«Pacomio, ispirato dal Signore, cominciò a dare a questi anacoreti, sempre più numerosi presso di lui, un regolamento. Ecco la cosa nuova. Questo non si era mai visto. Regolamenti pratici c’erano; tradizioni c’erano; apoftegmi che costituivano poi, naturalmente, fonte di norme, c’erano. Ma regolamenti scritti per tutti, in comune, non si erano mai visti e costituivano una novità di importanza immensa, anche da un punto di vista storico.» Così scrive Umberto Neri, illustrando con grande partecipazione l’esperienza egiziana di Pacomio (287-347), vero e proprio atto di nascita del cenobitismo. Un momento emozionante, credo, per chi crede, e comunque estremamente interessante anche per chi no. Il cenobio di Pacomio è l’attuazione pratica dell’ideale apostolico e sgorga direttamente da un passo – «il testo chiave, riconosciuto da tutti come il suo fondamento» – degli Atti degli Apostoli: «Nella moltitudine di quelli che credevano c’era un solo cuore e una sola anima; e nessuno di loro diceva che fosse sua qualsiasi cosa possedesse; ma presso di loro ogni cosa era in comune» (4, 32, lett.).
Moltitudine, già, anche questo è un punto importante, perché se è vero che l’ispirazione di Pacomio è divina, è altrettanto vero che il suo spunto deriva anche dalla quantità di persone che si tratta di far convivere. E se è vero che lo scopo ultimo di questa nuova realtà non è altro che la salvezza delle anime, è altrettanto vero che esistono bisogni e necessità generate da una «enorme massa organizzata». Girolamo, traduttore in latino dei precetti di Pacomio, che conosceva soltanto il copto, riporta ad esempio che «una casa ha più o meno quaranta fratelli» e che «in un monastero vi sono trenta o quaranta case», mentre, secondo le stime degli studiosi, alla morte di Pacomio si contavano alcune migliaia di monaci e monache, tra i cinque e i novemila. Non un problema da poco, insomma, che il padre del cenobitismo risolve appoggiando «tutti gli uni agli altri in modo che uno non può vivere un momento senza l’altro… in modo che uno per qualsiasi cosa ha bisogno di tutta la comunità» (U. Neri).
È un’impresa, quella appunto di tradurre l’esperienza eccezionale dei navigatori solitari (gli anacoreti), sciacquata del disprezzo del mondo, in una condotta di vita comune, condivisa, funzionante, produttiva sia spiritualmente sia concretamente. Una vita, scrive ancora Umberto Neri, nel nome di Dio, certo, ma in cui si è «sempre gli uni di fronte agli altri, in modo che la luce del Signore si rifletta sul fratello e se ne riceva reciprocamente il riflesso. Ecco il proprio del cenobio». (Tra parentesi, una lezione, quella del vivere «gli uni di fronte agli altri», che non faticherei a riportare su un terreno laico.) È un territorio quasi inesplorato. Se si vanno a leggere i precetti della «Legislazione pacomiana» ci si trova davanti, infatti, un insieme di norme che sembrano accostate le une alle altre a mano a mano che una singola questione, anche minima, si presenta. L’ideale è fermo, le linee guida anche (obbedienza, paternità spirituale, lavoro, catechesi, studio e ruminazione della Bibbia), poi, però, c’è spazio anche per quell’attrezzino utilissimo, quando si circola e si lavora a piedi nudi, che è la pinzetta: «Nessuno abbia per conto suo una piccola pinza per estrarre le spine, se per caso ne ha calpestato, eccetto il priore della casa e il secondo, e sia sospesa nella finestra [uno scaffale] dove si collocano i codici» (Precetti, 82).
Questo cruciale passaggio a una quotidianità corale Pacomio l’avrebbe realizzato anzitutto grazie all’ispirazione divina, in secondo luogo dopo un lungo apprendistato presso un eremita e infine in virtù di una lettura profonda della Bibbia. Ma «il fondatore della koinonia [la comunione fraterna] era figlio del suo tempo: i suoi contatti con la Chiesa e quelli con lo Stato e la milizia hanno certamente influito nel suo concetto di autorità, che era assoluta o quasi nel superiore generale» (G. Turbessi), e quando si trovò a dover regolare la convivenza di migliaia di persone, si guardò anche intorno e, forse, ripensò a quello che aveva fatto prima di convertirsi: il soldato di leva nell’esercito dell’impero romano.
Umberto Neri, Fondatori del monachesimo, Piemme 1998; Giuseppe Turbessi, Regole monastiche antiche, Edizioni Studium 1978.