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La schiuma delle parole: i certosini e i libri

Sull’ultimo numero di «Benedictina» è apparso un articolo molto interessante della studiosa Emanuela Garibaldi dedicato al ruolo dei libri e della lettura all’interno dell’ordine certosino, con particolare riguardo agli aspetti pratici e normativi1. Lo studio si estende dalle prime scritture normative, le Consuetudines Cartusiae del priore Guigo I, del 1127, attraverso le varie stesure degli Statuti, fino agli Annales ordinis Cartusiensis del priore Innocent Le Masson (1627-1702).

Sin da subito è chiaro come il libro sia centrale per la vocazione certosina («oggetto privilegiato nella propria formazione intellettuale e spirituale»), orientata al distacco dal mondo e alla contemplazione delle «cose divine»; libro da leggere, da trattare con somma considerazione, ma anche libro da ricopiare: il monaco, scrive infatti Guigo, «riceve dalla biblioteca [de armario] due libri da leggere. Riguardo ad essi gli viene ordinato di prestare tutta l’attenzione e la cura a che non vengano sporcati né dal fumo, né dalla polvere, né da qualunque altro tipo di sporcizia. Vogliamo, infatti, che i libri, quale eterno cibo delle nostre anime, siano custoditi con la massima cautela e con il massimo impegno, affinché, dato che non possiamo predicare la parola di Dio con la bocca, lo facciamo con le mani. Quanti sono, infatti, i libri che ricopiamo, altrettanti araldi della verità in vece nostra ci sembra di fare»2.

Cautela e impegno massimi anche perché i libri sono pochi e costosi da produrre, in termini di materiali e di tempo, tanto che nei testi legislativi compaiono assai presto disposizioni riguardanti il loro possesso, il prestito e la mancata restituzione. Anzitutto il possesso che non può mai in alcun modo essere individuale, bensì sempre e soltanto del monastero, un legame che rimane inscindibile anche in caso di prestito (per esigenze di copiatura) o di temporaneo spostamento (in seguito a viaggi, soprattutto di priori). La mancata restituzione, poi, è trasgressione tutt’altro che lieve: «Il XV secolo è costellato di ordinationes capitolari inerenti a diatribe legate alla proprietà di beni librari». Gli scambi e le delibere vengono discusse nel Capitolo annuale di Grenoble e non sono cose da trattarsi con leggerezza: c’è traccia ad esempio del priore della certosa di Capri che nel 1423 si dimentica di portare i libri che doveva restituire ai monaci di Villeneuve-les-Avignon, o il denaro corrispondente al loro valore, e non è nemmeno la prima volta: gli viene quindi imposta l’astinenza dal vino. In certi casi le pene per i «crimini librari» possono arrivare alla sospensione dal proprio ufficio o addirittura all’incarcerazione (occorsa nel 1426 a un monaco di Valbonne per aver sottratto una Bibbia e un salterio già promessi ad altra certosa).

Va da sé che il punto di svolta è rappresentato dall’invenzione e diffusione della stampa, ma, se l’ansia per la penuria dei libri si stempera (ancorché lentamente), non diminuisce la preoccupazione per la correttezza dei testi sui quali i monaci pregano, studiano o meditano, che anzi si acuisce in seguito all’esplosione della Riforma e ai risvolti anche librari che assume. Il tempo che prima era dedicato alla copiatura si riversa, per così dire, in quello riservato alla lettura; attenzione, però: la maggiore disponibilità non deve tradursi in distrazione o pericolosa bramosia di sapere. Per dire, sono proibite tutte le edizioni delle sacre scritture curate da Erasmo («contrarie alla religione certosina»); viene scoraggiato lo studio eccessivo del greco («Vi sono infatti alcuni che […] affermano anche che nessuno possa giungere alla vera conoscenza e comprensione delle Sacre Scritture se non è istruito nella lingua greca. E così trascorrono il tempo concesso per le letture sacre, cedendo a una certa curiosità d’animo, nelle lettere greche, oltre che in quelle ebraiche»); va bene lo studio, soprattutto per i monaci maturi e formati, ma alcune materie vanno evitate, in primis l’alchimia e l’astrologia («Ingiungiamo solennemente, pena la reclusione, che [il monaco] non si immischi nelle previsioni fallaci dell’astronomia», 1462), ma anche in certa misura la medicina e il diritto (che spinge a occuparsi di questioni cavillose e infruttuose).

Da tali preoccupazioni derivano così elenchi di libri «giusti» e di edizioni corrette, l’introduzione dell’approvazione del priore generale per la stampa di testi liturgici, il divieto di porre aggiunte o correzioni in margine ai libri concessi, l’adozione delle disposizioni dell’Indice di Paolo IV (1559) e di quelli successivi, l’obbligo per i padri visitatori di controllare i libri presenti nelle biblioteche e nelle celle dei monasteri («Ordiniamo che i visitatori di ciascuna Provincia, nonché i convisitatori, quando visitano le case a loro affidate, verifichino i libri conservati sia nelle singole celle sia nelle biblioteche comuni, e che lo facciano con la massima cura possibile», 1567); le grandi imprese di pubblicazioni uniformi dei testi fondativi e statutari. E così via, in buona sostanza fino al XVIII secolo.

D’altra parte, la lettura del monaco certosino ha sempre e soltanto uno scopo, ben chiaro anch’esso sin dalle origini. Lo afferma Bernardo, priore di Portes, nella famosa lettera a un monaco recluso, del 1128-30: «Accostati alla lettura devotamente e con desiderio spirituale, affinché tu possa udirne qualcosa che valga come esempio per la tua conversione, oppure, come il Signore si degnerà di fartene dono, tu possa essere ristorato dalla dolcezza dei discorsi e dei misteri divini. Leggi tutte le sacre Scritture di cui potrai disporre con questa diligenza e con tale intenzione, non per gonfiarti di sapienza, ma per essere edificato nella carità». E con una bella immagine lo suggerisce lo stesso Guigo, in una lettera sulla vita solitaria dei medesimi anni: «Si dedica [il monaco] alla lettura, soprattutto di opere canoniche e religiose, nelle quali conta più il midollo del significato che la schiuma delle parole [in quibus eam magis occupat medulla sensuum quam spuma verborum]».

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  1. Emanuela Garibaldi, «Eterno cibo delle nostre anime»: la disciplina della lettura nelle fonti normative dell’ordine certosino, in «Benedictina» 69 (2022), n. 1-2, pp. 55-93.
  2. Le consuetudini di Guigo I, XXVIII, 3-4, in Fratelli nel deserto. Fonti certosine II. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di C. Falchini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2000.

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Movente, metodo e fine, origine, senso e scopo

VitaNostra 23 Di grande interesse il numero più recente di «Vita Nostra», il periodico dell’Associazione «Nuova Citeaux», che dedica ampio spazio alla prima parte del capitolo generale dei Cisterciensi della Stretta Osservanza, tenutasi ad Assisi lo scorso febbraio e che ha visto l’elezione del nuovo Abate Generale, nella persona di d. Bernardus Peeters, già abate della comunità brabantina di Tilburg.

Tra le righe dei vari testi sono disseminate osservazioni che, pur nella necessità della sintesi e con la consueta discrezione, rimandano alla ferma e talvolta dolorosa riflessione su se stessi che i monaci e le monache del secolo presente sentono in vari modi premere sulle proprie coscienze, una pressione che viene dal contesto culturale e religioso in cui vivono e che, come dice l’abate di Citeaux d. Burton, «ci presenta, per la Chiesa e per il futuro del nostro Ordine, delle sfide immense!» Cosa ci si aspetta dai monaci, si chiede ancora d. Burton, in questo mondo «disincantato dal suo stesso disincanto»? E la sua risposta affianca quattro virtù, quattro volti noti ma non per questo facili né immediati: «Nel nostro [non passi inosservato l’uso del possessivo “nostro”] mondo secolarizzato, questo è ciò che ci si aspetta da noi: la profondità della sapienza e l’ampiezza della tenerezza, raddoppiata dalla lunghezza della pazienza, ed essa stessa a spirale verso le altezze della speranza!»

Nel testo di d. Mauro-Giuseppe Lepori, abate generale dei «cugini» della Comune Osservanza, che prende spunto da un passo di Matteo, si può leggere d’altra parte, che «la comunione fraterna in Cristo è la sostanza della missione, di tutta la missione della Chiesa, anche della missione dei monasteri. La comunione è il movente, il metodo e il fine, l’origine, il senso e lo scopo della missione della Chiesa». Insieme bisogna vivere, camminare, mangiare, fare, parlarsi, vedersi e ascoltarsi, e decidere – e da abate di lunga esperienza d. Lepori aggiunge: «Il problema non è tanto di prendere sempre le decisioni giuste, ma di far crescere il consenso, il sentire insieme della comunità» (e quanto mi piacerebbe chiedergli fin dove crede si possa spingere questa impostazione al crescere meramente numerico della «comunità» in questione).

Ancora più esplicite e fitte le considerazioni della Sintesi dello stato dell’Ordine di m. Maria Francesca Righi e d. Godefroy Raguenet de Saint Albin. Un testo breve e calibrato nel quale a tratti mi è parso di percepire un antagonismo più marcato col mondo della «secolarizzazione globale» e che vuole riaffermare il senso dell’«inalterata attualità del nostro carisma», pur muovendo dalle ombre circostanti prodotte dalla crisi (ecologica, sanitaria, economica e legata agli abusi), dalla riduzione della comunità, dalla «fragilità delle nostre strutture», dai «sentimenti di isolamento». Anzitutto il carisma, appunto, che trova, tra le altre, un’inattesa declinazione resistenziale: «I fondamenti della vita monastica, i pilastri del nostro carisma, ci permettono di resistere alla mondanità manageriale e alla preponderanza della tecnoscienza». Poi la fraternità, e poi ancora la formazione, «questione cruciale, evidenziata in vari modi» che rimanda anche al problema assai complesso tra i monasteri delle giovani Chiese e quelli del vecchio mondo («Siamo ancora (troppo?) in gran parte non toccati dall’interculturalità che segna la vita religiosa apostolica oggi»).

Molti anche gli spunti «tecnici», come ad esempio l’osservazione che «le conferenze regionali sembrano essere una risorsa sottoutilizzata»; oppure il suggerimento che «la mancanza di padri immediati non potrebbe aprire la strada alle “madri immediate”?»; o ancora l’invito a esplorare gli aspetti migliori della «comunicazione», ad esempio con «una piattaforma interattiva, un blog moderato da un membro della Casa Generalizia, ecc.»); o infine la velatissima e sorprendente (e quindi espressa in latino…) proposta di valutazione di nuove forme di professione di fronte alla «sete esistenziale dei candidati» (non sempre e non più soltanto giovani – «dovremmo rivedere il nostro vocabolario, quando sono spesso ultracinquantenni»): «Proprio come la richiesta dei laici cistercensi è stata un segno dei tempi, così una proposta di vita monastica ad tempus è forse un percorso da esplorare».

«Il vecchio mondo se n’è andato», concludono m. Righi e d. Raguenet, e occorre che l’Ordine si apra, al proprio interno e all’esterno, dialogando, condividendo, testimoniando, accogliendo. È necessario, «se non vogliamo essere i guardiani o le reliquie di un mondo passato».

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Ostaggi (Gregorio e Bernardo, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

L’inaggirabilità del corpo, si diceva; campo decisivo dove si gioca la nostra «partita». Per san Gregorio Magno la strada da seguire è quella di un radicale ritorno in se stessi (habitare secum), chiudendo le porte che in noi si aprono al mondo, e ai suoi «pericoli», e spegnendo i sensi che vi sono connessi. In tale prospettiva il chiostro è simbolo perfetto di questo movimento e al tempo stesso strumento pratico di grande efficacia, quasi una piattaforma di lancio per ascendere alla contemplazione delle cose celesti. Parlando di san Benedetto, Gregorio sintetizza dicendo che in quella solitudine raggiunta «abitava con se stesso nel senso che si manteneva nel chiostro del suo pensiero; ma ogni volta che l’ardore della contemplazione lo portava alle altezze, senza dubbio si lasciava sotto se stesso» (il corsivo è mio). «In questo contesto», commenta Patricia Metzger1, il chiostro è presentato come un baluardo contro il mondo, così come la Chiesa e la fede sono presentate come paradisi di pace nel cuore di un mondo tormentato» (e non è difficile scorgere qui uno dei motivi di attrazione che gli stessi edifici monastici suscitano nei laici che li visitano).

Anche san Bernardo invita a partire dalla miseria della nostra condizione per orientarsi a Dio, ma non facendo leva sulla colpa, come Gregorio, bensì sulla progressiva conoscenza di sé, non sulla chiusura bensì sull’apertura. Mettendo anche in guardia sui rischi legati all’idealizzazione della contemplazione. L’interiorità, per Bernardo, non è un rifugio dolce e riposante, non deve esserlo se si vuole evitare il compiacimento – cioè l’inautenticità. Scrive Bernardo, con micidiale finezza, al canonico Ogero (Lettera 87): «Di’ la verità, cioè che tu hai avuto cura più della tua quiete che dell’utilità degli altri. E non c’è da meravigliarsene: anche a me, lo confesso, piace che una siffatta quiete ti piaccia, purché non ti piaccia troppo». E aggiunge, inchiodando alla sua responsabilità il povero Ogero, che, con sollievo, aveva «deposto il carico della cura pastorale»: «Qualsiasi bene che piace tanto che se non lo si può realizzare, secondo le norme, ci spinge però a realizzarlo lo stesso anche in un modo non lecito, è un che di troppo e per il fatto stesso che non è compiuto secondo le regole non è un bene». Il pericolo per Bernardo, secondo la lettura di Metzger, non è (quasi) mai nel mondo, ma (quasi) sempre e comunque in noi stessi, «nelle illusioni e nelle false immagini che alimentiamo su noi stessi».

L’ingresso nel chiostro, reale e simbolico («luogo alto e segreto, ma per nulla tranquillo»), quindi, non è una fuga dal mondo, corrisponde invece alla creazione di uno spazio, reale e simbolico, di accoglienza interiore per incontrare il divino, nella sua indefettibile misericordia. La quiete monastica libera dunque dall’affanno della ricerca di sé, e dalle trappole dell’autoaffermazione, in virtù di una completa apertura e disponibilità all’incontro. Non si abbandona se stessi, nel chiostro, semmai ci si sveste. E questo è un punto di comprensione cruciale anche per un non credente come il sottoscritto, cruciale per quanto assai sfuggente se privato, appunto, dell’altro Protagonista di tale incontro.

«Lungi dall’essere un ripiegamento su stessi», conclude Metzger, «la quiete si rivela qui come il culmine dell’incontro, permettendo all’uomo non di sfuggire al mondo, ma di trovare la distanza necessaria per non esserne ostaggio.»

Ma chi, o cosa, c’è laggiù, se Lui non si vede?

(2-fine)

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  1. Da san Gregorio a san Bernardo. Due percorsi spirituali per condurre l’uomo carnale a Dio, in «Vita nostra» XII (2022), 1, pp. 21-50 (trad. di De saint Grégoire à saint Bernard: deux chemins spirituels pour conduire l’homme charnel vers Dieu, in «Collectanea Cisterciensia», 2019, 81).

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Un esperimento nel tempo (Gregorio e Bernardo, pt. 1/2)

Sul primo numero di quest’anno la rivista di «area cisterciense» «Vita nostra» ha dato in traduzione italiana un altro saggio molto interessante di Patricia Metzger, studiosa francese di liturgia e specialista di san Bernardo, dedicato al confronto del pensiero di san Gregorio e, appunto, san Bernardo sul corpo1. Argomento che li accomuna: «Entrambi descrivono i limiti e gli impedimenti della condizione umana e, più precisamente, la pesantezza che si lega al corpo». Si tratta, va da sé, di un testo per studiosi, che offre tuttavia numerose aperture in cui il lettore generico e laico può introdursi con profitto, se non si ritiene del tutto sbagliato considerare i due autori alla stregua, se così si può dire, di «pensatori esistenzialisti» ante litteram.

Entrambi condividono una situazione storica simile, avvertono in maniera simile la pressione del «mondo» e non vi si sottraggono, fondano il proprio pensiero sull’esperienza vissuta e sull’osservazione della realtà quotidiana e muovono da una simile visione della «miseria umana», «entrambi sanno che è attraverso il corpo che possiamo comunicare tra di noi, come con Dio»: il corpo come luogo inaggirabile dove cresce rigogliosa la nostra ambivalenza e… si gioca un po’ tutto.

Per illustrare la posizione del grande papa, la studiosa cita un brano mirabile dal suo Commento morale a Giobbe in cui Gregorio mostra come la nostra condizione di eterna mutevolezza ci spinge, per arginare il «malessere», a usare rimedi che si trasformano nel loro opposto (indeboliti dall’inattività, vogliamo fare, ma fare ci stanca e vogliamo riposare…), e così «il bisogno di curarsi non fa mai difetto. Tutti questi sollievi che cerchiamo di utilizzare nell’esistenza sono come tanti antidoti che usiamo contro il nostro malessere. Ma queste medicine si mutano in veleno, poiché, se rimaniamo un po’ a lungo attaccati al rimedio scelto, siamo disturbati da ciò che avevamo previsto dovesse ristorarci». Di conseguenza ci smarriamo in una continua e penosa trasformazione («Alla ricerca di ciò che non possiede, quando lo riceve, [l’anima] sperimenta l’ansia») e ci troviamo in una situazione analoga anche di fronte al sapere, alla conoscenza: «Vedendosi al tempo stesso vasta e limitata, [l’anima] non sa più cosa pensare di se stessa: se non fosse grande, non si sarebbe mai posta tali questioni e, se non fosse piccola, risolverebbe almeno i problemi che si pone».

Il corpo («sintesi di quello che vive l’uomo, gettato nel cuore del mondo», dice Metzger, usando un termine molto significativo) è dunque per Gregorio il peso che ci trascina in basso e che ci inchioda, negativamente, alla realtà terrena, distogliendoci dal cielo. Da esso dobbiamo prendere le distanze; dal corpo e dal mondo dobbiamo per quanto possibile allontanarci per ritrovare, in un luogo riparato e in noi stessi, la via che ci riconduca a Dio. Non così per Bernardo, che alla considerazione della corporeità non ne fa seguire il disprezzo: la creatura non va disprezzata, poiché se ne disprezzerebbe implicitamente il Creatore.

Alla debolezza del corpo, alla nostra debolezza, Bernardo risponde guardando a Cristo e alla sua incarnazione: Cristo è entrato nel mondo, e in un corpo, ed è quindi nel mondo e nel corpo che può essere rintracciato. C’è qui un punto di grande interesse ai miei occhi. Nel trattato sui Gradi dell’umiltà e della superbia Bernardo ci invita a scoprire nella nostra miseria la chiave per comprendere e compatire quella altrui, seguendo l’esempio di Gesù «che ha voluto soffrire per sapere come compatire, diventare miserabile per imparare come avere misericordia». Ed ecco il passaggio cruciale: «Non che non lo sapesse prima, lui la cui misericordia è da tutta l’eternità: ma ciò che sapeva per natura da tutta l’eternità, lo ha imparato nel tempo per esperienza» («Quod natura sciebat ab eterno, temporali didicit experimento»). Nel tempo per esperienza! L’avere un corpo è dunque un’esperienza che mancava, da fare per una delle tre Persone (e quindi per tutte, no?). Un corpo mortale, va aggiunto, poiché cos’è il tempo se non la morte? «Conosceva per natura, ma non per esperienza», ripete Bernardo, che pare rendersi conto di aver sfiorato l’idea di una possibile non completa onniscienza di Dio, e si affretta ad aggiungere che, in sostanza, l’ha fatto per noi.

(1-segue)

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  1. Da san Gregorio a san Bernardo. Due percorsi spirituali per condurre l’uomo carnale a Dio, in «Vita nostra» XII (2022), 1, pp. 21-50 (trad. di De saint Grégoire à saint Bernard: deux chemins spirituels pour conduire l’homme charnel vers Dieu, in «Collectanea Cisterciensia», 2019, 81).

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«Addirittura una faraona» (liste monastiche della spesa)

Stante la cronologia delle mie «ricerche monastiche» in rete, i siti che frequento mi propongono liste infinite di articoli «che mi potrebbero interessare», recenti, meno recenti, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e, è proprio il caso di dirlo, il naufragar m’è dolce in questo mare; anche perché gli articoli che si possono leggere sulle riviste specialistiche o sulle rassegne storiche spesso rappresentano delle potentissime lenti di ingrandimento che consentono di scorgere particolari solo apparentemente irrilevanti. Come nel caso della relazione che Antonella Ambrosio ha dedicato ad alcuni «registri di amministrazione» della fine del XV secolo del monastero domenicano dei SS. Pietro e Sebastiano, a Napoli1. Grazie a essi «siamo in grado di ricostruire con precisione alcuni dettagli relativi alla sfera del quotidiano e, più precisamente, cosa si consumava alla mensa del refettorio… In un libro di spese, giunto fino a noi vennero infatti annotati, quasi giorno per giorno, gli acquisti effettuati dalla comunità monastica, destinati in gran parte alla cucina e alla dispensa, per un periodo che va dal 1485 al 1496».

Le monache, che davano vita a una comunità «nel complesso aristocratica e colta», mangiavano bene e spendevano regolarmente soprattutto per carne, uova e pesce (tipici alimenti da ricchi); periodici gli acquisti di olio, zucchero e spezie (pepe, zafferano, noce moscata, cannella, zenzero), mentre forniture speciali sono registrate in occasione di ospiti di riguardo: specialmente di formaggi (caso cavallo e caso cecellese, casu mussu, caso de pecora, provole et recocte et casi cavalluczi), ma anche di «taralli, vermicelli, maccheroni, salsicce (per i famigli o per li lavuraturi dele massarie), miele, cedri, zucchero rosato, mandorle e nel 1493 addirittura una faraona». La verdura proveniva in larga misura dai possedimenti del monastero, ma veniva anche acquistata da venditori che si presentavano alla rota, cioè all’«interfaccia» della comunità col mondo esterno. Naturalmente nei lunghi periodi «di magro» la carne veniva comprata solo per le sorelle inferme e per i laici coinvolti nelle attività del monastero, e la circostanza veniva segnalata con precisione («Die XVII mensis augusti per pulii per li infirmi et hova per lo convento et carne per li mastri fabricaturi et dele maxarie»). Insieme alle spese per i cibi sono segnate anche quelle per gli utensili da cucina: «Forfici, piactelli, canistri, cistelli, una panara, due scafarie de rame per la cucina, tianelle, scutelle, curtelli per lo refectorio, cuchiare, un pisaturo ovvero pestello di mortaio».

I registri riportano poi spese periodiche per stoffe, indumenti, calzature, in particolare dei domenicani del convento di S. Domenico Maggiore, che sostenevano in varie attività la comunità femminile (stivali per frate Leone, un ochiaro per frate Simone, lo cappello de frate Natale, la cappa de fra Thomasi converso e una thonica de frate Iacobo) e per… la carta. Certo, perché l’esistenza stessa di questi volumi rimanda a quell’attività scrittoria che, specialmente in ambito domenicano, aveva portato nel XV secolo a «una vera e propria esplosione delle serie archivistiche». Le monache, e i frati che le assistono, sono spinte a tenere nota di tutto, una «registrazione onnicomprensiva» che serve al recupero e alla gestione del patrimonio fondiario, al controllo delle spese, all’inventario dei beni della casa, a testimoniare dell’osservanza delle regole (è previsto anche «un liber consiliorum in cui venivano annotate le deliberazioni della comunità e tutti i nomi delle monache deliberanti e, se esse erano in grado di scrivere, le loro sottoscrizioni»).

Il corpus di scritture, là dove è sopravvissuto, consente di rendersi conto della rete estesa di persone e circostanze che si stendeva dentro e intorno al monastero e con la quale le monache avevano regolari contatti, una «popolosa familia monastica, protagonista anch’essa della vita materiale del convento, composta di domestici che svolgevano le più svariate attività nella cucina e in altri luoghi del monastero e di conversi che si occupavano delle relazioni con il mondo esterno», e poi «tutto un universo» di ortolani, giardinieri, contadini che lavoravano le terre del monastero, operai che all’occorrenza ne riparavano i danni, commercianti che lo frequentavano, artigiani che ne affittavano gli immobili di proprietà… e l’initerrotto flusso di parenti e di ecclesiastici in visita.

Valuta nella quale sono registrate le spese? Ducati e tarì, e va detto che con un tarì qualcosa ci si poteva comprare: ad esempio duy cuchyare de maccaruni o un numero non precisato di citri da confectare.

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  1. Antonella Ambrosio, La vita quotidiana in un monastero femminile di Napoli alla fine del Quattrocento: la documentazione «a registro» dei SS. Pietro e Sebastiano, in «Rassegna Storica Salernitana» XXIII, 1 (giugno 2006).

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Celle e mascherine

Nel bel mezzo di un saggio interessante su «eremitismo francescano e reclusione femminile» Marco Guida, francescano a sua volta, e preside della Scuola superiore di Studi medievali e francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma, fa un’osservazione inattesa1. Non perché avventurosa, oscura, discutibile o che altro, anzi; inattesa perché atipica rispetto alla natura accamedica del testo. Ecco cosa scrive lo studioso, introducendo le sue considerazioni su clausura e reclusione nel caso di Chiara d’Assisi: «L’interesse per l’“attualità” di certi temi non deve condizionare l’analisi e l’interpretazione dei testi medievali. Le Regulae, ad esempio, furono una risposta a domande sociali e religiose del XIII secolo e possono aiutarci a comprendere e a contestualizzare le esigenze di quel periodo, difficilmente potranno dare delle risposte a come vivere concretamente oggi; potranno offrire, invece, orizzonti, valori e ideali cui ispirarsi. Le norme e le consuetudini di una regola duecentesca sono spesso inutili e inapplicabili in un contesto radicalmente diverso da quello del secolo in cui videro la luce».

Non posso escludere che qualche religioso non si trovi completamente d’accordo, per contro, per un laico, pur consapevole di tante cose: limiti, difetti, velleità, appropriazioni indebite, ecc., la parola chiave è quell’«invece», ed è lì che mi sono soffermato, poiché in fondo credo che, parafrasando, «le regole siano anche una risposta a domande esistenziali probabilmente di ogni secolo». In questo senso, poi, il saggio di Marco Guida è ricco di citazioni che invitano a trascendere, se così si può dire, la materia trattata, con particolare riguardo al concetto di «cella interiore».

Giusto un paio di esempi. Il primo è un «detto» di Francesco tramandato dalla cosiddetta Compilazione di Assisi (FF 1659) e recita: «Pur essendo in cammino, il vostro comportamento sia così dignitoso come se foste in un romitorio o in una cella [in heremitorio aut in cella]. Infatti dovunque siamo e andiamo, noi abbiamo la cella con noi [habemus cellam nobiscum]: fratello corpo è la nostra cella, e l’anima è l’eremita che vi abita dentro per pregare il Signore e meditare su di lui». Ma cosa succede se in questa «cella» regna un silenzio abissale, una confusione inestricabile di voci o si srotola un monologo più o meno vaneggiante? Cosa, se il Signore lo si crede assente o una mera istanza ideale? Cosa avviene, realmente, lì dentro, se la cosiddetta anima (constipata et sola, come diceva di sé Angela da Foligno) è strapazzata dalle sue illusioni? A quest’ultima domanda risponde lo stesso Francesco, quando aggiunge subito dopo: «Perciò se l’anima non rimane in tranquillità e solitudine nella sua cella, di ben poco giovamento è per il religioso quella fabbricata con le mani». Le risonanze sociali, politiche, psicologiche e psicoanalitiche di quelle parole sono innumerevoli, e forse non c’è modo di uscirne, e dalla questione e dalla cella2.

Il secondo esempio è una testimonianza, ancora di Francesco, tratta dalla Vita Seconda di Tommaso da Celano (FF 681): «Cercava sempre un luogo appartato dove potersi unire, non solo con lo spirito, ma anche con le singole membra al suo Dio. E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola con il mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica per non svelare la manna nascosta. Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto con lo sposo: così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave. Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto». Ma in assenza di quella «visitazione», cosa c’è da nascondere? Qual è il segreto che non si può condividere quando si è stipati tra mille? Che non sia manna, allora, bensì il suo contrario? Come nel caso delle mascherine che ci siamo abituati a indossare in questi anni?

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  1. In «Quaderni di storia religiosa medievale», 24 (2021), pp. 195-238.
  2. «Azione è uscire dalla solitudine», direbbe, per fare un solo esempio, Luigi Pintor.

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Silenziose e sommerse (La reclusione volontaria)

Il numero più recente dei «Quaderni di storia religiosa medievale» (24, 1/2021), curato da Frances Andrews ed Eleonora Rava, è dedicato a Ripensare la reclusione volontaria nell’Europa medievale ed è di eccezionale interesse. I dieci saggi che vi sono raccolti, di sintesi e di approfondimento di casi esemplari, coprono un arco temporale che va all’incirca dal XIII al XVI secolo e offrono un preciso orientamento su un fenomeno misterioso, affascinante, tutt’altro che omogeneo e prevalentemente femminile: «Occorre comunque distinguere tra due forme principali di vita solitaria, entrambe ordinate a un ritiro totale dal secolo: l’eremitismo, dai caratteri mobili e aperti, di ascendenza prevalentemente maschile, e la reclusione, un comportamento ascetico con una fisionomia tipicamente stanziale, praticata in luoghi chiusi soprattutto dalle donne» (Alessandra Bartolomei Romagnoli).

Ma prima di provare ad addentrarmi nelle meraviglie dell’erudizione, cioè dello studio profondo dei documenti sopravvissuti, devo sottolineare la potenza evocativa della «lista» che proprio la professoressa Bartolomei allega al suo saggio di ricognizione della letteratura agiografica1, una lista di «carattere puramente orientativo» che per ben sette pagine elenca in ordine cronologico nomi di donne, suddivise tra eremite e recluse e ulteriormente catalogate in sottocategorie: eremita in un monte, eremita in una grotta; reclusa presso una chiesa, reclusa domestica; eremita in un’isola, eremita un bosco, reclusa in una cella, in un lebbrosario, presso la cattedrale; reclusa vallombrosana, francescana e camaldolese; eremita in grotta poi badessa, badessa poi reclusa…

Wiborada (wikiwand)Donne esistite, con nome e luogo, e da un certo punto in poi anche cognome: Lutgarda di Tongres, Eliena di Laurino, Chelidonia di Subiaco e Verdiana di Castelfiorentino, «murata nella sua cella-sepolcro in un silenzio abissale e definitivo»; Monegonda di Chartres, Berta di Blangy, Liutbirga sassone, Viborada di Turgovia, martire della cella (in una miniatura sangallense si vedono i suoi uccisori penetrare dal tetto della cella, svellendo le tegole, per aggirare la porta sbarrata); Umiltà da Faenza, Cristina da Markyate e Cristina l’Ammirabile, Herluca di Bernried, Alpaide di Cudot, Marie Robine di Avignone, «reclusa stipendiata dal papa» Clemente VII; Benvenuta Boiani, Vanna da Orvieto e Gherardesca da Pisa, Filippa Mareri, Oringa Menabuoi e Diana Giuntini; e Giuliana di Norwich, «la donna inglese di cui si conosce soltanto il nome e che depone nel suo libro una dottrina di eccezionale densità speculativa»; e Ugolina da Vercelli, registrata come «eremita selvaggia»…

Una schiera impressionante che pare quasi di poter vedere, un «rivolo di sante donne», «una popolazione silenziosa e sommersa», donne di varia estrazione che rifiutano i ruoli assegnati, una rete di «ambienti collegati tra loro da una fitta trama di relazioni e scambi reciproci», un mare di testi agiografici (redatti esclusivamente da uomini, va da sé), rare «auto-agiografie, che sono memoriali e diari dell’anima», volti, gesti, aspirazioni, «libera e solitaria ricerca di Dio»…

Per non parlare di coloro che sono rimaste anonime, come la reclusa irlandese citata nella Vita di san Colombano di Giona da Bobbio:

Mentre [Colombano] è immerso in tali pensieri, gli accade di passare presso la cella di una donna consacrata a Dio. In un primo momento la saluta con tono umile, poi comincia a rivolgerle, secondo il suo stile, un’ardente esortazione. Questa, vedendo la veemenza crescente del giovane, gli dice: «Sono fuggita e sono partita per la guerra facendo tutto quanto mi era possibile. Ho lasciato la mia casa quindici anni fa e sono giunta in questo luogo di peregrinazione; mai, grazie all’aiuto di Cristo, dopo aver posto mano all’aratro, mi sono voltata indietro, e se la debolezza del mio sesso non mi fosse stata di ostacolo, avrei raggiunto, attraversando il mare, un luogo di peregrinazione ben più remoto. Ma tu, nel pieno ardore giovanile, ti attardi nella terra nativa…?»2

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  1. Alessandra Bartolomei Romagnoli, Le recluse nello specchio della letteratura agiografica. Appunti per una ricerca, in «Quaderni di storia religiosa medievale» 24, 1/2021, pp. 51-105.
  2. Giona, Vita di san Colombano, I, 3, Abbazia San Benedetto, Seregno, 1999, pp. 46-47 (il corsivo è mio).

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Il secondo posto

Rivolgendosi agli educatori benedettini, suoi confratelli, riuniti in conferenza internazionale, Michael Casey, trappista dell’abbazia di Tarrawarra, in Australia, sceglie due parole chiave per articolare il suo discorso: onore e umiltà1. Due parole tratte dalla «tradizione benedettina» che, per il monaco australiano, «più che un vocabolario specializzato o un codice di condotta, per quanto ammirevole, è la trasmissione della vita», la dimensione del passaggio da persona a persona essendo al centro stesso di tale complesso di concetti, regole, atteggiamenti e scopi. «La tradizione separatamente dalle persone non può essere imbottigliata e conservata, essa è elettrica: la scintilla salta da una persona all’altra.»

La riflessione dedicata all’onore prende spunto da una «ingiunzione» che san Benedetto include nell’elenco degli strumenti delle buone opere, tanto veloce da passare quasi inosservata: «Onorare tutte le persone [gli uomini]» (Regola, 4, 8). Cosa significa qui «onorare»? Secondo Casey onorare un altro «significa essere pronti a prendere il secondo posto in sua presenza, significa dargli spazio per occupare lo spazio disponibile, fare un passo indietro per permettergli di crescere, diminuire affinché egli possa aumentare»; e l’interpretazione di quello «spazio» è potenzialmente illimitata: lo spazio del discorso, lo spazio nei propri pensieri, desideri e opinioni, sul marciapiede, sul mezzo pubblico, nel proprio paese e nel proprio Paese, nel mondo. Onorare tutti, badando in special modo ai «deboli» e agli «immeritevoli»; «trattare tutti con uguale onore significa trattare tutti in modo diverso», perché nessuno è intercambiabile. Nessun monaco lo è per il suo abate, e qui, come ovunque dovrebbe, l’onore prende il posto dell’autorità assoluta: «Questo è, credo», dice Casey, «un elemento cruciale della nozione benedettina di autorità: non è principalmente una struttura di comando, ma qualcosa di più sottile che implica l’espressione esplicita e frequente delle credenze e dei valori che incarnano l’identità della comunità, in modo che possano essere assorbiti e assimilati dai monaci.» Onore a tutti, attenzione alla diversità, espressione esplicita e frequente, offerta di spazio – un compito eccelso, di cui so di non essere capace.

La trattazione dell’umiltà è ancora più delicata perché «sono state scritte», esordisce Casey, «così tante sciocchezze sull’umiltà nel corso degli anni che sento una certa riluttanza nell’usare questo termine». Due sono i punti controintuitivi da cui muove il monaco trappista: anzitutto l’umiltà non è una virtù, in secondo luogo è una qualità essenzialmente interiore e a sé riferita. L’umiltà apre la strada a una «forma di esistenza… meno tossica» grazie al riconoscimento di una realtà più grande (e trascendente) di noi. Ed è significativo che Casey proponga una specie di «aggiornamento» dell’umiltà rispetto al modello proposto da s. Benedetto («il modo in cui l’umiltà era espressa in quella cultura può non essere rilevante per noi; può persino essere in qualche modo ripugnante»), un aggiornamento non meno benedettino nello spirito. L’umiltà benedettina del XXI secolo è: a) solidarietà con i nostri simili, con i quali condividiamo tutto, in particolare la debolezza e la contraddittorietà; b) ammirazione della grandezza («Vivere alla presenza di Dio è una garanzia per sviluppare un apprezzamento realistico della propria posizione relativa nell’universo. Ammirare è uscire da se stessi», dice il rabbino capo della Gran Bretgna Jonathan Sacks, citato da Casey2); c) apprezzamento di quello che abbiamo ricevuto, come individui e come comunità. Again, un altro compito giusto di cui so di non essere capace.

Seguendo questi spunti, conclude Michael Casey rivolgendosi agli educatori, ma in fondo non solo, «la tradizione benedettina viene portata nel presente, con una nuova e vibrante espressione, e trasmessa alla prossima generazione. Possiamo ancora assistere a una nuova fioritura dell’amore delle lettere e del desiderio di Dio. E questo felice risultato, mi sembra, è nelle vostre mani.» Proprio una responsabilità da niente.

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  1. Michael Casey, Educazione benedettina: due parole, intervento alla Conferenza internazionale degli educatori benedettini, Sydney, ottobre 2019; in «Vita Nostra» 21 (2021, 2), pp. 23-39.
  2. Che così commenta: «Sappiamo quando siamo stati in presenza di qualcuno in cui respira la presenza divina. Ci sentiamo affermati, ampliati, e a ragione, perché abbiamo incontrato qualcuno che, non prendendosi affatto sul serio, ci ha mostrato cosa significa prendere con la massima serietà ciò che non è Io».

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Noi dobbiamo arrangiarci. Lezioni monastiche di economia e di vita

DonneChiesaMondo 10-21Molto, molto interessante il numero di questo ottobre 2021 di «Donne Chiesa Mondo»1, mensile dell’«Osservatore Romano», dedicato a come vivono le suore e le monache di oggi; «o meglio», come dice Ritanna Armeni nella premessa, «di che vivono, come provvedono alle necessità della vita quotidiana, come si organizzano». Il piglio gioioso della copertina contrasta un po’ con il tono generale del numero, improntato a una composta eppur profonda preoccupazione per la situazione delle diverse comunità. La foto che vi è riprodotta, assai famosa per chi è appassionato di cose monastiche, raffigura infatti un gruppo di consorelle dell’abbazia cisterciense di Boulaur, in Occitania, issate con grande soddisfazione su un grosso trattore agricolo2.

La preoccupazione che emerge dagli articoli e dalle interviste è legata sia agli aspetti per così dire strutturali, come l’invecchiamento delle comunità (che comporta l’aumento delle spese per assistenza e cura), l’assenza di un reddito regolare («Non riceviamo nessuno stipendio», dice una suora orsolina della Sacra Famiglia, «e nessun aiuto dal Vaticano. Noi dobbiamo arrangiarci») e la scomparsa di fonti di finanziamento tradizionali («Fino a una ventina d’anni fa si poteva parlare orientativamente di quattro forme di sostentamento», spiega s. Claudia Grenga dell’Unione superiore maggiori d’Italia, «lavoro dipendente, donazioni, attività produttive e pensione di vecchiaia. Ormai, con l’incremento dell’età media delle religiose, è questa l’ultima risorsa principale. […] Le donazioni non sono calate, non ci sono proprio»), la mancanza di una vera cultura dei diritti del lavoro in ambito ecclesiastico («Nei rapporti delle suore con i loro datori di lavoro c’è stato un offuscamento di quello che io chiamo i confini», dice ad esempio Maryanne Loughry, suora della Misericordia, psicologa e ricercatrice australiana. «Nella Chiesa ci sono molte cose date per assodate: che noi siamo molto generosi, che usciamo dagli schemi se c’è da fare qualcosa di speciale. Non voglio rinunciare a questa caratteristica, ma penso che a volte venga sfruttata»); sia ad aspetti contingenti, come gli effetti della pandemia, che in certi casi ha colpito duramente le comunità («La responsabile di una comunità di una quarantina di suore, tutte anziane», ancora s. Claudia Grenga, «mi confidava di aver perduto quindici sorelle nel giro di poche settimane, durante la prima ondata. Per riuscire a pagare i funerali, ha dovuto chiedere aiuto fuori della comunità. Oltretutto, di colpo, la comunità si è ritrovata con quindici pensioni in meno») e ha pesantemente ostacolato, se non interrotto attività in qualche misura redditizie (fino a un certo punto: il più delle volte «il fatturato è così scarno che per poter sopravvivere le monache devono ricevere i pacchi della Caritas o accettare donazioni dai famigliari») come la vendita di prodotti e l’ospitalità (come osservato dal Segretariato assistenza monache, che dalla sua fondazione nel 1953 si adopera, data la loro «situazione particolarissima», per sostenere nei loro bisogni quotidiani le claustrali, «meno di 40 mila nel mondo, poco più del 6 per cento delle religiose»).

I medesimi articoli e interviste, comprensibilmente, danno spazio a diversi esempi di reazione a quella preoccupazione, all’insegna anzitutto dell’inscindibile connubio di fede, speranza e carità, ma anche della creatività e dell’intraprendenza, di cui quel trattore e quella gioia sono un po’ il simbolo: «Con audacia le religiose combinano il carisma che ha animato i fondatori e le fondatrici con la storia di oggi. Con molta determinazione affinano le strategie di marketing, intelligentemente usano i media e la tv». Si va così dalla messa a punto di campagne mirate di crowdfunding sulle piattaforme più note o su quelle specifiche, alla disponibilità a concedere alcuni spazi del proprio monastero per le riprese di un reality; dalla cooperazione per la vendita online dei prodotti dei propri laboratori, alla creazioni di reti di sostegno nazionali e internazionali che coinvolgano i laici; da un rinnovato impegno nel campo dell’educazione, alla gestione di vere e proprie strutture alberghiere; preghiere di intercessione, attività culturali, lavoro artigianale, confezione di abbigliamento religioso, realizzazioni di icone o immagini sacre, promozione sui social network, cd di musica religiosa e, sia detto con il massimo rispetto, tante, tantissime creme e saponette.

L’impressione che si ricava leggendo queste pagine è quella di un coro formato, certo, da voci diverse, ma percorso da un filo comune, da un’omogeneità di fondo nobile, concreta e di piena ispirazione evangelica: mettere in comune quello che si ha, vivere in pienezza la propria forma di vita, servire gli altri. Non dirò quindi che spiccano alcune voci, perché non è vero, mi limito a sottolineare la testimonianza di Nabila Saleh, suora del Santo Rosario, a capo della Rosary Sister’s School nella Striscia di Gaza; e quella di Rosa Lupoli, badessa delle Clarisse cappuccine di S. Maria in Gerusalemme a Napoli, le cosiddette Trentatré (oggi rimaste in otto). «Il caso delle Trentatré è ancora più specifico», scrive Antonella Cilento, che ha intervistato m. Lupoli, «poiché la povertà personale è condizione insindacabile della professione solenne. Le clarisse cappuccine entrano in clausura rinunziando davanti al notaio, ben due volte, a qualsiasi bene personale, eredità familiare e a ogni possibile eredità dovessero ricevere in futuro da terzi. L’origine clariana dell’ordine stabilisce un’autentica povertà: si deve vivere con la Provvidenza, giorno per giorno, quel che si riceve in dono gratuito. E basta.»

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  1. «Donne Chiesa Mondo» 104 (ottobre 2021): Consacrate. Lezioni di economia e di vita.
  2. L’immagine, che accompagnava la campagna di autofinanziamento delle monache francesi per la costruzione di una grangia (campagna coronata da pieno successo), merita di essere osservata nella sua interezza.

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