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Righe storte e fogli mossi

Commentando la finezza psicologica di Evagrio nel cogliere le insidie dell’acedia anche nei dubbi che tormentano il religioso o la religiosa, Gabriel Bunge fa di sfuggita un’osservazione degna di nota. Bisogna ricordare, sottolinea infatti, che insieme «a motivi nobili e autentici, in ogni decisione entra in gioco anche una quantità di ragioni superficiali o addirittura impure». Accanto a queste, quindi, nella risposta a una vocazione (e forse in ogni buona scelta) si rivela una «elezione per grazia», e solo agli increduli la particolare combinazione di debolezza umana e forza divina «sfuggirà per sempre». La convinzione che si tratti sempre e soltanto di «fattori umani» è un’illusione, un’illusione demoniaca e fatale «alla quale molti soccombono, e non da oggi».

La verità è che «Dio scrive diritto anche su righe storte», dice Bunge, e questa espressione me ne ha riportata subito alla memoria un’altra che ho letto di recente. È del gesuita Jean-Pierre de Caussade, cui si attribuisce uno dei testi più famosi della spiritualità cristiana, quell’Abbandono alla Provvidenza divina ricavato probabilmente dalla sua corrispondenza rivolta alle visitandine di Nancy e diffuso a partire dal 1860.

Considerando l’inutilità di tante «parole e idee confuse» per riconoscere la volontà di Dio e la Sua azione, mentre si dovrebbe «far uso soltanto di quello che Dio ci dà da patire e da fare», Caussade lamenta l’insensatezza e la curiosità che ci spingono a leggere gli scritti che celebrano la Sua storia, invece di lasciare che Egli la prosegua «scrivendo sui nostri cuori diversamente che con l’inchiostro». In questo modo «teniamo la carta in una agitazione continua», e Dio non può scrivere.

Non ti muovere! sembra dire Caussade, se vuoi che Dio scriva sulla tua anima. Non ti preoccupare, ribatte Bunge, anche se il foglio si muove e la riga è storta, Dio scriverà ugualmente.

E chi scriverà sul foglio del miscredente, ammesso che ne abbia uno anche lui? Se lo scriverà da solo? E per chi? In quale archivio finirà, se ci finirà, quel foglio?

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♦ Gabriel Bunge, Akèdia. Il male oscuro, nuova edizione interamente rifatta sulla quarta edizione tedesca ampliata [1995], a cura di V. Lanzarini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1999, pp. 88-89; Jean-Pierre de Caussade, L’abbandono alla Provvidenza divina, traduzione di M. Calasso, Adelphi 1989, p. 121.

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Come un’ombra (Gabriel Bunge e l’acedia di Evagrio, pt. 2/2)

BungeAkedia2

(la prima parte è qui)

«Pensare che oggi le cose siano diverse sarebbe un’illusione fatale», risponde Gabriel Bunge all’inizio del suo saggio1 a chi obietta che l’acedia era un «problema» di individui solitari ed eccentrici che si rifugiavano nel deserto. Sono gli esiti di un «processo sempre più profondo di spersonalizzazione» – del bene, del male, di tutto – che ci spingono a pensare che la «cosa» non ci riguardi, e a tali esiti occorre opporsi ricordando che «i vizi che opprimono l’umanità [«così pure i nemici e gli avversari del cristiano»] sono sempre e dovunque gli stessi». Gli scritti dei Padri, le loro esperienze fatte in condizioni estreme, possono essere una guida anche per l’oggi perché fanno riferimento a un «nucleo in cui ognuno può riconoscere la propria esperienza personale», per quanto i nomi e i «travestimenti» dei demoni che ci affliggono siano cambiati.

Dunque l’acedia2, tra gli otto famosi «pensieri» il temuto assalto del demone di mezzogiorno3, che determina «una sorta di perdita di tensione delle forze naturali dell’anima» e produce un tipo specifico di sofferenza. «Come un’ombra» che accompagna la condizione umana, l’acedia è un fenomeno multiforme che si manifesta come punto di arrivo di un processo di opacizzazione del rapporto del monaco (dell’io) con sé, gli altri, le cose, Dio, e cui concorrono le forze razionali e irrazionali che ci agitano: «L’acedia rappresenta una sorta di vicolo cieco nella vita dell’anima», una paralizzante «avversione nei confronti di tutto ciò che si ha a disposizione, legata a una bramosia per ciò che non è a portata di mano». È qui che esplode, si può dire come una bomba di desiderio e irascibilità, l’amore di sé, che distoglie da tutto il resto e apre la strada a ogni vizio. In questo amore di sé (philautía) «Evagrio individua il sostrato di ogni passione. Per cui la passione è nella sua essenza un’alienazione egoistica, è l’essere prigionieri del proprio io»; amore di sé, va aggiunto, che diventa odio di ogni altra cosa.

Manifestazioni. La voglia di qualcosa di nuovo, l’irrequietezza (anche proprio quella degli arti), la noia e l’ansia, le malattie immaginarie, questo inutile lavoro che mi tocca fare e quell’imbecille del mio capo, l’«illusione dell’agenda piena», ah, se solo avessi tempo, ah, questa città questo quartiere questa stanza, «quando legge, l’acedioso sbadiglia molto… si sfrega gli occhi e stira le braccia e distogliendo gli occhi dal libro fissa la parete. Poi… lo legge un po’… sfogliando… conta le pagine… critica la scrittura e la decorazione e per finire vi appoggia sopra la testa e cade in un sonno non troppo profondo…» – tutto storto, vera desertificazione, ben più spaventosa del deserto fisico dei Padri.

Rimedi. «I rimedi contro l’acedia sono di due tipi: generali e specifici.» Anzitutto conoscenza e dominio di sé; poi la fermezza (fatta di coraggio e pazienza), che si traduce in resistenza («questo significa restare là sul posto, finché l’attacco non sia cessato»). L’apertura del cuore, cioè la confidenza al padre o alla madre spirituale. L’azione positiva (fatta di costanza e perseveranza): «Guariscono l’acedia la costanza e il fare ogni cosa con grande cura, timore di Dio e perseveranza. Fìssati una misura in ogni opera, e non abbandonarla finché non l’hai portata a termine». Il lavoro, quindi, e infine, sopra ogni altra cosa, la preghiera, dal momento che «acedia e preghiera si escludono a vicenda».

Degli esiti si è detto. Al di là dell’acedia c’è la possibilità di superare l’alienazione ed essere di nuovo «persone totalmente unificate» (cioè monaci) che sono uscite dalla prigione (dell’amore) di sé e sono nuovamente «capaci di Dio». Anche nel momento di assoluta oscurità mai ci viene tolta la libertà di questa scelta: «Questo passo al di là di se stessi, ciascuno deve farlo personalmente, eppure non da solo, perché innumerevoli sono coloro che l’hanno fatto prima di lui. […] A tal punto Dio ama e stima la sua creatura, da lasciarle spazio in se stesso affinché compia da sola quest’ultimo piccolo passo verso di lui». E qui la distanza tra lo psicologo Evagrio, e il suo interprete Gabriel Bunge, e gli psichiatri si fa incolmabile: la scelta.

(2-fine)

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  1. Gabriel Bunge, Akèdia. Il male oscuro, nuova edizione interamente rifatta sulla quarta edizione tedesca ampliata [1995], a cura di V. Lanzarini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1999.
  2. «I possibili equivalenti italiani sono tanti: tedio, noia, pigrizia, scoraggiamento, languore, disgusto, depressione, nausea… Ma per non perdere le varie sfumature di senso, faremo anche noi come Cassiano e parleremo semplicemente di acedia
  3. «Chi è stato in Oriente avrà ben presente lo sfondo reale di questo quadro. Il tempo che va dall’ora quarta (le 10.00) all’ora ottava (le 14.00) è per così dire il “punto morto” della giornata: il sole è alto nel cielo, la calura è opprimente…»

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Un’oretta in silenzio (Gabriel Bunge e l’acedia di Evagrio, pt. 1/2)

BungeAkedia1Torno sempre volentieri sugli scritti di Evagrio Pontico, o sui libri che ne trattano, perché il dotto monaco e diacono, nato nel 345 in una regione dell’attuale Turchia e morto nel 399 nel deserto egiziano, rappresenta forse l’emblema di quella «conoscenza psicologica» ante litteram che tanto mi attira verso la letteratura monastica. Conoscenza psicologica che andrebbe chiamata più propriamente «sapienza spirituale», come infatti indica il sottotitolo del saggio di Gabriel Bunge che mi ha riportato a Evagrio: Akedia. Die geistliche Leher des Evagrios Pontikos vom Überdruss, apparso una prima volta in Italia nel 1992, presso le edizioni dell’Abbazia di Praglia, col titolo di Akèdia. La dottrina spirituale di Evagrio Pontico sull’accidia1 (che rende il «tedio» tedesco), e successivamente nel 1999, presso le Edizioni Qiqajon, indicativamente intitolato Akedia. Il male oscuro2. Conoscenza psicologica che tuttavia è stata ampiamente sottolineata in tempi moderni, da grandi studiosi sia religiosi, come il p. Hausherr (che definisce Evagrio tout court «psicologo») sia laici, come lo psichiatra cui, in questo caso, è affidata la prefazione dell’edizione di Praglia, Gabriele Benedetti. Il quale, seppur contrario a sovrapporre all’akedia di Evagrio la moderna «depressione», osserva che il «filosofo del deserto» e il suo interprete descrivono una situazione spirituale «che lo psichiatra non può non chiamare anche una situazione psichica; una situazione che al limite è malattia».

BungeAkedia2Acedia, dunque, o accidia, tristezza, o, più propriamente secondo Giovanni Cassiano, «acedia, quod est anxietas, sive taedium cordis», tedio del cuore: una condizione cui Evagrio ha dedicato descrizioni ampie e accurate, desunte sia dall’introspezione sia dalle «innumerevoli confessioni ascoltate» in qualità di padre spirituale di altri monaci. Il saggio di Gabriel Bunge ne esamina la trattazione citando diffusamente gli scritti di Evagrio e organizzandoli secondo uno schema chiaro e funzionale: definizione, origine, caratteristiche, rimedi ed esiti. Uno schema che indica anche un movimento: se infatti guardiamo alle considerazioni conclusive, notiamo come secondo Bunge l’acedia non è soltanto un male, un vizio, dal quale si può «guarire», ma anche un percorso, la tappa di un percorso, che può condurre in «regioni sconosciute e insolite»: quelle, per anticipare, della «contemplazione della gloria luminosa di Dio nello specchio luminoso del proprio io purificato da tutte le passioni». Un’esperienza forse addirittura necessaria, a patto che nel momento decisivo chi ne patisce scelga: «Una via d’uscita dal circolo infernale dell’acedia, infatti, è possibile solo se l’uomo apre un varco nelle mura carcerarie del proprio io, del proprio disperato isolamento, e perviene all’autentica esistenza personale, trasparenza per l’altro, e dunque anche all’autentico amore, che è un trovare se stessi nel darsi al tu dell’altro».

Non va dimenticato che per Evagrio l’acedia non è un’esperienza che ci cade addosso dal cielo come la pioggia, ma è il risultato di un attacco deliberato dei demoni che, come per ogni altro vizio o passione, fanno leva sulle nostre debolezze per perderci, che sfruttano la «radice malata» per amplificare il male. Un attacco che deve tradursi, da parte nostra, in una lotta, condotta scegliendo le armi più adatte e confidando nell’aiuto indispensabile del Signore. Secondo Gabriel Bunge questa lotta, la lotta spirituale, è «l’unica esperienza importante che è da fare in questa vita» e chi se ne priva fuggendo da essa commette un errore irreparabile. L’alternativa non è una stoica sopportazione fine a se stessa, bensì la pace di Dio, di un incontro con Lui «diretto e personale», per avere un’idea del quale «forse sarebbe bastato resistere un’oretta in silenzio».

(1-segue)

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  1. Gabriel Bunge, Akèdia. La dottrina spirituale di Evagrio Pontico sull’accidia, prefazione di G. Benedetti, traduzione di una versione corretta e aumentata dell’Autore di E. Salvadè-Ceppi, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, 1992, 19952.
  2. Gabriel Bunge, Akèdia. Il male oscuro, nuova edizione interamente rifatta sulla quarta edizione tedesca ampliata [1995], a cura di V. Lanzarini, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1999.

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Evagrio Sigmund Pontico

Ho sempre trovato utili ed efficaci gli scritti di Evagrio Pontico sui «pensieri», ossia sui demoni che si insinuano nella nostra mente, per distrarci dai buoni propositi, e che si «oppongono alla pratica», cioè al processo di liberazione dalle passioni. È un’ambiguità, quella tra demoni e impulsi interiori (pulsioni), di certo non pertinente al pensiero di Evagrio, ma in questo caso accettabile per il lettore moderno, più esattamente per me, utile, appunto, al fine essenziale e della massima importanza di non mentire a se stessi, di non distogliere lo sguardo dalle proprie «rappresentazioni mentali»1, anche le più imbarazzanti e riprovevoli, e che possono essere definite «demoni». Che il buon proposito di Evagrio sia quello di conformarsi a Cristo, o, per il lettore moderno, di comportarsi degnamente, direi che qui non fa differenza.

Nel trattato Sui pensieri2, ad esempio, noto in latino come De malignis cogitationibus, Evagrio salda i concetti in una sola definizione e descrive il meccanismo in maniera impeccabile: «Il pensiero demoniaco è… l’immagine di un uomo sensibile che si forma nell’intelletto, [un’immagine] imperfetta con la quale la mente, coinvolta nelle passioni, parla o agisce di nascosto in maniera iniqua»; la mente, infatti, nel momento della tentazione, cioè «in presenza del demone», s’impadronisce della figura del proprio corpo e con essa crea un collegamento ai sensi, aprendo la strada all’impurità3. Qui sta il peccato, dice Evagrio, perché senza immagine non v’è tentazione, e senza tentazione non v’è gesto, azione; qui sta il germe, potremmo ugualmente dire, del comportamento indegno.

Bisogna quindi fare attenzione, cogliere le prime manifestazioni dei demoni-pensieri ed opporvisi subito. Fare attenzione significa imparare a discernere perché, oltre che demoniaci, i pensieri possono essere anche umani – non necessariamente cattivi, bensì eventualmente deviati dalla nostra volontà – e angelici, necessariamente buoni. Operazione da subito e per sempre assai delicata, il discernimento, che, se così si può dire, impianta nella mente il seme della scissione, il seme da cui si sviluppa il «combattimento spirituale», quel vasto e sanguinoso campo di battaglia contro i demoni di cui Evagrio è insuperabile reporter. È evidente, infatti, come Evagrio parli di ciò che ha osservato direttamente, anzitutto in se stesso, vero maestro di quella sincerità di cui dicevo sopra. Imparziale, severo, minaccioso, sa che la battaglia sarà senza fine, ma invita a non disperare, perché «c’è stato un tempo, infatti, in cui il male non esisteva e ce ne sarà uno in cui non esisterà».

Ammetto di essere molto sensibile all’idea di questa nuvola perenne di demoni-pensieri che mi assedia e al tempo stesso è già dentro di me, che si agita come un nugolo di ospiti estranei contro di me. Sempre all’erta, pronti, svegli, «i demoni infatti scrutano tutti i nostri gesti senza tralasciare di sottoporre ad esame ogni cosa che ci riguarda: lo stare stesi, lo stare seduti, il parlare, il camminare, lo sguardo. Tutto scrutano, tutto muovono e meditano tutto il giorno inganni contro di noi in modo da denigrare la povera mente nel momento della preghiera e spegnere la luce beata». Sono capaci di tutto, i demoni-pensieri, pur di scovare una crepa: di attraversare «vasti mari», di cavalcare i venti, di evocare «draghi alati», di darsi manforte, di mettersi di traverso o di appostarsi ai lati, di raccontare ogni tipo di storia, di infilarsi nei sogni, di assumere le forme più disparate, di inseguirsi vorticosamente finché «il cuore [passando] da rappresentazione a rappresentazione e da questa a un’altra e quindi a un’altra ancora cade in un baratro di oblio», di escogitare mille altri stratagemmi che «non è il caso di rendere pubblici e di affidare alla scrittura». Sono capaci di tutto, verrebbe da dire, perché sono fatti a nostra immagine e somiglianza.

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  1. «Tutti i pensieri demoniaci introducono nell’anima rappresentazioni di oggetti sensibili»; e anche: «I demoni impressionano la nostra facoltà direttiva con le fantasie del sogno».
  2. Evagrio Pontico, Sui pensieri – Riflessioni – Definizioni, introduzione, traduzione e note di L. Coco, Città Nuova 2014. La versione contenuta in Gli otto spiriti della malvagità – Sui diversi pensieri della malvagità, nuova edizione con testo greco a fronte, a cura di F. Moscatelli, San Paolo 20103, non l’ho ancora letta.
  3. «Con questa figura interiore la nostra mente fa tutto: nel pensiero siede e cammina, dà e prende. Fa questo e dice ogni cosa che vuole grazie alla rapidità delle rappresentazioni.»

 

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Un sonno pesantissimo (Dice il monaco, LIII)

Dice Evagrio Pontico, monaco e Padre del Deserto, verso la fine del IV secolo:

Ci sono certi demoni impuri che stanno sempre seduti accanto a quelli che leggono nel tentativo di rapirne le menti. Spesso essi prendono spunto dalle stesse divine Scritture per giungere a cattivi pensieri. A volte costringono a sbadigliare più del solito e destano un sonno pesantissimo diverso da quello consueto.

Alcuni fratelli hanno immaginato che si tratti di un’inspiegabile reazione naturale. Per conto mio, avendo spesso osservato ciò, ho capito che essi toccano le loro palpebre e tutta la testa e la raffreddano mediante il proprio corpo. Infatti i corpi dei demoni sono assai freddi e simili al ghiaccio. Perciò sentiamo la testa come se, stridendo, fosse attratta da ventose. Fanno ciò con lo scopo di attirare a sé il calore che risiede nel cranio e allora le palpebre, allentate per l’umidità e il freddo, calano sulle pupille degli occhi.

Spesso, al tatto, ho trovato le palpebre rigide come il ghiaccio e tutto il volto come morto e attraversato da brividi. Il sonno naturale di norma riscalda i corpi e rende floridi i volti di chi sta bene, come è possibile apprendere in base all’esperienza stessa. Essi invece, facendosi piccoli per giungere fino in fondo alla bocca, provocano sbadigli innaturali e continuati.

♦ Evagrio Pontico, Sui pensieri, 33, in Sui pensieri – Riflessioni – Definizioni, introduzione, traduzione e note a cura di L. Coco, Città Nuova 2014, pp. 76-77.

 

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Self-help by Evagrio

«Prego… la tua paternità di insegnarmi in che modo io debba combattere coloro che appartengono alle tenebre e prego insistentemente la tua santità di comporre un trattato chiaro, che mi spieghi tutta la malizia dei demoni, che di propria iniziativa intervengono sulla via del monachesimo, e di volermi inviare questo trattato perché senza fatica anche noi scacciamo via da noi i loro perfidi attacchi.» Così scrive un abba Lucio al grande Evagrio, il quale prontamente risponde (la corrispondenza si è conservata per una «felice circostanza»): avrei preferito di no ma, visto che me lo ordini, ti mando il mio trattato, magari lo correggi e lo completi, anche perché «ti confesso… che non ho finora ancora afferrato nella giusta maniera i pensieri demoniaci».

Il trattato è l’Antirrhetikos (da antírrhesis, «replica»), risale agli anni successivi al 390 ed è noto anche come Contro i pensieri malvagi. Come dice Gabriel Bunge, «è una delle opere più importanti del monaco pontico Evagrio e, con tutta evidenza, una delle più interessanti per dei monaci». Contiene 498 risposte – suddivise in base agli otto «pensieri», i progenitori dei sette peccati capitali – ad altrettante suggestioni demoniache: quando il monaco, soprattutto l’anacoreta, è assalito dalla tentazione, non sempre ha la risposta adatta sotto mano, ecco quindi un «arsenale» di rimedi pronti all’uso. Praticamente, un manuale di self-help.

Precedute da un breve e denso prologo sulla lotta contro i pensieri, tipica dei monaci che hanno abbandonato le cose materiali, consueto ricettacolo dei demoni per gli uomini mondani, le risposte sono citazioni bibliche (Antico e Nuovo Testamento), tra le cui fonti spiccano per frequenza il Deuteronomio, i Salmi, i Proverbi e le Lettere di san Paolo. Inevitabilmente, come suggerisce lo stesso Bunge, in quanto «lettore moderno» sono stato attratto, più che dalle risposte, dalle tentazioni, che consentono un eccezionale colpo d’occhio sulla psicologia, nonché su certi tratti concreti, del monachesimo primitivo.

Scorrendole, ci si imbatte nelle lusinghe della memoria («Contro il pensiero che ci ricorda le delizie di un tempo e ci fa venire in mente i vini dolci e le coppe tenute nelle nostre mani, quando eravamo ai banchetti e ci davamo al bere», I, 30) o negli avvertimenti del buon senso («Contro il pensiero che ci prospetta una brutta malattia per i danni provocati in noi dal digiuno e ci persuade a mangiare qualcosa di cotto», I, 59), in desideri comuni («Contro il demone che nella mia mente mi consiglia di unirmi a una donna e di diventare padre di famiglia e di non rimanere così combattuto dalla fame con pensieri di fornicazione», II, 49) o in comuni reazioni («Contro il pensiero di chi non sopporta il tocco del demone che si precipita tra i fianchi e da lì sotto si muove in essi, provocando l’incendio», II, 63), e ancora in paure generiche («A causa del demone che insinua nei miei pensieri la paura della follia e della perdita della ragione, insieme alla vergogna che ne verrebbe per me», IV, 43) o in scene quotidiane («Contro il pensiero che suscita la nostra ira verso il bestiame che non va avanti dritto per la strada», V, 18), e infine in situazioni passe-partout («Contro i pensieri di ogni sorta che sono generati dalla collera per questioni di vario tipo», V, 50) o specificatamente monastiche («Per l’anima che a causa dell’acedia si carica di pensieri che mandano in frantumi la speranza, facendole vedere che è molto dura la vita monastica e difficilmente un uomo la sopporta», VI, 14). Insomma, finirei per citarle tutte, perché adoro questi elenchi…

Scorrendole velocemente, passano come su uno schermo, con qualche aggiustamento dal IV al XXI secolo, tutti i pensieri di cui sarei portato a vergognarmi, e la schiera dei demoni che li suggerirebbe scompare, lasciando il posto alla cosiddetta natura umana, invidiosa, collerica, avida, vanagloriosa, smodata – un bel cataloghino. Evagrio mi ricorda che in fondo ogni sconfitta la devo a me stesso e ogni vittoria la devo al Signore – c’è un che di tragico nel considerare l’essere umano un campo di battaglia tra forze che lo oltrepassano: miliardi di campi di battaglia affiancati, che si sovrappongono, si toccano, sconfinano l’uno nell’altro, con il sangue del male che scorre dall’uno all’altro… Da parte mia, tenderei a puntare, contando sulle sole forze qui disponibili, allo scadere del tempo, a un dignitoso pareggio.

Evagrio Pontico, Contro i pensieri malvagi. Antirrhetikos, introduzione di G. Bunge, traduzione e note a cura di V. Lazzeri, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2005.

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