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Un uccello triste non canta (Teolepto di Filadelfia)

Il corpus principale delle opere di Teolepto, «singolare figura di monaco e di metropolita», nato a Nicea (nientemeno) nel 1250 e morto a Filadelfia (l’odierna Alaşehir, in Turchia) nel 1322, si compone di cinque lettere e ventitré «discorsi», e non so nemmeno io perché ho deciso di leggerlo1.

Probabilmente perché la maggior parte delle sue pagine, ispirate e a loro modo poetiche, rientrano nel genere delle catechesi e delle istruzioni ai monaci2, o più esattamente alle monache (tradizione, quella di un vescovo che scrive alle claustrali della propria diocesi, importante e che si ritrova viva anche nel XX secolo), e perché a esse è consegnata la memoria di un rapporto di paternità spirituale di grande intensità, quello di Teolepto medesimo nei confronti di Irene-Eulogia Cumnena Paleologhina (ah, i nomi…), figlia del Niceforo Cumno dignitario alla corte di Andronico II Paleologo, vedova a soli sedici anni, quindi monaca e infine badessa del monastero Philanthropos Soter di Bisanzio3.

Le innumerevoli raccomandazioni, i consigli, i suggerimenti, i richiami, le prescrizioni che Teolepto rivolge a Irene-Eulogia, e alle sue consorelle, vertono principalmente sul distacco dal mondo, sulla sopportazione e sull’inesausta battaglia contro le tentazioni, le cadute, i vizi tipici della condizione umana, che va condotta a forza di pentimento e preghiera, ma sono espressi sempre senza durezze eccessive e con la comprensione di chi sa di essere affetto da quegli stessi vizi (bello l’avvertimento che accompagna l’elogio della vita in comune: «Accetta la meschinità che potresti incontrare nel fratello come fosse tua»). E sono ricche, le raccomandazioni, di similitudini inattese e assai incisive. I ricordi imprimono le proprie tracce nei pensieri «come i piedi dell’uomo lasciano le impronte quando si cammina nella neve» (ci penserà poi il Cristo-sole a scioglierla e a cancellare quelle tracce); la lettura concentrata estrae il succo dalle parole «come il cibo masticato dai denti dà il piacere al gusto»; l’anima si concentra in un solo pensiero d’amore «come l’incenso preparato da molti tipi di sostanze fragranti emana un unico odore»; coloro che confidano solo nella propria conoscenza sono «come quelli che camminano di notte al chiaro di luna, che è insufficiente e debole»; chi prega tenga il pensiero di Dio al suo centro «proprio come il compasso sta ritto al centro e traccia il cerchio»; e ancora, se ti privi di tutto ma non dell’odio «sei come una nave che accetta il carico a terra, ma in mare lo getta per la tempesta», se ti ammazzi di lavoro ma pensi male del fratello «sei come uno stomaco che accetta i cibi ma che subito li rigetta a causa dell’umore apportatore di malattie che vi è all’interno», se non ti sottometti agli ordini di Dio «sei come la carne più dura e piena di nervi che non cede ai denti» e infine se reciti i salmi con la lingua, ma divaghi coi pensieri, sei «come un uomo che porta in giro gli attrezzi, ma non conosce il mestiere e non fa il lavoro» – un idraulico, con una borsa spettacolare, ma incapace di porre rimedio a una semplice perdita…

Dimentico, come molte altre volte, della base teologica, di fede, che sostiene ogni frase, seguo con piacere i discorsi di Teolepto, le sue belle immagini di cui ho dato solo un piccolissimo esempio (tralascio, per non dir d’altro, i sempre affascinanti elenchi: le tre solitudini della monaca – del pellicano, del gufo, dell’uccello solitario –, le sei battaglie del digiuno, la «decade nemica»), convincendomi una volta di più del patrimonio di conoscenza psicologica racchiuso nella letteratura monastica – a prescindere, per dirla con una battuta.

E che simpatia provo per Teolepto che, dopo aver riempito pagine e pagine delle sue raccomandazioni, si preoccupa che vengano ascoltate, prima di partire con un’altra salva; ma, se non ne sarà rassicurato, allora «il dolore mi sommergerà e imporrà il silenzio alle mie labbra. Perché, come dice la canzone, un uccello triste non canta».

La canzone?

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  1. Nella bella edizione curata di Antonio Rigo, con la collaborazione di Anna Stolfi, e pubblicata dalle Edizioni Qiqajon nel 2007.
  2. È interessante come, da subito, oltre alle regole per così dire autoprodotte, sia nata una solida corrente di istruzioni date a chi voleva esser monaco da chi monaco non era. Istruzioni prevalentemente accolte di buon grado, in linea certo con la pratica fondante della vita monastica, l’umiltà, e tuttavia frutto di una circostanza singolare, almeno a occhi moderni. Va detto che il «vescovo» Teolepto conosceva, per esperienza diretta, ciò di cui parlava.
  3. Uno dei codici che ha tramandato i testi di Teolepto reca sui margini alcune note della stessa Eulogia, e l’intestazione della Lettera I è in questo senso evidente: «Lettera di Teolepto di Filadelfia alla principessa Irene, fondatrice del venerabile monastero imperiale del Cristo Salvatore Philanthropos, che, dopo aver indossato l’abito divino e angelico, ha mutato il proprio nome in monaca Eulogia. Ella fu l’autentica figlia spirituale di Teolepto, da lui tonsurata con le proprie mani».

 

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Vita, volontà e opinione (Dice il monaco, LXXI)

Dice Teolepto di Filadelfia, monaco, eremita, metropolita di Filadelfia (l’odierna Alaşehir, in Turchia), nel 1319:

Il cenobio è stato definito cenobio (vita in comune) per questo motivo: un gruppo eterogeneo di monaci è venuto in una sola e unica dimora per avere in comune abitazione, vita, volontà e opinione, e per non avere nulla di proprio nel cenobio, cosa che susciterebbe discordia nella comune armonia, nell’accordo secondo Dio e nella professione che ognuno di voi fece con la promessa dinanzi a Cristo di prestare obbedienza al superiore e a tutti i fratelli.

Se uno si separa intenzionalmente dall’armoniosa comunità dei fratelli, il nemico trova subito un punto d’appoggio e tramite lui si affretta a controllare tutti gli altri. Di conseguenza si creano fazioni, dissensi, discordie, divisioni, agitazioni e confusione. Colui che è favorevolmente disposto verso un tale, è ostile nei confronti degli altri. Un altro è d’accordo con chi vuole, ma contraddice e combatte gli altri. E così il cenobio non è più visto come un corpo e perde la sua testa. Il superiore, o piuttosto Cristo, di cui noi tutti siamo le membra ed egli stesso è il capo di tutte le cose, è infatti ignorato.

Questa è la grazia del cenobio, tale è l’aiuto della comunità: una sola cinta per le celle, la stessa cappella per gli inni sacri, la stessa tavola per il cibo. Tutte le cose in comune e per tutti le medesime, cosicché i beni esteriori come gli interiori sono proprietà comune. E soprattutto quelli interiori. In questo modo tutti hanno gli stessi pensieri, gli stessi desideri e sono concordi nelle medesime cose, perché l’opinione di tutti è il giudizio di ognuno e inoltre la volontà di uno è la disposizione di tutti.

♦ Teolepto di Filadelfia, Discorso IX: Istruzione che definisce la condotta appropriata per i monaci che vivono in cenobio, 2, 3, 5, in Lettere e discorsi, cura di A. Rigo con la collaborazione di A. Stolfi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2007, pp. 163-65.

 

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