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Singolare / particolare (Claude Martin, 4)

Sul tema dell’individualità in una comunità, quella monastica, le cui regole in un certo senso collegano la perfezione del singolo al suo sostanziale annullamento, ho trovato una riflessione interessante in alcuni testi del benedettino Claude Martin (1619-1696), del quale ho già scritto qualcosa. Non ci vuole molto, poi, a considerarlo un argomento cruciale, dentro o fuori le mura del monastero, in relazione ad altre forme di comunità, a certi eventi storici o a un più lungo «movimento». Tanto per sfruttare un appiglio: «A partire dal moderno, ogni individuo ha cominciato a sentirsi in diritto di mettere in questione qualsiasi ordine. Ma c’è di più: è a partire dal moderno che gli individui vengono concepiti come uguali, e non tanto perché tutti figli di Dio, redenti dello stesso sangue di Cristo, responsabili della loro salvezza – o a essa destinati –, ma perché vengono assunti come singolarità originariamente separate e come tali antagoniste» (Salvatore Natoli).

Ecco, proprio il termine singolarità è spuntato da una pagina di Martin, che tra l’altro nel moderno, da un punto di vista anagrafico, era totalmente immerso. Una delle sue preoccupazioni riguarda infatti il rapporto dinamico che si stabilisce tra il singolo monaco e la sua comunità, nonché, in prospettiva più ampia, dati i tempi, il suo Ordine. La Regola della specifica Congregazione cui si appartiene sancisce modi e limiti della propria condotta, nondimeno l’orizzonte primario dello scopo di tale condotta non è comunitario, bensì individuale, poiché la perfezione del cammino e la salvezza finale sono, appunto, personali. Così, Martin distingue ciò che è comune (p.es. l’ufficio divino e il lavoro) da esercizi «più legati all’appropriazione personale [particuliers] che si praticano nel segreto» (come il timore di Dio, la devozione o la castità). Da questa distinzione deriva l’impianto fondamentale della sua opera sulla Regola di san Benedetto: quello che si fa insieme, secondo l’orario, e quello che si fa da soli, in ordine di importanza.

Degli esercizi particolari si è personalmente responsabili ed essi richiedono un’attenzione speciale, poiché «l’espressione “spirito particolare” si può prendere in buona o cattiva parte. Si prende in cattiva parte quando viene usata per alludere ad alcune pratiche particolari che combattono lo spirito della comunità e che tendono a distruggere quello dell’Ordine. È propriamente ciò che si definisce singolarità, un vizio verso cui i santi Padri, che hanno fondato qualche specie di comunità, hanno nutrito estrema avversione e hanno considerato come una peste che non tendeva a nulla di meno che alla distruzione del loro progetto». La grande vicenda che si sta svolgendo nel mondo ha il suo corrispettivo in ciò che può accadere nel chiostro: la singolarità è una degenerazione, sintomo dell’individuo che si oppone alla comunità, all’Ordine (su maiuscola o minuscola qui si può aprire la discussione), che va, o crede di andare, per la sua strada; la particolarità buona, invece, è una grazia, il dono di una virtù o di una devozione sulla quale ci si concentra più che sulle altre, all’interno di un sistema «ordinato».

Per riconoscerla, tale giusta particolarità, bisogna partire dal suo negativo: «Infatti non c’è nessuno che non abbia il suo vizio nascosto… che è una certa inclinazione che porta l’anima a un peccato piuttosto che ad un altro perché, benché la natura sia corrotta in noi tutti, tutti non hanno però le stesse inclinazioni corrotte». Tutti abbiamo il nostro piccolo vizio (vice mignon), o vizio dominante, e quindi la nostra virtù particolare non sarà altro che il suo contrario, l’arma con la quale lo sconfiggeremo in quotidiana battaglia (tra l’altro, sempre sulle orme di Benedetto, anche Martin fa riferimento all’abitudine come a uno strumento potente, per lo meno per cominciare: «Fare ogni giorno un certo numero di atti interni o esterni al fine di formare l’abitudine»; uno strumento aconfessionale, si potrebbe dire, se si pensa ad esempio alla riemersione del concetto di «dipendenza positiva» nell’odierna ondata di self-help).

Ma quale sarà la virtù se il vizio è proprio quello di «mettere in questione qualsiasi ordine»? Non lo so. Per ora so soltanto che nei grandi singolari quel vizio è, forse, la virtù principale, e che i plurali (più ancora che i particolari) come il sottoscritto seguono e ringraziano.

(Citazioni e spunti da Claude Martin, Pratica della Regola di san Benedetto, a cura di A. Valli, Glossa 2009.)

 

 

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La più crudele di tutte le madri (Claude Martin, 3)

(la prima parte è qui)

Terminata intorno al 1663 la grande crisi, Claude Martin è pronto a dedicarsi senza ombre alla sua congregazione e lo farà con incarichi che lo porteranno a un passo dal vertice della gerarchia: Secondo assistente del Superiore generale dal 1668 al 1675, grand-prieure di Saint-Denis fino all’81 e di nuovo Secondo assistente fino al 90 (non poté diventare Superiore generale soltanto per l’opposizione di Luigi XIV). Gli ultimi anni li trascorre a Marmoutier, dove muore nel 1690 lasciando incompleta la sua opera conclusiva, il Traité de la contemplation.

La sua attività a Saint-Germain-des-Prés, casa madre dei maurini e prodigioso centro culturale della Francia del Seicento (Mabillon, tanto per dire), si svolge soprattutto nell’ambito della cura di edizioni importanti (sant’Agostino) e della formazione dei novizi (da cui deriverà la Pratica della Regola di san Benedetto). Ma è il decorso della ferita iniziale, l’abbandono da parte della madre, a rappresentare l’aspetto che più mi ha colpito. Il rapporto non si è mai interrotto e dal 1639, data in cui lei parte per il Canada, assume la forma dello scambio epistolare (di solito una o due lettere all’anno, in settembre, secondo il ritmo delle navi che effettuano il collegamento col Nuovo Mondo).

Nei primi anni madre e figlio, che si sanno del voi, discutono della vocazione di lui, senza mai dimenticare tuttavia il «fattaccio»: «Voi siete stato abbandonato da vostra madre e dai vostri parenti», scrive Marie il 4 settembre 1641, «ma non è forse stato un vantaggio per voi questo abbandono? Quando vi lasciai che non avevate ancora dodici anni, non lo feci senza strane convulsioni [convulsions étranges] che non furono note se non a Dio». E ancora: «Alla fine ho dovuto cedere alla forza dell’amore divino e soffrire il taglio di una divisione più doloroso di quanto si possa dire, ma ciò non ha impedito che io mi sia sentita la più crudele di tutte le madri. Vi chiedo perdono, mio carissimo figlio, perché io sono la causa della sofferenza che avete provato» (settembre 1647).

A poco a poco, oltre alle notizie sulla missione, prendono il sopravvento i temi mistici dell’esperienza della madre, tanto che dom Martin sollecita relazioni, approfondimenti, confessioni, che lo porteranno a essere il primo biografo di lei (La Vie de la vénérable Mére Marie de l’Incarnation, première supérieure des ursulines de la Nouvelle France, tirée de ses lettres et de ses écrits, 1677) e l’editore dei suoi scritti. E sarà proprio la dimensione caratteristica dell’esperienza materna (e tipica di certe correnti mistiche) a indicare al maurino la sua strada personale.

Si tratta della «dimensione sponsale», e come la madre troverà in questa forma di nozze mistiche la «soluzione» al suo rifiuto originario del matrimonio umano, così Claude sceglierà di «sposare la divina sapienza». E lo farà a modo suo, con una vera cerimonia, ai limiti dell’ortodossia, di cui ci è rimasta traccia. Anzitutto stese un contratto, dettagliato per punti, e poi, come racconta G.-M. Oury, «disse la messa una mattina in una delle cappelle di Saint-Serge, usando, sembra, le formule liturgiche della messa di matrimonio. E a testimonianza del suo patto, prese un anello d’oro che con una catenella al collo appese all’altezza del cuore».

La madre approvò: «Il fatto che tutto sia avvenuto in spirito di fede è più vantaggioso che se aveste avuto visioni o qualcosa di straordinario a livello di sensibilità».

(2-fine)

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E altri simili preparati gradevoli al gusto (Claude Martin, 2)

«Tutto l’uomo esteriore dipende dai sensi: e allora l’atteggiamento esterno sarà ben regolato se tutti i sensi, con le leggi della mortificazione, sono tenuti a freno in ciò che a loro compete. Essi dunque [i novizi, e poi i monaci professi] metteranno tutto l’impegno possibile nella custodia attenta dei sensi, che sono come delle porte attraverso cui la morte entra molto spesso nell’anima.» Sono molto attratto, in genere, da uno dei temi monastici per eccellenza: la mortificazione. Spesso nelle pagine che vi sono dedicate emergono i tratti più duri, e anche inquietanti, di chi le ha scritte. È un punto che duole e che s’infiamma, dimostrando da un lato il terrore di provare anche solo nostalgia per il mostro pluricefalo del piacere, persino nelle sue forme più innocenti, e dall’altro il disagio per l’evidente paradosso di essere costretti a fuggire certe manifestazioni del Creato.

Come un fiore.

L’ultimo esempio l’ho trovato nelle istruzioni che il benedettino seicentesco Claude Martin (il mio monk of the month) dà ai novizi della sua congregazione, i maurini. Non soltanto, come ha esordito, i sensi vanno custoditi tenendoli lontani dalle potenziali fonti di tentazione, ma vanno proprio mortificati, «molto più efficacemente, impegnandoli con quegli oggetti che possano dar loro afflizione».

E allora si dovranno guardare cose tristi e lugubri, «persone abbattute, povere, piagate»; si ascolteranno volentieri le ingiurie e le calunnie che altri ci rivolgono, i rumori fastidiosi; si storcerà il naso «facendogli sentire puzza e esalazioni maleodoranti insopportabili»; si mangeranno piatti disgustosi e si prenderanno «con piacere [ah!?] le medicine e cose simili»; e infine abiti ruvidi e letti duri e cilicî… Non voglio usare la parola masochismo, perché non c’entra, tuttavia guardo con una certa perplessità a questa teoria di giorni cupi, segnati da una costante ricerca del dispiacere, tanto simile, per quanto di segno opposto, alla famigerata e diabolica ricerca del piacere.

Leggere con la propria mentalità è sbagliato, lo so, così mi limito a sottolineare due o tre parole che sembrano quasi sfuggite al controllo severo di dom Martin e ne tradiscono… cosa? Forse i piccoli piaceri di quando era bambino? Già, perché nel descrivere le cose dalle quali bisogna proteggere i sensi gli viene di fare un paio di esempi, e poiché sono due di numero sono quanto mai commoventi.

Il primo è nel paragrafo dedicato all’odorato, laddove il maestro dei novizi prescrive che «non si fermeranno ad annusare i fiori né i profumi senza necessità» (e quale potrebbe essere questa necessità?), e poi rincara dicendo che «ancora meno li conserveranno nei loro arredi e tra la loro biancheria»… e il mio pensiero subito va ai sacchettini di lavanda (molto monastica) che si mettono nei cassetti. Il secondo esempio, prevedibilmente, riguarda il gusto: i novizi mangeranno solo per necessità, niente carne, niente condimenti e soprattutto «rifiuteranno ogni dolce, marmellata e altri simili preparati gradevoli al gusto».

Neanche un cucchiaino di marmellata.

Claude Martin, Pratica della Regola di san Benedetto, II, 4: «La mortificazione dei sensi esterni», Glossa 2009.

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Il figlio di Maria dell’Incarnazione (Claude Martin, 1)

Benedettini cartesiani. Seguendo questo filone, che non poteva che conquistarmi istantaneamente, ho scoperto Claude Martin, figura di primo piano dei benedettini francesi del XVII secolo, in particolare della Congrégation de Saint-Maur, i cosiddetti maurini, i benedettini «neri» riformati (la scoperta di nuove distese della propria ignoranza unita a quella di qualche strumento per porvi parzialmente rimedio rappresenta sempre un momento di grande conforto). Mi interessa soprattutto come autore di una Pratica della Regola di san Benedetto, che è, come dire, una Regola al quadrato. Credo che gli dedicherò più di un intervento, a cominciare dalla sua biografia.

Nasce a Tours, nel 1619. Suo padre, commerciante in seta, muore quando Claude ha sei mesi, e la madre, Marie Guyart, ventenne, lo mette a balia e si ritira per qualche tempo «nella parte alta della casa paterna». Poi lo riprende per alcuni anni e lo affida infine, nel 1631, ai gesuiti per seguire la sua vocazione, che il matrimonio aveva ostacolato, ed entrare in convento. Non sarà una religiosa qualsiasi: da tempo visitata da grazie mistiche, nel 1639 parte missionaria per il Canada insieme con due consorelle e fonda un monastero a Québec. Passerà alla storia come Maria dell’Incarnazione, una delle più grandi mistiche delle orsoline claustrali (beatificata nel 1980 dal papa polacco).

Il dodicenne Claude è scosso – la storiografia si muove con molta circospezione sulla vicenda di questo «abbandono». Scrive il suo principale biografo, G.-M. Oury: «La prima reazione di Claude al ritrovarsi senza mamma è stupore e agitazione. Poi la ribellione, e con la ribellione la disperazione. È anche incitato a reagire così dai vicini e parenti che non hanno compreso nulla della partenza della madre e ne sono rimasti scandalizzati… Per alcune settimane il piccolo Claude continuò ad appostarsi alla porta del monastero».

Gli studi dai gesuiti lo aiutano a mantenere la rotta, ma, presentata due volte la domanda di ingresso, due volte viene respinto «”perché non aveva abbastanza capacità per diventare gesuita” e perché il suo udito non era abbastanza sottile». Il periodo di crisi che ne deriva si conclude nel 1641, quando entra al monastero di Vêndome, sede del noviziato della Congregazione dei maurini. L’anno successivo emette la professione.

Studia senza requie, viene spostato in varie case dell’Ordine, assume incarichi di sempre maggiore responsabilità, soprattutto nel campo dell’istruzione dei giovani, fino a che, intorno al 1653, «viene assalito – proprio a margine di un colloquio spirituale che una giovane gli aveva richiesto, pur vissuto in maniera assolutamente limpida e sobria – da un turbamento persistente». «Si trattava – scrive Oury – della passione che emergeva, in tutta la sua brutalità selvaggia, con il suo carattere aspramente irresistibile, in una natura tutto a un tratto risvegliata all’amore carnale.»

Dom Martin, che nel frattempo è approdato a Parigi, al monastero dei Blancs-Manteaux, si massacra: digiuni, cilicî, cinture chiodate, si rotola tra i rovi, tra le ortiche, sulla neve ghiacciata e infine «avvolge il suo corpo con una corda impregnata di zolfo a cui dà fuoco». Una battaglia furiosa, e insensata, durata dieci anni.

(1-continua)

La maggior parte delle informazioni l’ho tratta dall’ottima introduzione di Annamaria Valli a Claude Martin, Pratica della Regola di san Benedetto, Glossa 2009.

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