Il racconto della propria vocazione, da parte di monache e monaci contemporanei, è un genere a sé stante. Si tratta di solito di testi brevi, anche brevissimi, semplici, spogliati di ogni retorica e rivestiti di pudore, nei quali la vividezza del ricordo si unisce spesso alla difficoltà di scendere in quei particolari che una mentalità per così dire giornalistico-moderna vorrebbe conoscere: e ci dica, cosa è successo quando…?
Ne ho incontrati due, di recente. Il primo si trova nel discorso di auto-presentazione che Bernardus Peeters ha fatto al capitolo generale dei Cisterciensi della Stretta Osservanza, dopo esserne stato eletto Abate Generale: «Fratelli e sorelle, dopo l’elezione, molti di voi, ma soprattutto le comunità che non hanno potuto essere qui, mi hanno chiesto di raccontarvi qualcosa di più su di me. Capisco questa necessità e cercherò di dirvi qualcosa che vi permetterà di conoscere meglio il vostro Abate Generale»1.
Dopo un inizio molto precoce (chierichetto di sei anni che rimane colpito dalle parole Deus caritas est viste sul piviale di un sacerdote), il giovane Bernardus è orientato a diventare missionario, «finché con la mia classe non sono andato a visitare un’abbazia benedettina». Il sentimento provato si riassume in una frase: Questo è il tuo posto, «sapevo che era lì che Dio mi voleva» – Simple as that, si direbbe in inglese. Ma i benedettini non saranno la sua nuova famiglia: conoscendo la comunità, infatti, e parlando col maestro dei novizi, Bernardus sente che gli sarebbe mancato l’equilibro tra lavoro e preghiera: «Io volevo fare qualcosa con le mani». E così, dopo Dio, è un uomo che, se così si può dire, completa la vocazione: «Il maestro dei novizi mi disse: “Vai a vedere i trappisti, credo che facciano ancora lavori manuali”. Così ho fatto e ho scoperto la comunità di Tillburg [Brabante], dove sono entrato nel 1986». Degli undici novizi suoi «colleghi», è stato l’unico a rimanere, ha studiato, è diventato priore (nel 1997), ha diretto il birrificio, è stato eletto abate (nel 2005), e adesso è AG dei trappisti. Simple as that.
Il secondo racconto è un accenno ancor più breve, e l’ho trovato in un’intervista a Michael Casey, anche lui trappista, rilasciata lo scorso aprile, in occasione del Dottorato honoris causa ricevuto dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo2.
Dopo aver ribadito l’importanza di godere della semplicità («Sottolineo “godere”. Non basta vivere sobriamente. Occorre saper gustare e gioire di questa sobrietà»), d. Casey ricorda le parole di un turista che, dopo aver visitato la sua abbazia, gli disse: «Mi sembrate tutti felici della vostra vita essenziale. Si sente qualcosa nell’aria qui da voi». Così, alla domanda: Come si diventa monaci? d. Casey fa un balzo all’indietro: «Anche se sono passati tanti anni ricordo bene la mia vocazione». Vocazione che si coagulava intorno al desiderio di essere qualcosa, invece di fare qualcosa. «Poi una domenica con la mia famiglia facemmo una visita a un monastero [galeotta dunque fu dunque ancora una visita] e capii subito che lì c’era quel “qualcosa”. Non gli aspetti esteriori, le apparenze, ma quell’“aria” che dicevo prima [e che] può essere sentita anche da un non credente».
Confermo: vero; vago, ma vero.
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- Bernardus Peeters, Chi è il vostro nuovo Abate Generale?, in: «Vita Nostra» 23, a. XII (2022), n. 2, pp. 6-9.
- Roberto Cetera, Uomo della tradizione. Il monaco secondo padre Michael Casey, in: «L’Osservatore Romano», 20 aprile 2022.
(Questo è un video molto interessante, in francese, in cui due novizi benedettini si raccontano un po’, in vista della professione solenne presso l’abbazia di En-Calcat, ricordando anche il momento della loro vocazione. Qui il testo, sempre in francese.)