alla cura dei fratelli, a causa di un pensiero ispiratovi da Satana, così anch’io ho bruciato il lavoro delle vostre mani, affinché comprendiate che cosa vuol dire disprezzare le leggi dei padri date per la salvezza delle anime». E se non avete capito, considerate che c’è un’enorme differenza tra rinunciare a qualcosa che si può avere liberamente e rinunciare a qualcosa per necessità o per forza. Nel primo caso, per l’astinenza si riceverà una ricompensa, «ma se non viene servita [ai fratelli] nessuna pietanza cotta, non sarà loro accreditata alcuna astinenza per ciò che non hanno neppure visto».

E poi, aggiunge Pacomio, che saranno mai ottanta sestarii d’olio. Non stiamo parlando di malati o di bambini, sono monaci adulti e in salute: «Che tutta la materia del mondo intero vada pure in perdizione, e non sia sottratta all’anima un’unica e semplice virtù!»

(L’episodio è tratto, con qualche «licenza», dai Paralipomeni alla vita di Pacomio, in Pacomio, servo di Dio e degli uomini. Fonti greche sulla vita di Pacomio e dei suoi discepoli, introduzione generale di W. Harmless, introduzione, traduzione e note a cura di L. d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2016, pp. 388-90.)

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Uomo avvisato, mezzo salvato (Dice il monaco, CII)

Dice Pacomio, il padre del monachesimo cenobita, intorno (diciamo) al 330:

Ti prego vivamente di avere in abominio la vanagloria. La vanagloria è l’arma del diavolo. In questo modo fu ingannata Eva. (Il diavolo) le disse: «Mangiate il frutto dell’albero, si apriranno i vostri occhi e diventerete come dei». Ascoltò, pensando che fosse la verità, inseguì la gloria di Dio e le fu tolta anche quella umana. E anche tu, se insegui la vanagloria, essa ti rende estraneo alla gloria di Dio. Ma per Eva non era stato scritto per avvertirla di questa guerra, prima che il diavolo la tentasse; per questo il Verbo di Dio venne, si incarnò nella vergine Maria per liberare la stirpe di Eva. Tu invece, riguardo a questa guerra, sei stato ammaestrato nelle sante Scritture dai santi che ti hanno preceduto. Perciò, fratello mio, non dire: «Non ne avevo sentito parlare», oppure: «Non mi era stato detto nulla di questa cosa né ieri, né l’altro ieri».

♦ Pacomio, Catechesi, 24, in: Pacomio e i suoi discepoli. Regole e scritti, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1988, pp. 214-15.

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Tre precetti di Pacomio (Dice il monaco, V)

Prescrive Pacomio:

La sera, dopo il lavoro, non si potrà andare a ungersi ed ammorbidirsi le mani con l’olio senza essere accompagnati da un altro. E nessuno ungerà tutto il corpo salvo in caso di malattia, né si laverà o farà il bagno, se il male non è grave.

Non è permesso entrare nella cella di un altro senza aver prima bussato alla porta.

Nessuno parlerà ad un altro nell’oscurità.

Pacomio, Praecepta, 92, 89, 94, in Pacomio e i suoi discepoli, Regole e scritti, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1988.

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Chi ha preso la pinzetta?

«Pacomio, ispirato dal Signore, cominciò a dare a questi anacoreti, sempre più numerosi presso di lui, un regolamento. Ecco la cosa nuova. Questo non si era mai visto. Regolamenti pratici c’erano; tradizioni c’erano; apoftegmi che costituivano poi, naturalmente, fonte di norme, c’erano. Ma regolamenti scritti per tutti, in comune, non si erano mai visti e costituivano una novità di importanza immensa, anche da un punto di vista storico.» Così scrive Umberto Neri, illustrando con grande partecipazione l’esperienza egiziana di Pacomio (287-347), vero e proprio atto di nascita del cenobitismo. Un momento emozionante, credo, per chi crede, e comunque estremamente interessante anche per chi no. Il cenobio di Pacomio è l’attuazione pratica dell’ideale apostolico e sgorga direttamente da un passo – «il testo chiave, riconosciuto da tutti come il suo fondamento» – degli Atti degli Apostoli: «Nella moltitudine di quelli che credevano c’era un solo cuore e una sola anima; e nessuno di loro diceva che fosse sua qualsiasi cosa possedesse; ma presso di loro ogni cosa era in comune» (4, 32, lett.).

Moltitudine, già, anche questo è un punto importante, perché se è vero che l’ispirazione di Pacomio è divina, è altrettanto vero che il suo spunto deriva anche dalla quantità di persone che si tratta di far convivere. E se è vero che lo scopo ultimo di questa nuova realtà non è altro che la salvezza delle anime, è altrettanto vero che esistono bisogni e necessità generate da una «enorme massa organizzata». Girolamo, traduttore in latino dei precetti di Pacomio, che conosceva soltanto il copto, riporta ad esempio che «una casa ha più o meno quaranta fratelli» e che «in un monastero vi sono trenta o quaranta case», mentre, secondo le stime degli studiosi, alla morte di Pacomio si contavano alcune migliaia di monaci e monache, tra i cinque e i novemila. Non un problema da poco, insomma, che il padre del cenobitismo risolve appoggiando «tutti gli uni agli altri in modo che uno non può vivere un momento senza l’altro… in modo che uno per qualsiasi cosa ha bisogno di tutta la comunità» (U. Neri).

È un’impresa, quella appunto di tradurre l’esperienza eccezionale dei navigatori solitari (gli anacoreti), sciacquata del disprezzo del mondo, in una condotta di vita comune, condivisa, funzionante, produttiva sia spiritualmente sia concretamente. Una vita, scrive ancora Umberto Neri, nel nome di Dio, certo, ma in cui si è «sempre gli uni di fronte agli altri, in modo che la luce del Signore si rifletta sul fratello e se ne riceva reciprocamente il riflesso. Ecco il proprio del cenobio». (Tra parentesi, una lezione, quella del vivere «gli uni di fronte agli altri», che non faticherei a riportare su un terreno laico.) È un territorio quasi inesplorato. Se si vanno a leggere i precetti della «Legislazione pacomiana» ci si trova davanti, infatti, un insieme di norme che sembrano accostate le une alle altre a mano a mano che una singola questione, anche minima, si presenta. L’ideale è fermo, le linee guida anche (obbedienza, paternità spirituale, lavoro, catechesi, studio e ruminazione della Bibbia), poi, però, c’è spazio anche per quell’attrezzino utilissimo, quando si circola e si lavora a piedi nudi, che è la pinzetta: «Nessuno abbia per conto suo una piccola pinza per estrarre le spine, se per caso ne ha calpestato, eccetto il priore della casa e il secondo, e sia sospesa nella finestra [uno scaffale] dove si collocano i codici» (Precetti, 82).

Questo cruciale passaggio a una quotidianità corale Pacomio l’avrebbe realizzato anzitutto grazie all’ispirazione divina, in secondo luogo dopo un lungo apprendistato presso un eremita e infine in virtù di una lettura profonda della Bibbia. Ma «il fondatore della koinonia [la comunione fraterna] era figlio del suo tempo: i suoi contatti con la Chiesa e quelli con lo Stato e la milizia hanno certamente influito nel suo concetto di autorità, che era assoluta o quasi nel superiore generale» (G. Turbessi), e quando si trovò a dover regolare la convivenza di migliaia di persone, si guardò anche intorno e, forse, ripensò a quello che aveva fatto prima di convertirsi: il soldato di leva nell’esercito dell’impero romano.

Umberto Neri, Fondatori del monachesimo, Piemme 1998; Giuseppe Turbessi, Regole monastiche antiche, Edizioni Studium 1978.

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