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Tertulliano e Sigmund Freud (Dice il monaco, VI)

Dice Tertulliano:

Inoltre, quando sei preoccupato per il viaggio di un fratello, i demoni sono soliti farlo apparire in sogno il giorno del suo ritorno, per spingerci, una volta che il sogno se n’è andato, a ricorrere agli indovini di sogni quando un fratello parte e a fare buona accoglienza a coloro da cui bisogna invece fuggire, se non si vuole che spingano l’anima a deviare verso altri errori. I demoni infatti non conoscono nulla prima che avvenga, ma annunciano spesso quello che sta avvenendo e inventano fantasie. Spesso, dunque, quando siamo nella quiete, essi vedono un fratello venire verso di noi: allora lo preannunciano per mezzo di pensieri, ai quali non bisogna credere, anche se sembrano veritieri.

Cosa che trovo in singolare consonanza con quanto scrive Sigmund Freud a proposito delle «strane coincidenze», citando un caso occorso a lui stesso.

Nominato da poco professore, stava passeggiando in un parco, quando gli venne in mente una coppia di genitori che tempo prima si erano rifiutati di affidargli le cure della loro bambina. Stava sviluppando una «fantasia di vendetta» su di loro, e improvvisamente se li vide di fronte, in atteggiamento cordiale: Una breve riflessione distrusse l’apparenza miracolosa dell’incontro. Io stavo camminando su una strada larga e diritta, quasi deserta, in direzione di quella coppia, avevo visto e riconosciuto le due persone alzando fuggevolmente lo sguardo a circa venti passi da loro, ma avevo annullato questa percezione – sul modello di un’allucinazione negativa – per gli stessi motivi di antipatia che poi s’imposero nella fantasia apparentemente emersa in modo spontaneo.

Tertulliano, La tempesta dei pensieri. A Eulogio sulla confessione dei pensieri e sul consiglio riguardo a essi, a cura di L. Cremaschi e B. Mariano, Monastero di Bose-Qiqajon 2005, p. 45; Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, Boringhieri 1971, pp. 276-77 («Determinismo, credenza nel caso e superstizione»).

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Pugili e lottatori olimpici

«Dovrei considerare il cibo a volontà, consumato a mio piacimento, come veleno, e usare come antidoto la fame, mediante la quale purificare l’originaria causa della morte, trasmessa anche alla mia persona insieme allo stesso genere umano.» Diamine, così ci piaci, Quinto Settimio Florente! Tutto il trattato Il digiuno contro gli psichici di Tertulliano è un esempio incontrovertibile della sua durezza e del suo stile fiammeggiante. Una durezza da convertito, a trent’anni, intorno al 190 circa, forse in seguito allo spettacolo di un martirio – per quanto il suo percorso fosse assai comune –, e uno stile tuttavia deprecato dai maestri: Lattanzio lo giudicava «stentato nell’esprimersi, poco piacevole e molto oscuro».

Qui (210-211) se la prende con i nuovi cristiani, gli psichici, appunto, termine derivato da Paolo, e forse soprattutto con alcuni settori della nascente gerarchia ecclesiastica, benevoli verso comportamenti meno rigidi. Quali? Sposarsi in seconde nozze, mangiare qualcosina… Perché? Perché la fine dei tempi è vicina e bisogna essere pronti; bisogna espiare il peccato originale, che è essenzialmente un peccato di gola: cosa fece infatti Adamo se non dire di sì al cibo? «Così mangiò e morì», corrompendo la natura spirituale della creatura. L’armamentario di citazioni dalle Scritture è impressionante, come le complicazioni dottrinali che ne derivano, e che non possono essere semplificate (come ad esempio la disputa montanista). Risuona comunque, anche a una prima lettura, il furore di Tertulliano e l’uso in chiave retorica di tutta la simbologia legata al cibo e al digiuno come rifiuto di un mondo (i commentatori ricordano come occorra sempre contestualizzare e come Tertulliano fosse di Cartagine, Africa proconsolare, uno dei granai del mondo antico).

Ecco allora che «l’intera dimora dell’uomo interiore, oppressa dai cibi, inondata dal vino, ribollendo per il fermento degli escrementi, diventa come il laboratorio delle latrine, dove certamente nulla riesce a sopravvivere tanto vicino quanto il sapore della lussuria»; ecco che «la tua pancia è l’altare e il tuo cuoco è il tuo sacerdote, l’odore del cibo è il tuo spirito, i condimenti sono i carismi spirituali mentre i rutti sono le profezie»; ecco che, come gli ebrei condotti da Mosè fuori d’Egitto, schifi la manna e preferisci «avere l’odore della cipolla e dell’aglio piuttosto che del cielo», e così via.

Contro di ciò si adottino le xerofagie (mangiare secco) e le stazioni di digiuno (prolungamenti dell’astinenza fino a sera il mercoledì e il venerdì, con termine di derivazione militare) «perché dobbiamo imparare a conoscere la prigione, esercitare la fame e la sete, praticare la sopportazione della fame e di un genere di vita tormentato»: così il cristiano andrà al martirio «senza avere alcuna carne, in modo che le torture non abbiano materia su cui esercitarsi, poiché egli è rivestito della sola pelle secca ed è duro contro gli uncini dei supplizi». Perché «più facilmente entrerà attraverso la porta stretta della salvezza una carne più esile; resusciterà più velocemente una carne più leggera, durerà più a lungo nella sepoltura una carne più secca».

Sembra che i cristiani in carne piacessero di più al pubblico romano dei martirî, ma noi, conclude Tertulliano, abbiamo bisogno di un altro vigore che quello del corpo, «lasciamo ingrassare i pugili e i lottatori olimpici».

Quinto Settimio Florente Tertulliano, Il digiuno contro gli psichici, in Il digiuno nella chiesa antica, a cura di I. De Francesco, C. Noce e M.B. Artioli, Paoline 2011.

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