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Vai a vedere i trappisti (Due vocazioni)

Il racconto della propria vocazione, da parte di monache e monaci contemporanei, è un genere a sé stante. Si tratta di solito di testi brevi, anche brevissimi, semplici, spogliati di ogni retorica e rivestiti di pudore, nei quali la vividezza del ricordo si unisce spesso alla difficoltà di scendere in quei particolari che una mentalità per così dire giornalistico-moderna vorrebbe conoscere: e ci dica, cosa è successo quando…?

Ne ho incontrati due, di recente. Il primo si trova nel discorso di auto-presentazione che Bernardus Peeters ha fatto al capitolo generale dei Cisterciensi della Stretta Osservanza, dopo esserne stato eletto Abate Generale: «Fratelli e sorelle, dopo l’elezione, molti di voi, ma soprattutto le comunità che non hanno potuto essere qui, mi hanno chiesto di raccontarvi qualcosa di più su di me. Capisco questa necessità e cercherò di dirvi qualcosa che vi permetterà di conoscere meglio il vostro Abate Generale»1.

Dopo un inizio molto precoce (chierichetto di sei anni che rimane colpito dalle parole Deus caritas est viste sul piviale di un sacerdote), il giovane Bernardus è orientato a diventare missionario, «finché con la mia classe non sono andato a visitare un’abbazia benedettina». Il sentimento provato si riassume in una frase: Questo è il tuo posto, «sapevo che era lì che Dio mi voleva» – Simple as that, si direbbe in inglese. Ma i benedettini non saranno la sua nuova famiglia: conoscendo la comunità, infatti, e parlando col maestro dei novizi, Bernardus sente che gli sarebbe mancato l’equilibro tra lavoro e preghiera: «Io volevo fare qualcosa con le mani». E così, dopo Dio, è un uomo che, se così si può dire, completa la vocazione: «Il maestro dei novizi mi disse: “Vai a vedere i trappisti, credo che facciano ancora lavori manuali”. Così ho fatto e ho scoperto la comunità di Tillburg [Brabante], dove sono entrato nel 1986». Degli undici novizi suoi «colleghi», è stato l’unico a rimanere, ha studiato, è diventato priore (nel 1997), ha diretto il birrificio, è stato eletto abate (nel 2005), e adesso è AG dei trappisti. Simple as that.

Il secondo racconto è un accenno ancor più breve, e l’ho trovato in un’intervista a Michael Casey, anche lui trappista, rilasciata lo scorso aprile, in occasione del Dottorato honoris causa ricevuto dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo2.

Dopo aver ribadito l’importanza di godere della semplicità («Sottolineo “godere”. Non basta vivere sobriamente. Occorre saper gustare e gioire di questa sobrietà»), d. Casey ricorda le parole di un turista che, dopo aver visitato la sua abbazia, gli disse: «Mi sembrate tutti felici della vostra vita essenziale. Si sente qualcosa nell’aria qui da voi». Così, alla domanda: Come si diventa monaci? d. Casey fa un balzo all’indietro: «Anche se sono passati tanti anni ricordo bene la mia vocazione». Vocazione che si coagulava intorno al desiderio di essere qualcosa, invece di fare qualcosa. «Poi una domenica con la mia famiglia facemmo una visita a un monastero [galeotta dunque fu dunque ancora una visita] e capii subito che lì c’era quel “qualcosa”. Non gli aspetti esteriori, le apparenze, ma quell’“aria” che dicevo prima [e che] può essere sentita anche da un non credente».

Confermo: vero; vago, ma vero.

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  1. Bernardus Peeters, Chi è il vostro nuovo Abate Generale?, in: «Vita Nostra» 23, a. XII (2022), n. 2, pp. 6-9.
  2. Roberto Cetera, Uomo della tradizione. Il monaco secondo padre Michael Casey, in: «L’Osservatore Romano», 20 aprile 2022.

(Questo è un video molto interessante, in francese, in cui due novizi benedettini si raccontano un po’, in vista della professione solenne presso l’abbazia di En-Calcat, ricordando anche il momento della loro vocazione. Qui il testo, sempre in francese.)

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Le «tracce» di Charles Dumont (pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Le parole con le quali Charles Dumont rievoca la sua reazione alla «vocazione»1 sono preziose anche per chi vuole soltanto provare a capire – ammesso che capire si possa. La grazia della vocazione, per il monaco belga, pone fine a una fase di confusione, di vuoto continuamente riproposto al di sotto della molteplicità degli impulsi e delle occupazioni giovanili, e dà un senso a quel disinteresse per le scelte e le attività comuni che pure è fonte di sentimenti contrastanti: «Una tale mancanza di interesse per un’esistenza normale mi faceva sentire in colpa, mi accusavo come di una forma di pigrizia, di noncuranza, di fuga… Fin dall’infanzia avevo provato un sentimento religioso, ma in modo misterioso. Non mi riconoscevo nel mondo in cui dovevo entrare, in cui volevo entrare e persino avere successo, ottenere considerazione. Mi vergognavo del mio isolamento, del mio credermi diverso, speciale, unico».

La risposta alla vocazione è anche l’inizio di un viaggio di ritorno, come dopo aver doppiato una boa, e come ogni ritorno è fatto di attesa, di pazienza in vista della meta, di pieni e di vuoti; e la narrazione frammentaria di quel viaggio è l’occasione per ripercorrerlo, per recuperare i ricordi («i piccoli ciottoli bianchi sparsi nella Storia con la “S” maiuscola») che testimoniano l’opera di Dio su di lui, le tracce di un’esperienza metafisica senza date, i rapporti che si sono stabiliti nella coscienza tra cielo e terra. Lo sguardo retrospettivo, conciliato, remissivo, debole, consente di intravedere una parvenza di unità, nel segno dell’intelligenza e dell’amore di Dio: «La fede ci permette talvolta di cogliere nella sequenza di luci e ombre il disegno di una volontà intelligente, di una mano che ci tiene per mano». Questi momenti «di grazia» restano tuttavia «inverificabili», se non mercè la certezza di una Presenza, e di un Amore personale, che vuole la nostra felicità.

Questa parola, «inverificabili», è stata per me come una spia luminosa che si acccende: quei momenti possono essere «di grazia» solo all’interno di una dimensione che li precede, la fede; è la fede che li rende possibili («La fede», commenta infatti Dumont, «conferisce a questi ricordi il loro posto nel susseguirsi delle fasi della mia esistenza») e riconoscibili come tali. Al di fuori di essa il caso è altrettanto «credibile»: il caso, l’intreccio delle volontà, i condizionamenti, le inclinazioni innate, gli errori, le intuizioni, il sovrapporsi confuso di tutto, non il disegno. Da questa parte di una linea per me invalicabile seguo allora il racconto del vecchio monaco, non mi chiedo se il luogo nel quale – lui come ogni credente – si è inoltrato esista o no e ne ascolto la testimonianza, i cui accenti conclusivi sono molto belli e meritano una citazione estesa:

«Eccomi, Signore, davanti a te, a ricordare i miei primi anni mentre sono sono arrivato agli ultimi, quasi al mio ultimo respiro. Come posso rivolgermi a te, che conosci la mia vita, che conosci il mio cuore? Come, soprattutto, ascoltarti, se nel rumore dei ricordi cerco la tua presenza in me ieri, oggi, proprio in questo momento in cui scrivo? Perché era il tuo silenzio che teneva uniti i miei giorni e le mie notti, e come potrò udirlo nel fragore della cascata del tempo? La sua irreversibilità non mi tormenta più da quando so che il tempo di una vita è la chiamata, al di là di ogni linguaggio, ad andare verso di te, anche al di là di ciò che separa parola e silenzio. Una chiamata irreversibile perché incomprensibile, e di una bellezza commovente: la vita di un uomo».

Molte altre spie si sono accese (il corsivo è mio), e mi pare di cogliere soprattutto un’immensa, umanissima, sconfinata speranza lanciata nel vuoto silenzioso, ma, non posso evitare di dirlo, non vedo mistero, anche se – come dice il cardinale Angelo Scola – «il mistero è sempre vicino, è a meno di un millimetro persino dal cuore dell’ateo più ostinato».

(2-fine)

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  1. Come si possono leggere in Marie-Benoît Bernard, Charles Dumont. La grâce d’être vaincu, in «Collectanea Cisterciensia» 77 (2015), pp. 273-293.

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Le «tracce» di Charles Dumont (pt.1/2)

Mentre leggevo il suo saggio su Bernardo di Chiaravalle, cercavo notizie su Charles Dumont, e ho trovato un articolo che una monaca, trappista come lui, gli ha dedicato nel 2015, sei anni dopo la morte, e che sin dalle prime righe mostra di essere ben più che un semplice ricordo (ricordo che, peraltro, era stato pubblicato in precedenza, ma non ho potuto leggere). Quello di Marie-Benoît Bernard, Charles Dumont. La grazia di essere vinti1, è un testo singolare cui mi sono avvicinato con particolare cautela, sia perché scende a un non comune livello di intimità spirituale con il soggetto trattato, sia soprattutto perché il suo argomento fondamentale è, in fondo, quello della vocazione. Non della vocazione in generale, bensì di una vocazione precisa, quella appunto di Charles Dumont.

Il motivo di questa singolarità risiede nel fatto che l’articolo è basato sulla lettura che sr. Marie-Benoît Bernard ha potuto fare di un manoscritto inedito di Dumont, Traces d’une conscience en deux mondes, cominciato, se ho capito bene nel 1998, dal monaco studioso ottantenne, già malato e già confinato nell’infermeria dell’abbazia belga di Scourmont, dove sarebbe morto nel 2009, dopo 68 anni di vita monastica2.

Queste Tracce, lungamente meditate, sono lo sguardo di un uomo, di un «vecchio monaco» sul viaggio della sua vita («un viaggio nel paese di se stesso», lo definisce sr. Marie-Benoît), frammenti recuperati dalla memoria e punteggiati da citazioni degli autori più letti e meditati: filosofi e poeti, tanti poeti (Dumont stesso era anche poeta), a cominciare da Rilke, a un verso del quale si ispira il titolo dell’articolo: «Esser fino in fondo / da una forza sempre più grande vinto»3. Un viaggio che ha un suo momento cruciale proprio in un viaggio, quello che Dumont compie in treno per raggiungere Scourmont l’11 giugno del 1941 ed entrarvi come postulante: il Belgio è occupato dai nazisti, il giovane Charles ha fatto il servizio militare, è stato mobilitato, ha combattuto e ha passato un mese in un campo di prigionia; orfano inconsolabile della madre, si è ribellato all’autorità del padre, che lo vorrebbe con sé nella sua sartoria di Bruxelles, e sta andando a Scourmont, la cui comunità è dimezzata dagli obblighi militari (43 monaci su 84 sono mobilitati) e dove lo attendono il maestro dei novizi Albert Derzelle e l’abate Anselme Le Bail.

Dumont ricorda nitidamente quel momento, quando ha fatto l’«esperienza, unica nella mia vita, di un momento di assoluta libertà. E ho capito che paradossalmente era legata all’esperienza altrettanto chiara di non poter fare diversamente. Sono sicuro di aver vissuto allora la verità che san Bernardo ha così esattamente delineato in risposta all’insolubile problema della grazia e della libertà. Ho capito in quell’istante che tutto è grazia e tutto è libertà; che senza grazia non c’è vera libertà e che la grazia non può che unirsi a una libertà. […] Quell’atto privilegiato di libero consenso alla voce interiore ha deciso la mia vita». Indipendentemente da quello che si crede, o non si crede, si percepisce qui un’intensità che non può essere trascurata.

La meditazione sulla vocazione si approfondisce, e il «consenso», l’«acconsentire», si delinea come termine chiave del suo manifestarsi, limpido anche se non privo di durezze: «Talvolta», ricorda Dumont, «mi sembrava che un’altra coscienza fosse unita alla mia, più libera e che al tempo stesso trasferisse alla mia la sua libertà. Una coscienza che amava la mia. Essa mi riprendeva, mi staccava dolcemente o bruscamente da ciò da cui la mia debole libertà si lasciava asservire.»

Dopo tante esitazioni, slanci e rifiuti – «Spesso nella mia vita mi sono visto come sotto scacco: la scuola, la salute, il rapporto con mio padre, la perdita di mia madre, il mestiere e il commercio per i quali non sentivo alcuna attrattiva, la vaghezza adolescenziale, da romantico atttardato, e poi la durezza della vita militare e anche la mia vocazione monastica: questa continua indecisione, per paura di sbagliare, di ingannare la comunità, di ingannare persino Dio» – un accordo di volontà finalmente raggiunto, che rappresenta l’inizio di un nuovo viaggio di progressivo abbandono e spogliazione, di trasformazione e maturazione, di abbandono e resa, nella confortante certezza di essere, appunto, «fino in fondo da una forza sempre più grande vinto».

È il passaggio dall’esitazione alla certezza che trovo sommamente interessante e che suscita in me, non posso nasconderlo, un disagio non tanto sottile. Che cosa è successo? È in quel passaggio che «avviene» la grazia? È una di quelle esperienze che chi non ha fatto non potrà mai capire? Esistono, dunque, tali esperienze? O è quella l’esperienza incomunicabile per antonomasia? (La seconda parte non sarà facile.)

(1-segue)

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  1. Marie-Benoît Bernard, Charles Dumont. La grâce d’être vaincu, in «Collectanea Cisterciensia» 77 (2015), pp. 273-293. Sr. Marie-Benoît è monaca presso l’abbazia francese di Sainte-Marie du Rivet, non lontana da Bordeaux, dove è entrata nel 1999 e dove, dal 2008, è maestra delle novizie.
  2. Va notato che sr. Marie-Benoît ha potuto anche parlare direttamente con Dumont quando costui l’ha accompagnata, nel 2006, nel suo ritiro in preparazione dei voti solenni.
  3. Rainer Maria Rilke, Der Schauende («Colui che contempla»), in Il libro delle immagini, II, 2. L’ultima strofa, in cui Rilke fa riferimento all’Angelo che appare ai patriarchi della Bibbia, recita: «Chi da quest’angelo fu sopraffatto / che così spesso rinunzia alla lotta, / è lui che esce a testa alta e grande / da quella dura mano che, come per plasmarlo, / al suo corpo aderiva. / E le vittorie non lo tentano. / Crescere è per lui: esser fino in fondo / da una forza sempre più grande vinto» (Poesie I, 1895-1908, a cura di G. Baioni, Einaudi 1994; traduzione di G. Cacciapaglia).

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Realismo, speranza e positivo umorismo (Parola di badessa, pt. 2)

(la prima parte è qui)

Definito il quadro di riferimento, la badessa Rosaria Spreafico si addentra nell’illustrazione di quattro aspetti decisivi di quello che lei definisce il «nostro servizio di autorità». Non va dimenticato, infatti, che sta parlando a futuri superiori di comunità monastiche, ma, per quanto possano sembrare dedicate a un tema singolarmente specifico, le sue riflessioni sono molto interessanti, se si pensa ad esempio alla difficoltà di parlare di autorità nei rapporti interpersonali, al di fuori di situazioni molto codificate o di esplicito, se non addirittura odioso, esercizio del potere.

Questi quattro aspetti sono l’accompagnamento, l’obbedienza, il discernimento comunitario e la riconciliazione fraterna. Sono termini tecnici, per così dire, e tuttavia se si considera il discorso della badessa da una certa distanza non è impossibile leggerlo anche in relazione a una comunità laica. L’accompagnamento, che m. Spreafico considera sulla scorta di Benedetto il compito più difficile e arduo di un superiore, e al tempo stesso il primo, fa emergere la delicatezza di un concetto come quello di «guida»: come e perché si guida un’altra persona? Cosa si mette in gioco in questo tipo di relazione? Quali ne sono i rischi? Per la badessa «guidare vuol dire anzitutto avere a che fare con la libertà dell’altro» e con la consapevolezza di una base comune di imperfezione, là dove la pratica della correzione, implicita nella guida, può e deve essere prima di tutto correzione di se stessi; e i rischi dai quali bisogna guardarsi sono principlamente l’uguaglianza a tutti i costi1 e l’autoritarismo.

L’obbedienza è un concetto altrettanto scivoloso, e lo dimostrano le parole della badessa, tese a definire il cambiamento intervenuto: «Un tempo l’obbedienza era intesa come la fedele e puntuale esecuzione del comando e della volontà dell’Abate, e se da un lato questa concezione era il riflesso di una spiritualità che ha generato degli autentici santi, d’altro lato l’obbedienza poteva anche rimanere qualcosa di formale, quando non addirittura fonte di incomprensione o frustrazione. Oggi invece si cerca un’obbedienza più autentica e profonda». M. Spreafico parla di passaggio dall’obbedienza esecutiva all’obbedienza filiale, ma al di là della terminologia è interessante vedere come il concetto possa essere recuperato anche in ambito non religioso2. Nella ricerca di una forma di purezza dell’obbedienza, la badessa identifica dei «nemici», e per quanto in disaccordo rileggo le sue parole: «Questa è la mèta [l’obbedienza come fede e fiducia], raramente raggiunta in tutta la sua purezza, ma è importante intravederla e perseguirla. E additarla a noi stessi e ai nostri monaci… E combattere insieme contro tutte le sue contraffazioni: le false immagini di libertà come assenza di legami, autonomia di giudizio e tutte quelle posizioni egocentriche a volte così difficili da sradicare, specialmente in noi donne, o le altre forme di individualismo un po’ miope, tipico degli uomini». E in effetti, tralasciando per un momento l’ossessione negativa per l’«autonomia di giudizio», perché non riconoscere quanto può essere bello eseguire una disposizione data da una persona di cui si ha piena stima e fiducia?

Allo stesso modo il discernimento comunitario va a toccare quelle aree, ancora: assai delicate, dove si forma il consenso, dove prende corpo una visione collettiva, dove si condivide un indirizzo comune. La dimensione quantitativa, qui come altrove, determina dei mutamenti qualitativi, e non è immediatamente pensabile che certe decisioni possano essere prese nelle stesse forme in cui una comunità monastica ad esempio decide un aggiornamento della propria consuetudine liturgica. Nondimeno, perché non riconoscere una certa – vuota e forse un po’ stupida – nostalgia per tali o simili forme? Per non parlare, infine, della riconciliazione fraterna, di fronte alla quale non comincio nemmeno vacui tentativi di «esportazione» e lascio che siano i confratelli e le consorelle «a fare la pace prima del tramonto con chi si è avuta la lite», come insegna il padre Benedetto. E lascio l’ultima parola, non metaforica, alla badessa trappista: «Ormai non basta più il capitolo delle accuse, e sulle spalle dell’Abate grava la responsabilità di quest’opera lenta e costante [la ricerca di perdono e riconciliazione], che richiede una presenza attenta e discreta a tutto ciò che accade nella comunità. Richiede molto realismo e speranza, e spesso anche una buona dose di positivo umorismo»3.

(2-fine)

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  1. Rosaria Spreafico, Paternità filiale: alcuni aspetti del servizio di autorità, in «Vita Nostra» IX (2019), 1, pp. 15-25: «Il primo [rischio] è non fare il padre ma il fratello, mettendosi alla pari, ascoltando molto… non esigendo mai nulla… senza imporsi mai… Più si avanza su questa via, più il monastero diviene o un covo di individualisti, di moderni sarabaiti, che mascherano sotto una falsa tolleranza il menefreghismo e l’egoismo, oppure la comunità diviene un covo di vipere che si sbranano l’una con l’altra».
  2. Volendo poi evidenziare, con cautela, un tema ricorrente delle mie note di questi anni, dirò che mi interessa, mi preme, capire se e come sia possibile non lasciare il monopolio di certi concetti di certe idee al pensiero di ispirazione religiosa.
  3. E chi non vorrebbe una badessa o un abate realista, fiducioso nel futuro e spiritoso…?

 

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Annebbiati e confusi (Parola di badessa, pt. 1)

La badessa del monastero trappista di Vitorchiano, m. Rosaria Spreafico, ha tenuto più o meno un anno fa, nell’ambito del Corso per i Superiori dell’Ordine cisterciense, una conferenza sul tema della «Paternità filiale: alcuni aspetti del servizio di autorità». Ho potuto leggere il testo perché è stato pubblicato sul numero più recente di «Vita Nostra», la benemerita pubblicazione semestrale dell’Associazione «Nuova Citeaux», e se in un primo momento può sembrare molto specifico e «interno» e difficile da apprezzare, per chi osserva le cose monastiche dall’esterno, a una lettura lenta offre molti spunti non trascurabili. A cominciare dal contesto nel quale m. Spreafico inserisce le sue riflessioni e che ci mostra quale sia la visione del mondo di una badessa trappista: per taluni potrà essere cosa irrilevante, per me, proprio perché non la condivido, è invece assai interessante.

Secondo m. Spreafico il clima sociale e culturale odierno è caratterizzato da «frantumazione del tessuto familiare e sociale, assenza di legami generativi, clima di violenza e insicurezza, ecc.» (quanto è significativo quell’eccetera, indice di un quadro che viene dato per scontato da chi ascolta…) e «gli uomini che abitano questo nostro mondo… sono annebbiati e confusi», soprattutto perché hanno perso il contatto con le «categorie elementari dell’umano», la più centrale delle quali è l’«essere generati». Contro questa dimensione si sarebbe accanita «la grande e disastrosa tempesta che ha investito le nostre società nel corso dell’ultimo secolo», e contro la sua più sacra rappresentante, la Chiesa: «L’accanimento prima occulto e ora dichiarato contro di essa sta alla radice dell’attuale disfacimento dell’Occidente». (Mi permetto qui di osservare due cose. Anzitutto che è difficile vedere in quella «tempesta», che pur con tutte le possibili riserve potremmo forse meglio chiamare «movimento di emancipazione dell’umanità», una forza nata e sviluppatasi con l’obiettivo primario di distruggere proprio la Chiesa (cattolica), in quanto tale; inoltre che la dimensione «Occidente» mi pare oggi, per così dire, irrimediabilmente problematica.)

Osservando questa desolazione dal suo chiostro (di cui, va riconosciuto pienamente, non si nasconde problemi e rischi e difficoltà), e accogliendo chi si presenta alla porta della sua comunità, la badessa si chiede dove trovare una base solida sulla quale fondare la propria azione e se la Regola di san Benedetto possa ancora essere questa base: «Il suo carisma è in grado di parlare la lingua degli uomini di oggi? E parla a noi, Abati e Badesse del XXI secolo?» La risposta, naturalmente, è sì, se si considera in particolare come a tutto il mirabile codice benedettino sia sotteso un senso profondo di relazione tra gli individui: «Cos’è che non passa nei rapporti di autorità, nei rapporti tra padri e figli, tra abati e monaci, cosa c’è di indistruttibile nell’essere umano, che nemmeno la forza disgregante del nichilismo può eliminare? Risponderei semplicemente: noi… La nostra vera identità è relazionale».

Qui per il momento non osservo nulla. Da un lato perché questo pensiero è così solidamente attestato, anche in epoca precristiana, da risultare, se così si può dire, patrimonio mondiale dell’umanità e non solo monastico; dall’altro perché non sono capace di sottrarlo all’esclusiva cristiana cui lo assegna la badessa. Principio della relazione, dice infatti m. Spreafico, è la generazione, che è, come si ricordava sopra, «la categoria centrale dell’identità umana». La prova, ciò che ci «rendi sicuri» di questo, è il Cristo: «Il fondamento è la fede in lui, l’uomo vero e riuscito, colui che è venuto nel mondo per rivelare l’uomo all’uomo». Molto interessante, come dicevo, proprio perché non lo condivido.

(1-continua)

 

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È già successo, o: Del rilavare l’uvetta

Nel 1974 Henri Nouwen, sacerdote e teologo di origine olandese, attivo ormai da un decennio negli Stati Uniti, decide di trascorrere un ritiro di alcuni mesi presso l’abbazia trappista di Genesee, nel nord dello Stato di New York. Sente di aver bisogno di una pausa per riflettere sulla propria attività di insegnante, di conferenziere, di scrittore (ha già pubblicato una delle sue opere che diventeranno più famose), ed è attratto da Genesee, filiazione dell’abbazia di Gethsemani, nel Kentucky, in particolare dalla presenza dell’abate John Eudes Bamberger, che era a sua volta entrato proprio a Gethsemani nel 1951, attratto dagli scritti di Thomas Merton. Durante i sette mesi di ritiro Nouwen tiene un diario, che due anni dopo diventerà il famoso «Rapporto da un monastero trappista», un testo che da allora non ha smesso di essere letto (e che io ho scoperto soltanto adesso)1.

All’inizio Nouwen ha molte difficoltà ad adattarsi ai ritmi della vita trappista: a Genesee, tra l’altro, si lavora duro per completare gli edifici monastici, la chiesa prima di tutti, e al forno, dove si produce un «Pane dei monaci» in diverse varianti, tra le quali la più famosa è quella con l’uvetta, la cui vendita nei dintorni assicura il sostentamento della comunità2. Intellettuale e, come si diceva un tempo, uomo di penna, Nouwen si affanna, si stanca, qualche volta si fa male e qualche volta combina dei pasticci, come quello accaduto venerdì 2 agosto.

«Questa mattina, toccandole col piede, ho rovesciato un grosso mucchio di casse d’uvetta lavata di fresco. È stato un disastro, che però non ha sconvolto nessuno. “È già successo”, ha detto fra’ Theodore. Poi ha rimesso in moto la macchina e ha rilavato l’uvetta.»3

È già successo.

Mi sono fermato su questa battuta, apparentemente innocua, per un lunghissimo momento.

Perché a un primo passaggio c’è tutto il pragmatismo trappista, di chi lavora e deve consegnare la quantità concordata di confezioni di pane. E c’è anche il pragmatismo monastico in generale, per lo meno di certi periodi storici, pragmatismo che trascolora nella consapevolezza quieta di una tradizione millenaria: Riesci a immaginare quante volte è accaduto che le casse si rovesciassero, che il vaso si rompesse, che un confratello sia inciampato? E così il banale incidente trascolora ancora: Quante volte abbiamo sbagliato, in questi millecinquecento anni? E cosa pensi che abbiamo fatto? Abbiamo rilavato l’uvetta, facendo attenzione a non inciampare di nuovo, possibilmente. E ancora, nessuno si è sconvolto: Credi di essere il primo a rovesciare l’uvetta? Ti pare credibile che non sia mai accaduto prima? Coraggio, benvenuto nella comunità! E ancora, è il confratello che rimedia, senza tante storie: Ci penso io, non ti preoccupare.

A distanza di oltre quarant’anni si sente ancora, chiarissima, l’eco di consolazione presente in quell’«È già successo». Sembra proprio un piccolo «fatto» dei Padri del Deserto, dal quale estrarre innumerevoli insegnamenti. Ma non solo.

Perché se lo ripasso dal mio punto di vista di non credente (per intenderci) ecco spuntare un sapore acido che si scontra con la credenza profondamente cristiana, e che lo stesso Nouwen sviluppa nelle pagine del suo diario, dell’unicità di ogni esistenza umana, di ogni anima. È un pensiero assai più grande di un singolo individuo e quindi vi faccio soltanto un piccolo, modesto accenno: è già successo, tutto è già successo, compresa la mia replica di quest’oggi, cui sono tuttavia attaccato con alterno umore e cui non posso che dar corpo come se fosse una prima assoluta mondiale, pur sapendo che non lo è.

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  1. Henri Nouwen, The Genesee Diary. Report from a Trappist Monastery (1976), trad. ital., di A. Tavianini Palieri, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Queriniana 201616.
  2. L’attività, mai interrotta, ha assunto successivamente una dimensione pressoché industriale.
  3. L’episodio si legge a pag. 98. Tre giorni dopo, lunedì 5, è già abbondantemente superato: «Questa mattina ho unto migliaia di teglie di pane. Non è andata male; un lavoro che disturba ma non troppo».

 

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Stretta osservanza: Onfray alla Trappa (pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Il secondo capitolo del reportage di Onfray1 è dedicato al tema della comunità e svolge un’interessante genealogia, «non illegittima», che da Epicuro conduce a Rancé, via san Benedetto. Sulla scorta di un’osservazione di Chateaubriand, Onfray accomuna il «giardino» di Epicuro, «diffamato e calunniato» lungo la tarda antichità, l’alto e il basso Medioevo e oltre, alla trappa di Rancé (all’ideale monastico in generale) sotto il concetto di «arte di vivere le proprie idee fino al più minuto particolare». Come i monaci, infatti, gli epicurei praticano la frugalità, la continenza e una forma di ascesi che contempla soltanto i bisogni essenziali; rifuggono dalla proprietà privata, dagli onori, dal potere; considerano la filosofia come una pratica quotidiana comunitaria. E ancora, come i monaci, Epicuro considera il pensiero un esercizio di salvezza; indica una piccola comunità quale modello di azione; concentra la «vita filosofica» in un luogo preciso, dove ammette chiunque senza distinzione; stabilisce una regola di condotta, che prevede tra l’altro di essere vegetariani, astemi e casti. «Il Giardino», commenta Onfray, «è un embrione del monastero, cui manca la dimensione trascendentale.»

A Epicuro si possono poi affiancare, tra gli altri, Plutarco, Seneca, Cicerone, Marco Aurelio, in una lunga scia di pragmatismo esistenziale in cui san Benedetto si inserisce senza difficoltà. La saggezza antica, che sceglie l’essere e non l’avere, che si preoccupa della «costruzione di sé», che rifugge dalle passioni a vantaggio della tensione dell’anima, che si allontana dalla folla e dalla vanità delle troppe parole, attraversa i secoli e viene trasportata dai monaci «nella nostra modernità».

Quella «dimensione trascendentale» non mi pare tuttavia un semplice dettaglio di storia delle idee. O meglio, può senz’altro essere coniderato tale, a patto di attenuarne la portata, al pari di qualsiasi altro concetto che faccia la sua comparsa sulla scena del pensiero. In questo senso ciò che più mi ha colpito dell’esposizione di Onfray sono le due frasi che racchiudono la ricostruzione genealogica di cui si è detto.

Il capitolo si apre infatti con un’osservazione perentoria che mi pare contenere la sua stessa debolezza. Dice il filosofo francese che «nel monastero si vive da soli anche se ci si trova in gruppo. La vita del cenobita è falsamente comunitaria: è una somma di solitudini che si uniscono per realizzare una più grande solitudine che solo la presenza di Dio colma e turba al tempo stesso. Ma che accade se non si crede a quella presenza? Non rimane che la pura solitudine». Indubbiamente, ma è quel «ma» che non regge, poiché non è proficuo ipotizzare ciò che non si dà, o che si dà soltanto nelle crisi individuali più tormentose. In quel «ma» mi pare di cogliere proprio l’atteggiamento che, in quanto osservatore esterno, credo di dover mettere da parte per avere un’idea di ciò che sto osservando che non derivi dai miei preconcetti.

In chiusura Onfray ritorna sul tema della grande solitudine, traendone una conseguenza che non so quanti monaci potrebbero condividere. «Soli, ma in tanti», afferma il filosofo, «i monaci della Trappa non hanno che Dio come reale e unica compagnia. Per loro il mondo è una finzione, la realtà è una finzione, l’altro è una finzione, ciascuno di essi è una finzione, poiché solo Dio è reale.» Per me è esattamente l’opposto! esclama Onfray: soltanto Dio è una finzione, mentre tutto il resto è reale2.

Messa così, la chiusura – poiché di chiusura a questo punto si tratta – non può che essere una frase a effetto, un po’ scivolosa: «I monaci vivono in un mondo in cui il centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte: un mondo chiuso lanciato come un missile nell’universo sconfinato»3. I monaci?

(2-fine)

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  1. Michel Onfray, La Stricte observance: avec Rancé à la Trappe, Gallimard 2018.
  2. «Ora, io penso esattamente il contario: il mondo è reale, la realtà è reale, l’altro è reale, ciascuno di noi è reale, poiché solo Dio è una finzione», p. 40.
  3. Ecco la chiusa del capitolo nella sua forma estesa: «Nel mio piccolo letto nel quale fatico a prendere sonno, letto d’ospedale e di collegio, letto di caserma e di solitudine, ho capito che questa comunità ha svuotato il mondo del mondo, e lo ha riempito di un mondo in cui l’unica presenza è un’assenza; o l’unica presenza di un’assenza – che è la definizione esatta della morte. I monaci vivono in un mondo in cui il centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte: un mondo chiuso lanciato come un missile nell’universo sconfinato», p. 40.

 

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Stretta osservanza: Onfray alla Trappa (pt. 1/2)

È difficile immaginare un gesto intellettuale più acrobatico: un filosofo ateo, francese, si avvicina alla figura del riformatore, francese, di un ordine monastico, orientandosi con la biografia che uno scrittore cattolico, francese, gli ha dedicato e leggendola durante un soggiorno presso l’abbazia che di quella riforma fu all’origine. Sto parlando di Michel Onfray, l’autore tra i molti altri titoli del Trattato di ateologia, che si ritira qualche giorno a Notre-Dame de la Trappe, a Soligny, per mettere a fuoco la figura dell’abate Rancé, il padre della riforma trappista, prendendo le mosse dalla Vita che ne ha scritto Chateaubriand. Il ritiro ha avuto luogo circa un anno fa ed è stato documentato da una serie di sette articoli, pubblicati nel corso della settimana a cavallo del Natale 2017 sul sito del settimanale «Le Point» (dove si possono ancora leggere), e ora confluiti nei sette capitoli di La Stricte observance: avec Rancé à la Trappe1.

Prima di biasimare l’impulso dell’outsider che si affida al proprio collaudato spirito di osservazione per scolpire impressioni sin dal primo risveglio – «Il monastero è una terra senza terra, un cielo senz’aria, una geografia senza frontiere», già alla seconda pagina –, va ricordato che l’interesse di Onfray per le cose monastiche non è episodico. Al di là, infatti, dell’obiettivo principale del ritiro2, il filosofo è andato alla Trappa per toccare con mano «l’esperienza bimillenaria di una vita filosofica», di una vita sostenuta dalla trascendenza, di una vita troppo dura per essere compatibile con la menzogna: non è alla ricerca di un’illuminazione, vuole bensì capire «perché, quando avevo vent’anni, mi ero appassionato alla vita monastica, rammaricandomi al tempo stesso di non poterla seguire per un motivo determinante: la mancanza di fede…». E Onfray prosegue con una precisazione in cui mi riconosco: «Quello che allora mi piaceva della vita dei monaci era l’incandescenza, la quotidianità ispirata interamente a un ideale, la pratica esistenziale della propria credenza, il legame profondo tra teoria e pratica, l’incarnazione delle proprie idee nell’effettivo svolgersi della vita». Non è forse questo ciò di cui provo maggiore nostalgia: potersi comportare coerentemente con le proprie convinzioni sempre? Non è forse il monastero proprio questo: una macchina concepita e realizzata per agevolare la messa in pratica di tale proposito? E se i monaci, che in fondo mi limito a osservare da lontano, sono il simbolo di questa possibilità di assoluta coerenza, dall’altro non mi nascondo l’ipocrisia, mia, di quella conveniente nostalgia.

Il primo capitolo, intitolato «La clausura. Contro l’erranza», è quello in cui si concentrano le osservazioni di Onfray sul luogo in cui si trova e sulle persone che lo popolano (e che, in sostanza, vi scompaiono), e devo ammettere che, seppur dopo un iniziale, lieve fastidio, non posso non riconoscermi3, come già dicevo sopra, in questo individuo che, proclamando il suo ateismo, si sveglia alle quattro del mattino e ascolta il silenzio; che circa un quarto d’ora dopo si ritrova in chiesa per assistere alle Vigilie e ascolta il canto dei monaci4; che si sente catapultato non in un gruppo di bizzarri suoi contemporanei, bensì in mezzo ai padri del deserto; che attraversa i corridoi cercando di fare meno rumore possibile e si ferma davanti alla «clausura», «questa frontiera che non può essere scavalcata se non da anime che sono passate già dall’altra parte del mondo»; che per una manciata di ore si mescola volentieri a questa piccola schiera di «spettri».

«La clausura è un rimedio contro l’erranza», conclude Onfray, cominciando la sua prima giornata alla Trappa, «e noi per la maggior parte del tempo non facciamo che errare», con ogni probabilità in entrambi i sensi.

(1-segue)

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  1. Michel Onfray, La Stricte observance: avec Rancé à la Trappe, Gallimard 2018.
  2. Onfray sta lavorando a un progetto dedicato alla storia della Normandia e ai personaggi che in diverse forme ne hanno incarnato lo spirito. «Sono venuto qui per leggere in situ la Vita di Rancé di Chateaubriand. La durata del mio soggiorno dipenderà dal tempo che impiegherò a leggere questa, ultima opera dell’autore delle Memorie d’oltretomba» (p. 17).
  3. Ahimè, anche in una sua certa enfaticità.
  4. «Un canto si leva dal silenzio appena turbato dal rumore del sangue che frigge nelle nostre orecchie e che lascia immaginare un mare che non c’è. È vecchio di mille anni, semplice come la voce di una madre che sussurra qualcosa al figlio per svegliarlo. Una linea spoglia e pulita, voci fluide e chiare. Una conversazione secolare che non si è mai interrotta» (p. 23).

 

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«Sono ancora qua!»

Uno degli aspetti più interessanti della letteratura monastica, che al momento – è bene non dimenticarlo – è l’unica parte del «fenomeno monachesimo» che frequento con costanza, è la riflessione che i monaci e le monache conducono incessantemente sulla propria condizione. È bene che non dimentichi, infatti, che, oltre alla letteratura, ci sono i luoghi, dei quali ho una conoscenza limitatissima, e soprattutto le comunità, le quali sono quasi sempre impegnate principalmente a essere (e a fare), prima ancora che a scrivere, e di queste non ho la minima conoscenza (né d’altra parte credo sia possibile averne una profonda senza farne parte).

Il fiume di consapevolezza e autovalutazione, tuttavia, è scaturito alle origini stesse del monachesimo, ne è parte integrante, e non stupisce se si pensa che, al di là dell’attuale omonimia, essere monaci non è una professione che si esercita, bensì un modo di esistere (forse qualcosa di ancor più preciso) che va continuamente verificato, sia sul «manuale di riferimento», cioè la Regola (anzi, le Regole), sia nel proprio intimo, attraverso il diuturno esame di coscienza, sia forse – ma qui sono troppo fuori dalla mia «casa» – di fronte a Colui che ha chiamato il monaco a sé.

Questo, per lo meno, è quanto ricavo dagli scritti contemporanei. Di certo sono esistiti dei religiosi, nei secoli, che, una volta pronunciati i voti ed emessa la professione solenne, hanno ritenuto di essere diventati ufficialmente monaci, una volta per sempre, ma se ripenso a quel poco di testimonianze e documenti che ho letto, mi pare che i monaci e le monache di oggi, quelli e quelle appunto che scrivono, siano abitati da una tensione affatto moderna di continua «messa in discussione» della propria condizione e della propria forma di vita.

E se spesso tale riflessione è di carattere generale, e tende a rispondere a domande come «Cosa significa essere monaci, oggi?», «Quale il ruolo dei monaci nel mondo contemporaneo?», ecc., il discorso, per così dire, finisce quasi sempre per essere accesamente personale, la vera domanda essendo: «Che monaco, che monaca sono, io?» Come dice, tra i molti esempi, e per lasciarle finalmente la parola, una delle grandi monache trappiste del XX (e XXI) secolo, già badessa di Vitorchiano, m. Cristiana Piccardo: «Io desidero parlare molto semplicemente della mia esperienza, poiché non ho gli strumenti per un’esposizione culturale». Formula nella quale risuonano secoli di umiltà monastica e di necessità di ricominciare sempre tutto daccapo1.

Nel suo testo rivolto a consorelle e confratelli, dopo una breve introduzione, m. Piccardo rievoca alcuni tratti della sua professione che sono di estremo interesse. Entrata alla trappa di Vitorchiano nel 1958, m. Piccardo ritiene che la sua generazione «fosse tutta un po’ socialista alla fine di una dittatura fascista e percepiva come un’esperienza di grande libertà incontrare gente che affermava liberamente la sua scelta di vita senza condizionamenti esterni di nessun tipo». Il cruciale paradosso della trappa – la libertà della rigida obbedienza – è vissuto sulla propria carne, tanto che la sua speranza era quella di «vincere la mia propria esasperata autonomia con una vita sigillata dalla continua obbedienza». Altri richiami sono rappresentati dalla liturgia e dall’indipendenza lavorativa. La novizia di allora si sente accettata nonostante se stessa, e questo la riempie di stupore e gratitudine e la avvia sulla strada dell’annullamento di sé, o meglio dell’io che si era costruita prima: «Ricordo che il primo lavoro che mi chiesero fu quello di mettere letame naturale su una coltivazione di carciofi e poiché le piante erano piccole era necessario metterlo con le mani. Io venivo da un ufficio editoriale di giornali e riviste e il contatto brutale con la terra e gli escrementi della stalla mi provocò delle risate tremende e molto poco “monastiche” a causa dell’immediata e concreta visione della mia persona al di là delle “etichette editoriali” del passato». L’immediata e concreta visione della mia persona: quante volte ho sentito dire dai monaci che la prima cosa che si trova entrati in monastero è se stessi, e spesso non senza contraccolpi. Qui diventa fondamentale l’accompagnamento, la possibilità di incontrare dei «modelli», cioè delle persone, immediate e concrete, che hanno già fatto quel percorso, e oltre a sostenere i primi passi del nuovo arrivato possono trasmettere l’immagine viva di com’è l’«altra sponda». Solo loro possono fornire il necessario ancoraggio per il novizio perché incarnano – nello stretto senso del termine – il «realismo della vita benedettina».

La strada è uguale per tutti e al tempo stesso differente per ognuno, differente negli accenti che vengono posti sugli elementi costitutivi della scela monastica. Sentiamo ancora, e per esteso perché lo merita, il ricordo di m. Piccardo: «Se consideriamo i mezzi di crescita che la vita monastica offre, devo confessare che, nel mio personale impatto iniziale con il monastero, non furono i valori tradizionali, la preghiera, la lectio, la solitudine, il silenzio, la clausura, che comunque avrebbero conformato la mia vita, quelli che richiamarono la mia immediata attenzione e marcarono la mia esperienza iniziale, ma piuttosto l’impatto sperimentale con realtà molto semplici, come per esempio la ristrettezza e la nudità della cella in un grande dormitorio comune e la consolazione che mi riempiva il cuore quando, svegliandomi al suono delle Vigilie, dopo vari incubi notturni, potevo toccare i muri della cella e dire: “Sono ancora qua!”».

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  1. Cristiana Piccardo, La crescita della persona nella sapienza della Regola. Una testimonianza, in C. Piccardo, R. Nardin, S. Corsi, La sapienza monastica: una tradizione vivente, Borla 2006 (che raccoglie gli «atti» dell’Incontro monastico sul tema tenutosi presso il monastero di Valserena 14 anni fa, dal 25 al 27 novembre 2003).

 

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«Ciò che è solo sentimentale, intellettuale ed emotivo» (Cristiana Piccardo, «Alle sorgenti della salvezza», pt. 2/2)

AlleSorgentiDellaSalvezza

(la prima parte è qui)

Nei primi tra i testi raccolti in questo volume1 m. Piccardo torna più volte sul concetto di personalità, che può essere ripensato a partire dalla sua declinazione monastica, soprattutto in contrasto con quello che sarebbe il pericoloso processo di alienazione dell’individuo nelle cose: «L’uomo che possiede una personalità è l’uomo che si misura non con le cose che passano, ma con l’eterno». Se ciò può essere vero per l’uomo-monaco, suona ingeneroso nei confronti dell’uomo-non-monaco, che si dedica a ciò che è alla sua portata (in uno spettro amplissimo di attività con diverse gradazioni di egoismo e altruismo) senza passare necessariamente a un piano trascendente. Si ripresenta qui anche il concetto di «momento presente», molto scivoloso e da maneggiare con cautela (e la cui applicazione ormai va dalla saggistica di auto-aiuto alle divulgazioni buddiste), e tuttavia non estraneo alla vita monastica, tesa verso il trascendente e l’infinito e nondimeno lontana dall’abbandono all’indifferenza. È l’autrice stessa a farvi riferimento, quando evoca l’importanza dell’«inserzione costante dell’eterno nel momento presente». Il mero presente, senza la dimensione escatologica, produce isolamento e disperazione, anche perché «l’escatologia mondana ha fallito del tutto». Un’altra affermazione che mi pare un po’ ingenerosa, poiché accanto alla «capacità di autodistruzione» l’uomo moderno (o in generale) ha sviluppato una «capacità di costruzione» che dovrebbe sempre essere ricordata insieme alla prima, e sulla quale si può sorvolare soltanto a scopi polemici. (Devo anche dire che questa inserzione dell’eterno non è una semplice «aggiunta», ma ci tornerò quando avrò completato una lettura collegata all’argomento.)

Il richiamo all’infinito, in ogni caso, riscatterebbe il presente dall’inutile, rischiando tuttavia di svalutarlo in maniera drammatica. Si tratta peraltro di una preoccupazione propria della pratica monastica. Bisogna, dice infatti m. Piccardo, «essere consapevoli che una cosa sola è essenziale anche se il monaco fa con responsabilità tutto ciò che gli viene affidato», e ho sottolineato quell’«anche se» perché vi sento una tensione molto interessante: ciò che conta è al di là di queste cose che ci circondano, ma nel frattempo le teniamo in ordine, le accudiamo, facciamo le pulizie, sgrassiamo una pentola e stiriamo con cura (per non parlare di incarichi di servizio ben più seri); ciò che conta è al di là di questi individui che ci circondano, ma nel frattempo la comunità è il nostro orizzonte quotidiano – un atteggiamento del tutto condivisibile, anche da chi crede soltanto nel frattempo.

Consapevole di tale tensione, m. Piccardo ritiene che «il monachesimo deve potersi proporre come forza profetica della dimensione misterica dell’uomo, come spaccatura del limite terreno che sempre più ci soffoca, e non nella prospettiva escatologica, ma proprio nell’oggi storico». Adesso, quindi, il monachesimo ha qualcosa da dirci, per quello che c’è da fare ora. «Di fronte a un così manifesto decadimento della dimensione umana e del suo immortale contenuto», il monachesimo può proporsi come «discorso paradigmatico sull’uomo», al di là della clausura o delle regole, raccogliendo tutte le sfide – di convivenza, di speranza, di gioia – che secondo l’autrice sarebbero state perse dalla modernità, e soprattutto imparando di nuovo «a giungere al cuore della persona, là dove, varcate le soglie di ciò che è solo sentimentale, intellettuale ed emotivo, si tocca quel centro dell’essere, quel punto focale di luce da cui emerge l’autentico spessore contemplativo del monaco».

Bene, mi fermo qui, anche perché credo che «ciò che è solo sentimentale, intellettuale ed emotivo» rappresenti già un compito immane – per il quale non basta un’esistenza non devastata dall’esigenza di sopravvivere e che non mi sentirei di sorpassare in nome di un «punto focale di luce», cioè la «scintilla di somiglianza divina», di ardua definizione e sostanzialmente oggetto di fede.

(2-fine)

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  1. Madre Cristiana Piccardo, Alle sorgenti della salvezza. La vita contemplativa oggi, introduzione di m. Rosaria Spreafico, badessa di Vitorchiano, Nerbini, Associazione Nuova Cîteaux, 2015 («Quaderni di Valserena»; 2).

 

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