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Senza forma propria (Meditazioni certosine, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Se, pur con qualche difficoltà, ho letto con interesse l’Introduzione alla vita interiore, con ancora maggiore partecipazione ho acoltato i Sermoni capitolari che compongono la seconda parte di Amour et silence.1 La cosa potrebbe suonare paradossale se le letture di cui do conto qui non avessero prodotto almeno una certa dimestichezza con certi discorsi, tanto che mi risulta ormai più facile seguire le parole di un priore certosino della prima metà del secolo scorso che quelle di un commentatore politico di oggi.

Il prefatore, il teologo svizzero Charles Journet, definisce questi Sermoni, pronunciati tra il 1940 e il 1943, «sorgenti di paradiso sulla nostra terra desolata» e riporta un brano di una lettera ricevuta dall’autore stesso, Jean-Baptiste Porion: «Non sono opera mia, in realtà. Sono i pensieri dei miei confratelli che io ripeto per far loro piacere. Sono la fiamma del loro cuore, sulla quale soffio dolcemente per farla brillare ancora di più».

Dolcemente è il tono prevalente che risuona in questi testi, tanto più intenso e struggente se si pensa, come ci ricorda Journet, che i loro protagonisti furono infine mobilitati e «andarono ad assistere i feriti sulle ambulanze o a morire al fronte». Gli argomenti affrontati si offrono come una serie di «variazioni sul tema», tema rappresentato dalla purezza e trasparenza cui deve tendere la vita contemplativa certosina, in modo che l’anima del monaco si trasformi in un vetro pulito e senza imperfezioni nel quale Dio possa nuovamente specchiarsi. Ogni pensiero distolto da Dio rischia di diventare una macchia, un’ombra che oscura la possibilità del Suo sguardo. Persino la memoria e l’aspettazione, che ci distraggono dal presente, sono tracce di quella particolarità individuale che va cancellata2: «Non perdete tempo a considerare le vostre azioni passate», dice Porion, e rintraccia nella prima Lettera di Pietro la formula più efficace: «Gettate3 su Dio le vostre preoccupazioni, e il verbo usato qui è quello che definisce esattamente l’azione di gettare a mare ciò che appesantisce un’imbarcazione che rischia di naufragare».

Anche senza inseguire risonanze esterne alla cultura occidentale, e mettendo da parte un possibile discorso sulla responsabilità, mi colpisce molto questo «progetto» estremo di annientamento di sé, perché è privo di quell’accanimento contro la propria imperfezione di tante figure di santi e sante che hanno perseguito l’annientamento anzitutto come espiazione. Il priore certosino invita invece a perseguire la calma, il silenzio, la tranquillità del cuore, che possa essere limpido come acqua ferma: «Non soltanto il nostro cuore non deve essere occupato dalla preoccupazione degli altri, ma non deve esserlo nemmeno da quella di noi stessi». Solo così possiamo abbandonarci a Dio, il medesimo «pensiero delle nostre imperfezioni non deve in alcun modo turbarci: è a Dio che dobbiamo pensare, non a noi stessi». Il modello sublime, e inarrivabile, additato in più di un sermone, è la madre di Gesù: «La Vergine santa è uno specchio limpido, così libero di qualsiasi forma propria che l’essenza divina vi si può riflettere senza riserve». Si libre de toute forme propre, una espressione che mi pare rasentare quella della non esistenza.

Come si suol dire, questi Sermoni meritano analisi ben più approfondite, ma non posso non accennare almeno allo «spirito di corpo» certosino che vi ho percepito e che sempre mi affascina: forse vi si può ravvisare – oseremo dirlo? – una punta di debolezza nella forma umanissima della vanità. È una minuscola crepa che appare in qualche impercettibile inciso, come ad esempio in questa frase: «Per noi, certosini, la rettitudine risiede con tutta evidenza nella via tracciata dalla Regola [Pour nous, Chartreux, la rectitude…4, oppure in questa: «Questi rapporti esteriori, da noi, certosini, si riducono a poca cosa, ma non sono del tutto cancellati [Ces relations exteriéurs, chez nous, Chartreux, son réduite à peu de chose…5. In fondo, perché mai un priore che sta parlando ai suoi confratelli in capitolo dovrebbe specificare? Non gli basterebbe dire: «Per noi la rettitudine risiede…»? No, qui c’è una precisa specificazione, e in tale specificazione di un altrimenti anonimo «noi» si avverte l’eco della consapevolezza certosina: Per noi, certosini, è così, per gli altri non sappiamo…

(2-fine)

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  1. Un Chartreux, Amour et silence (1951), préface de C. Journet, Editions du Seuil 1977 (edizione italiana: Jean-Baptiste Porion, Amore e silenzio. Introduzione alla vita interiore, Edizioni Certosa 2005).
  2. Anche quella cosa che non di rado le persone considerano al pari dell’oro, cioè l’«esperienza».
  3. Molte, ovviamente, sono le forme utilizzate nelle varie traduzioni di questo verbo, che nella Vulgata è proicio: «buttare, riversare, scaricare, deporre».
  4. Aux Fréres convers pour le Dimanche dans l’ocatve de la Purification, p. 91.
  5. Exaltation de la Sainte Croix, p. 103.

 

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Il tempo di voltare la pagina (Meditazioni certosine, pt. 1/2)

C’è quasi sempre un’atmosfera speciale negli scritti dei certosini, anche proprio nelle pagine più recenti, sulle quali si proietta l’ombra di una tradizione che ormai si avvicina al millenario; sembra che queste voci vengano da un’altra dimensione, anche rispetto a quelle di membri di altri Ordini: la lingua è più o meno la stessa, ma pare che i certosini si trovino davvero altrove, e che da là mandino i loro messaggi.

Ho provato la stessa sensazione anche con Amour et silence, un libretto firmato, al suo apparire, da «un certosino», successivamente identificato con Jean-Baptiste Porion, grande figura del monachesimo del XX secolo e Procuratore generale dei certosini dal 1946 al 1981. Apparso per la prima volta, se non sbaglio, nel 1951, Amour et silence attraverso le continue ristampe si è affermato come «un grande classico della spiritualità», «un testo maiuscolo della spiritualità monastica»1. Il volume unisce una Introduzione alla vita interiore, del 1945, ad alcuni sermoni capitolari pronunciati dall’autore quando era vicario alla certosa svizzera della Valsainte, negli anni 1940-432. Le due parti distinte si completano, ma al tempo stesso suscitano impressioni diverse.

Mi viene da definire l’Introduzione un piccolo trattato sulla possibile fusione di astrazione e concretezza: il testo infatti si ripromette di tratteggiare, dopo aver richiamato i «principi della vita spirituale», «un metodo semplice e pratico di meditazione», che consenta di estendere a tutta la giornata l’orazione continua: «Noi non ci accontentiamo2 di qualche gesto di pietà all’inizio e nel corso della nostra giornata. Tali pratiche non costituiscono una vita, cosa che presuppone un’attività permanente e ininterrotta».

Il richiamo ai principi muove dalla consapevolezza della propria nullità, nullità che è alimento primario della fede e non, ad esempio, premessa del desiderio di perfezionarsi: rifiutando le illusioni dell’«ascetismo egocentrico», le proprie debolezze non sono più ostacoli, bensì occasioni per riconoscere la presenza e l’azione di Dio: «Non c’è nulla, assolutamente nulla che non sia sottomesso alla sua azione: nemmeno il peccato. Nell’atto del peccato, Dio è là, Dio dà il potere di agire e di commettere l’atto. L’unica cosa che non deriva da Dio è la perversione della nostra volontà». Questa presenza «immediata e universale», nelle cose, negli esseri viventi, nelle loro circostanze, assume nelle pagine del monaco certosino una dimensione – mi si perdonerà il termine – mitologica, amplificata da una scrittura così rarefatta da suonare «poetica». «Se l’azione divina cessasse un solo istante, l’universo e noi stessi svaniremmo come un sogno»; è soltanto l’azione divina che, dopo la creazione, trattiene qualsiasi cosa, anche la più piccola, «al di qua del nulla»; la nostra sostanza sta a Dio come la nostra ombra sta a noi stessi.

La nostra nullità rappresenta al tempo stesso uno spazio, nel quale Dio può manifestarsi, come amore, nella persona del Figlio. Il Figlio è già dentro di noi, da sempre, e per riconoscerlo dobbiamo «semplificare»: «L’uomo è un essere complicato, e sembra purtroppo che si impegni a complicare ulteriormente le cose nei suoi rapporti con Dio. Dio, al contrario, è la semplicità assoluta. Più siamo complicati, più ci allontaniamo da Dio». Semplici come bambini: quando un figlio si rivolge a suo papà usa forse un manuale di retorica? No di certo.

Dall’unione di fede e semplicità, e del messaggio evangelico, deriva dunque il metodo di orazione, che rifugge da formalismi ed eccessi di immaginazione, ma che approfitta di ogni occasione per prolungare la meditazione: «Prima di ogni azione, e talvolta persino durante l’azione stessa, ci fermeremo in un istante di raccoglimento», e getteremo una sguardo sul Signore che è in noi. Questo sguardo fuggevole mi ha colpito, perché l’ho riconosciuto come mio, seppur rivolto a un’altra «realtà» e senza quello struggimento di eternità: «Quando leggeremo un libro sarà sufficiente, ogni tanto, riportare l’attenzione al centro della nostra anima, per ritrovare il contatto con Dio, non foss’altro che per il tempo necessario a voltare la pagina».

Da dove viene, appunto, questa voce? Viene da un mondo «incredibile», cioè «difficile a credersi», e tuttavia abitato da individui che vi adeguano i propri gesti, tutti.

(1-segue)

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  1. Io ho letto: Un Chartreux, Amour et silence, préface de C. Journet, Editions du Seuil 1977 (?), ma esiste anche una recente edizione italiana: Jean-Baptiste Porion, Amore e silenzio. Introduzione alla vita interiore, Edizioni Certosa 2005.
  2. Altri sermoni di Jean-Baptiste Porion saranno pubblicati in seguito; vedi, qui, Fuggi, taci e stai tranquillo.
  3. Il «noi» dei certosini, per quanto involontariamente, si presenta sempre come se fosse sottolineato.

 

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Se il mondo crolla (Dice il monaco, II)

Dice un certosino:

Per un Certosino pensare ai suoi confratelli è spesso un ostacolo o una tentazione. […] Se siamo puri e fedeli, pazienti e lieti, possiamo essere certi che questa Vita preziosa sarà comunicata a tutti i nostri fratelli presenti e assenti… Lascia i tuoi confratelli a se stessi e quanto a te, pensa solo a mantenere la tua anima pura e in Dio e non permettere alle riflessioni su questa o quella cosa di turbarti. Vivi nel monastero come se non ci vivesse nessuno, non inquietarti se il mondo crolla e mantieni la calma dell’anima.

Dice un cisterciense:

E un contemplativo può affezionarsi alla sua contemplazione. Può pensare che la contemplazione sia la sola cosa che importa. Appena può rimanere solo e può gustare la calda dolcezza interiore del riposo al centro di se stesso – che è forse un’ombra illusoria della vera contemplazione – per lui il mondo potrebbe anche crollare, e con esso il monastero. Egli sacrificherà ogni altra cosa a questo piacere. L’obbedienza diventerà una questione priva di importanza. La carità sembrerà un assurdo. E nel suo cuore l’amore si essiccherà al calore letale del suo desiderio di auto-soddisfazione. Ed egli sarà schiavo non meno di un milionario.

Un certosino (Jean-Baptiste Porion), Scuole di silenzio, Edizioni San Clemente-Parole et Silence, senza data, ma prima del 2000, pp. 131, 120; Thomas Merton, Le acque di Siloe (1949), Garzanti 1992, p. 398.

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