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Sporchi, sbagliati, complicati e nell’oscurità («Gesù Cristo, nostra vita», di Anna Maria Cànopi)

Ripassando a lettura ultimata le pagine di Gesù Cristo, nostra vita di Anna Maria Cànopi, il testo che le sue stesse «figlie» di San Giulio chiamano il suo «testamento»1, mi ha fatto sorridere uno degli innumerevoli commenti che tra la selva di punti interrogativi ho scritto sui margini, sia per la curiosa ostinazione con cui continuo a prendere queste note, attribuendovi quindi un certo significato, sia, più semplicemente, per il suo tenore: Questo pensiero non è condivisibile in alcun modo, ho scritto di fianco alla seguente affermazione della badessa: «Se custodiamo il silenzio la verità verrà alla luce, ma anche se ciò non accadesse, che importa?», come se ritenessi assolutamente necessario lasciare traccia del mio disagio.

Disagio che è uno dei motivi per i quali ho cercato di leggere estesamente le opere di m. Cànopi, insieme con la nozione che è stata una testimone non ignorabile del monachesimo contemporaneo e con una certa forma di attrazione-repulsione per quella che non esito a chiamare la sua antropologia negativa. Anche questo testo, peraltro, vive dell’ambiguità di essere formalmente rivolto alle sue monache, e quindi alle persone consacrate in generale, ma anche ai cristiani in senso più vasto, e sullo sfondo a tutti, anche a chi si ritiene «simile a una meteora dispersa nello spazio», a «chi non ha fede e quindi nemmeno speranza e amore». (No, quel quindi è ingiusto.)

Ecco ad esempio come, a proposito di uno dei cardini del pensiero di m. Cànopi, l’obbedienza, si legge che «nella nostra giornata niente deve essere lasciato all’iniziativa personale», dove «nostra» vale senza dubbio per «delle monache». Poi, però, si legge anche che dobbiamo contrastare la «nostra natura incline al rifiuto e alla disobbedienza, quella disobbedienza che ha causato tanti mali all’umanità», dove il «nostra» sembrerebbe ben più ampio, se non universale. E più avanti si legge ancora che «l’obbedienza del cristiano e tanto più del monaco ha senso e valore solo come scelta di aderire con amore senza limiti al Signore, a ogni sua volontà», e non posso trattenermi dall’osservare che se nel monastero tale volontà si rende evidente in ciò che dispone il superiore2, fuori del monastero l’unica indicazione per il cristiano è l’altissima probabilità che la volontà del Dio sia il contrario dei propri desideri3.

Già, perché «il nemico più temibile è dentro di noi… questo focolare oscuro rappresentato dall’orgoglio, dalla superbia e dall’ostinazione», che va sconfitto con quell’«obbedienza feriale» che è fatta di docilità, adesione, adeguamento, e di superamento del proprio modo di pensare, del proprio desiderio di «appartenersi». Dall’altro lato, rispetto a questa obbedienza, si accalcano una serie di tratti individuali che m. Cànopi spesso accomuna in maniera non condivisibile: è come un ribollire di elementi sfrenati che, combinati, sono la radice di ogni male. Eccoli lì: i desideri, appunto, le passioni, le nostalgie, i ricordi, i giudizi, e anche gli istinti, le inclinazioni, le simpatie, le antipatie: lì in mezzo (in mezzo «ai tanti aspetti ancora troppo umani») siamo in balia delle onde e facili prede del Tentatore, che «con il pretesto di renderci  liberi e indipendenti ci rende invece schiavi della sua perversa volontà che ci allontana da Dio».

E proprio da quel calderone sembra sgorgare quella che sopra ho chiamato l’antropologia negativa di m. Cànopi: «Noi abbiamo dentro delle ombre, delle macchie che rendono opaco lo sguardo del nostro cuore, ma proprio per questo dobbiamo metterci sotto lo sguardo del Signore per poter essere ripuliti, corretti, semplificati, illuminati». Bene, dunque, leggendo in negativo, siamo sporchi, sbagliati, complicati e nell’oscurità. E soprattutto: «Nessuna abilità diplomatica, nessuna teoria filosofica, nessuna scienza psicologica potrà mai guarire l’uomo dalle sue profonde e malsane inclinazioni e metterlo in armonioso accordo con tutti e con tutto». Incapace di risposta – figuriamoci –, confido nel lavoro del pensiero laico, per fronteggiare questa affermazione, e nella vita quotidiana con le sue infinite scelte immanenti e a breve scadenza, per annacquarla. Se così si può dire.

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  1. Anna Maria Cànopi, Gesù Cristo nostra vita, Nerbini 2019 («Orizzonti monastici»; 44).
  2. «L’obbedienza monastica comporta la convinzione che quanto il superiore stabilisce è ciò che Dio vuole in quel momento.»
  3. «Obbedire in ciò che è contrariante alla nostra natura fa morire l’uomo vecchio e fa crescere l’uomo nuovo che aderisce pienamente al Signore»; «Anche se in misura diversa dalle circostanze, l’obbedienza è per lo più crocifiggente.»

 

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Echi (Anna Maria Cànopi e Bernardo di Chiaravalle)

Sto leggendo quello che le sue stesse «figlie» di San Giulio chiamano il «testamento» di m. Anna Maria Cànopi, Gesù Cristo nostra vita1, sul quale dovrò tornare, e mi sono fermato su questa frase, che compare nelle prime pagine: «La vita monastica, prendendo alla lettera il vangelo, […] richiede infatti la separazione dal mondo per una vita di nascondimento non solo agli occhi degli altri, ma anche ai propri…». Non è del tutto impossibile assimilare, o quantomeno avvicinare il primo nascondimento di cui parla m. Cànopi, perseguito in un monastero (dove è raccolta pur sempre una comunità), a quello dell’indistinzione in cui tutti (o quasi) siamo immersi (fatto salvo un piccolo intorno), ma un altro discorso è il nascondimento al proprio stesso sguardo, impresa ardua anche per l’eremita di cui il mondo non conosca nemmeno l’esistenza. Come si può raggiungere una tale forma di oblio di sé? Qual è il senso psicologico, storico, e anche sociale, di una domanda del genere?

Quello che mi ha colpito maggiormente, tuttavia, è come dietro questo tratto, tipico del radicalismo di m. Cànopi, risuoni un’eco lontana del mio amato (sì) Bernardo di Chiaravalle.

Nel quarto sermone del Commento al Salmo 902, infatti, san Bernardo, illustrando il  versetto Ti metterà all’ombra sotto le sue spalle, e sotto le sue ali sarai pieno di speranza, spiega il perché della reclusione monastica: «Ecco perché noi ci appartiamo, anche fisicamente, nei chiostri e nelle selve», per proteggere il «tesoro» che i monaci hanno intravisto, per fuggire la considerazione del mondo e la vanagloria che ne deriva, per essere santi senza saperlo. Per questo «è necessario cercare il nascondimento, non solo agli occhi altrui ma ancor più ai propri».

Più di ottocentocinquant’anni separano queste parole praticamente uguali che ho sottolineato, questo strano appello a occultarsi a se stessi. Strano perché quasi inconcepibile, se non per due persone abitate dal medesimo assillo per il rischio di perdizione che corre un’individualità indomabile – la propria.

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  1. Anna Maria Cànopi, Gesù Cristo nostra vita, Nerbini 2019 («Orizzonti monastici»; 44).
  2. Bernardo di Chiaravalle, Commento al Salmo 90, introduzione, traduzione e note di p. Raimondo Sorgia, o.p., Edizioni Paoline 1977, pp. 71 e segg. Il riferimento è alla Volgata.

 

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Un’unica armonia (l’«Omaggio a Madre Anna Maria Cànopi»)

A un anno di distanza dalla morte, dal «transito», di Anna Maria Cànopi, la grande badessa dell’abbazia «Mater Ecclesiae» dell’isola di San Giulio, Matteo Albergante e Roberto Cutaia hanno raccolto ventitré testimonianze di donne e uomini religiosi e laici venuti in contatto, a vario titolo e in varie forme, con «la Madre»1. Si potrebbe definire il volume una specie di moderno «rotolo funebre» di intonazione agiografica («A noi è parsa sempre una persona santa, eccezionalmente coerente, fin dai primi anni in cui l’abbiamo conosciuta», dicono con unica voce le sue consorelle, le sue «figlie»), sollecitato per fissare nell’emozione del momento ricordi, pensieri e sentimenti. In questa prospettiva, spicca su tutti, a mio parere, il contributo di Maria Ignazia Angelini, badessa emerita di Viboldone, cioè proprio di quell’abbazia alla cui porta m. Cànopi chiese di entrare e in cui fece la professione solenne, il 30 maggio 1965, a 34 anni2.

Spicca perché non si limita all’omaggio reso a una personalità sicuramente non comune, ma lascia emergere differenze e questioni con una combinazione speciale di finezza, discrezione e onestà, a partire da quell’incipit così accurato e di certo a lungo meditato: «Una testimonianza su madre Anna Maria Cànopi è una richiesta impegnativa: mette in moto tutta una serie di memorie sensibili, sulle quali gli ultimi incontri con lei hanno gettato una luce di pensoso stupore».

Sia chiaro: non voglio assolutamente far dire al testo di m. Angelini cose che non dice, nondimeno non sono poche le espressioni che evocano, soprattutto in relazione agli inizi della comune vicenda monastica («Fummo per tre anni in noviziato insieme, prima che lei passasse tra le monache professe»), momenti di tensione, quantomeno rispetto al clima di quegli anni. Tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, ricorda m. Angelini, «vivevamo tutta l’inquietudine e lo spirito di ricerca dell’epoca del post-Concilio, la seduzione della ragione critica, la passione per l’aggiornamento e il rinnovamento della liturgia e delle osservanze monastiche, il ripensamento del volto della donna nella Chiesa» e m. Cànopi, pur «con la consueta mitezza, prendeva le distanze» da quelle discussioni. Come in uno specchio si può osservare tale «distanza» nelle parole dell’«autobiografia» di m. Cànopi: «In quegli anni erano molte le problematiche sollevate nella Chiesa a proposito della vita consacrata e bisognava affrontarle con sollecitudine e insieme con ponderazione, con apertura alle sagge innovazioni, ma senza staccarsi dalla convalidata tradizione»3.

Potrei elencarle, tutte le altre espressioni che ho sottolineato, ma mi rendo conto che, come si dice, non è questo il punto. E qual è, allora? Ciò che più mi ha colpito è che queste poche pagine mi hanno per così dire messo davanti agli occhi due figure di donne monache badesse, consapevoli delle proprie differenze, ma unite dallo stesso abito  e da ciò che rappresenta, lontane e vicine, una di fronte all’altra eppure affiancate. Pur entro la spigolosa cornice dell’umiltà benedettina, l’aria che vi si respira è quella della grandezza. Certo, la «protagonista» è m. Cànopi, grazie anche ai preziosi documenti – lettere e testi poetici – che vengono citati, ma chi scrive non si cancella e proprio per questo dà alla propria testimonianza uno speciale valore di umanità.

(Sia concesso qui, tra parentesi, mettere ancora a confronto il testo di m. Angelini e quello autobiografico di m. Cànopi su un momento preciso: la partenza di quest’ultima con cinque sorelle da Viboldone alla volta di Orta. Scrive m. Cànopi: «L’11 ottobre 1973, di buon mattino, al termine delle celebrazioni delle lodi, andammo a baciare l’altare in mezzo al coro, quindi ci avvicinammo alla madre abbadessa per ricevere la sua benedizione e, silenziosamente, uscimmo dal portone principale della chiesa. Fuori ci aspettava il parroco con l’automobile per accompagnarci all’isola. Guardammo fino all’ultima svolta le mura dell’abbazia…». Ricorda m. Angelini: «L’uscita da Viboldone verso la Chiesa che è in Novara, verso l’isola di San Giulio, fu silenziosa e sommessa, l’11 ottobre di quello stesso anno. Uscirono in sei, piccolo gruppo di sorelle, dal portale dell’abbazia, senza voltarsi indietro…»).

Non voglio dimostrare nulla, con questi appunti, forse soltanto immaginare proprio quegli ultimi incontri, quattro, tra le due monache, nel corso del 2018: poche parole e molto silenzio all’insegna di «una sintonia gustata pur nella radicale differenziazione degli orizzonti», la conclusione commossa di «una lunga storia condivisa, su registri diversi, ma sorrette da un’unica armonia: il Dio della nostra salvezza».

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  1. «Il silenzio si fa preghiera». Omaggio a Madre Anna Maria Cànopi, a cura di M. Albergante e R. Cutaia, Paoline 2020.
  2. «Le prime sorelle della comunità ancora oggi portanto impressa nella memoria la stupita perplessità al vedere presentarsi l’esilissima figura femminile alla porta del monastero per essere accolta come probanda.»
  3. Anna Maria Cànopi, Una vita per amare. Ricordi di una monaca di clausura, Interlinea 2012.

 

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Schedine: Dellavite, Mazzolari, Cànopi

Giulio Dellavite, Se ne ride chi abita i cieli. L’abate e il manager: lezioni di leadership fra le mura di un monastero, Mondadori 2018. S’inserisce in un filone non povero di esempi il libro (il romanzo?) di Giulio Dellavite (che è un sacerdote, e non un monaco, e mi pare si senta), quello dei possibili parallelismi tra la Regola di san Benedetto e i trattati (o i manuali) di management, tra abate e manager: leadership, divisione dei compiti, pianificazione, obiettivi, squadra, «debolezze» che diventano «opportunità», e via di questo passo. Bloccato da un guasto alla sua auto, in mezzo alla campagna, proprio all’inizio di un sospirato week-end, un dirigente fin troppo tipico nei suoi tratti e modi si ritrova a passare una notte e una mattina in un monastero, in attesa di potersi rimettere in marcia verso i suoi impegni. Coro, sala capitolare, biblioteca, refettorio, infermeria: il manager verrà accompagnato dall’abate e dagli altri monaci in una visita ai vari ambienti, e ogni luogo sarà l’occasione per una conversazione (e per storielle, citazioni e aneddoti in gran copia). Non inaspettatamente, cellulare infine ben carico e auto riparata, il nostro se ne andrà, pensando di essere un po’ cambiato.

Primo Mazzolari, Lettere a una suora, La Locusta s.d. (ma 1961). Un piccolo fascicolo di lettere di don Primo Mazzolari a una religiosa rimasta anomima, risalenti soprattutto agli anni 1926-34, spedite quindi dalla parrocchia di Cicognara, prima, e di Bozzolo, poi. Una nota informa che le lettere giunsero all’editore accompagnate da queste parole, che ho trovato commoventi: «Sono una povera suora. Casualmente, lessi su un giornale che La Locusta sta raccogliendo le lettere di don Primo. Io ho un epistolario, che va dal 1926 al 1954. Ve lo mando. Anche per partecipare ad altri del bene che ho ricevuto da don Primo…» Ho un particolare interesse per gli epistolari tra persone «in religione», forse perché mi pare che, quasi sempre, in virtù del riferimento a una dimensione «ulteriore», vi siano assenti le scorie dei rapporti di potere e di genere. Poco importa, in fondo, che io non creda a quella dimensione se posso trovarmi al cospetto del colloquio profondo tra due individui. Qui il grande rammarico è che non siano riprodotte anche le lettere della religiosa, probabilmente perdute, onde poter scoprire quali richieste o confessioni abbiano suscitato certe frasi del sacerdote: «Per lei, come per tanti di noi che viviamo da anni in religione, non è più questione di luce, ma di obbedienza a occhi chiusi» (1926), «Non è una strada fatta, la vocazione, ma una strada da farsi, e col piccone» (1928), «Io la vorrei più suora che monaca, pronta a sopportare il peso dello stare insieme» (1928).

Anna Maria Cànopi, Chiamati ad andare oltre. Il cammino quotidiano della vita monastica, Nerbini 2018. La benemerita collana degli «Orizzonti monastici» ha ripreso le pubblicazioni, presso l’editore Nerbini, con una raccolta di scritti di m. Cànopi ricavati dai suoi corsi di formazione per le novizie. Diciassette riflessioni sugli aspetti in prevalenza spirituali della scelta di vita monastica, che la inseriscono in un quadro di riferimento non soltanto esistenziale e comunitario (ed ecclesiale), bensì anche universale e «persino cosmico» («Dobbiamo avere rispetto, devozione e affetto per questo impegno che ci caratterizza e ci identifica: siamo quelli che danno lode a Dio per tutti. […] Andando in coro, dobbiamo quindi pensare che ci uniamo alla schiera immensa delle generazioni umane del passato, ma anche quelle del presente e del futuro per camminare verso l’ultima ora della storia»). I lettori interessati – come me, al di là di qualsiasi grado di disaccordo – troveranno anche qui (anzi, qui forse più che altrove) lo stile e i temi inconfondibili di m. Cànopi, primo fra tutti lo scontro frontale e inesausto con quell’«assolutizzazione» o «divinizzazione» dell’io che nelle parole veementi della badessa pare assurgere a origine di tutti i mali.

 

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Il commento «mariano» di Anna Maria Cànopi alla Regola di san Benedetto (pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Cosa fa, o cosa deve fare, il monaco secondo Anna Maria Cànopi? «Cerca di vivere nascosto in Cristo», con un sfumatura interessante rispetto al più consueto riferimento alla sequela Christi: nascosto. Nulla infatti è più contrario alla vocazione monastica che esigere «riconoscimento, lode, applauso per il lavoro o i servizi compiuti». Il commento mariano di m. Cànopi alla Regola di Benedetto1 è colmo di queste indicazioni sul carattere dell’essere monaci oggi (come ieri, come sempre, correggerebbe forse la famosa badessa): segnali, definizioni, direttive, esortazioni, pensieri espressi con la fermezza che non ammette repliche, e che richiama alle proprie responsabilità, tipica di molte sue pagine.

Espressioni come «la vigilanza non è mai troppa», «questa mentalità deve sparire», «non sia mai che», «è quindi bene avere sempre» «l’unico programma del monaco è» introducono spesso tali indicazioni, e se da un lato danno in positivo l’immagine del monaco che prova a essere tale, dall’altro stigmatizzano in negativo le cattive abitudini o i guasti del mondo al quale il monaco volta le spalle. Quando ad esempio la badessa ricorda alle sue monache che la ricerca di Dio comincia, prima di ogni cosa, nell’accettazione, il bersaglio è anche quella libertà di scelta tanto celebrata fuori del monastero: «Se vogliamo ostinatamente scegliere, è evidente che stiamo cercando noi stessi». Un altro bersaglio capitale è il valore dell’individuo, che si realizza soltanto nell’atto della donazione di se stessi. «Nessuno “vale niente”, ma si vale nella misura in cui ci si dona»: è lì, nel rifiuto di ogni pretesa, nella propria disponibilità «gratuita», nell’oblio di qualsiasi ipotetico talento, che si attua la vera vita di servizio e si estrae, come se fosse un succo, il proprio valore. E il servizio dev’essere scelto a oltranza, «fino all’estremo, fino a diventare mantelli logorati dall’uso». Altre volte, invece, la cattiva abitudine sembra veniale, come nel caso dell’uso dei soprannomi: «Oggi, nel mondo è molto consueto usare nomi abbreviati e storpiati, al punto che talvolta non c’è più nessun nesso con il nome originale»; ciò non deve accadere in monastero, per rispetto della consacrazione, di cui il nuovo nome è segno.

Dalle pagine del commento traspare, poi, il fatto non trascurabile che l’autrice è stata ed è guida di una comunità amata e osservata sin nel più minuto particolare, un’esperienza accumulata e maturata che emerge sia da piccoli incisi, sia da riflessioni più distese. In questo m. Cànopi è specchio dello stesso Benedetto, che, «prima di dar delle norme, ha a lungo osservato i suoi monaci in concreto, nelle varie situazioni». Gli esempi sono innumerevoli, come la riflessione sulla puntualità in coro, che è fondamentale in quanto segno dell’unità della comunità, che si presenta come un sol corpo alla celebrazione. E dunque: «Come è brutto vedere qualcuno aggregarsi alla fine, di corsa, quasi come prendendo il treno che sta già per partire!» Un altro esempio è la pagina sui doni e sulla corrispondenza. Se da un lato la badessa ricorda che «è buona consuetudine monastica» far vedere all’abate tutte le lettere, in arrivo e in uscita, dall’altro considera che «generalmente i parenti comprendono questo aspetto della spiritualità monastica», quello cioè in base al quale l’abate può destinare ad altri il dono portato in monastero per il proprio congiunto.

Nel mondo. Forse, più in generale, si può osservare come l’antitesi monastero / mondo venga presentata in questo commento sempre senza sfumature. Discutendo del ruolo cruciale, e assai simbolico, del portinaio, m. Cànopi pronuncia alcune parole molto significative a questo riguardo: «Bisogna sempre custodire il cuore in modo che il mondo non entri dentro di noi, intendendo ovviamente il mondo come la mentalità secondo il maligno, con tutti quei comportamenti che non sono secondo il Vangelo e secondo lo spirito della Regola». Ecco, il punto che vorrei vedere approfondito sta in quell’avverbio, in quell’ovviamente che, se posso dire, non è affatto ovvio.

(2-fine)

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  1. Anna Maria Cànopi, Nel «sì» di Maria. Una lettura spirituale della Regola di Benedetto, Paoline 2017.

 

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Il commento «mariano» di Anna Maria Cànopi alla Regola di san Benedetto (pt. 1/2)

Leggo i testi di Anna Maria Cànopi, badessa dell’abbazia «Mater Ecclesiae» sull’Isola di San Giulio, sempre con estremo interesse: mi rivelano aspetti di una fede vissuta che altrimenti non avrei modo di conoscere, ne apprezzo l’acume psicologico anche quando ribadiscono posizioni che fatico ad accettare, se non a comprendere, mi attira – sì, mi attira – la «durezza» non aggressiva del tratto argomentativo, così poco comune di questi tempi. E così è stato anche per questa insolita «Lettura spirituale della Regola di Benedetto»: Nel «sì» di Maria1. Insolita perché un «inedito commento mariano alla Regola cristocentrica di san Benedetto» rappresenta una bella sfida, e a dirlo è la stessa «comunità monastica» della badessa, che firma la breve introduzione e che ricorda le parole di m. Cànopi quando in Capitolo svolgeva le prime osservazioni sul tema: «Si è soliti dire che nella Regola di san Benedetto Maria, la Madre del Signore, è assente. Ma è proprio vero? In questi giorni me lo chiedevo e richiedevo. Ho pregato per essere illuminata dall’Alto. Certamente il nome di Maria non vi compare; non si può tuttavia dubitare che la sua figura non sia presente in modo silenzioso, creando un’atmosfera di pace».

Tre sono stati gli aspetti principali sui quali si è concentrata la mia lettura, che ovviamente non ha potuto esaurire tutte le dimensioni del testo. Anzitutto il tema primario del commento, cioè il rapporto indiretto che si può stabilire tra la figura di Maria, e il suo silenzioso insegnamento, e la Regola benedettina; poi le riflessioni di carattere più generale sull’essere monaci oggi – anzi, sull’essere monache oggi; e infine il continuo emergere di osservazioni palesemente tratte dall’esercizio quotidiano e annoso della funzione di guida della comunità: una vena inesauribile di sapienza abbaziale.

«Chi più di Maria visse in ascolto?» si chiede m. Cànopi aprendo il suo commento sul famoso «Ascolta, figlio» del Prologo. Un ascolto che si è tradotto all’istante nel «sì», nel fiat («limpido e definitivo» e sempre rinnovato), cioè nell’adesione pronta e piena alla volontà superiore del Signore. In questo Maria è modello perfetto del monaco: «È esattamente questa la disposizione che san Benedetto chiede a chi intraprende il cammino della vita monastica: rinunziare alla volontà propria, assumere le fortissime e gloriose armi dell’obbedienza, per servire il Signore».

L’obbedienza, declinata secondo la sensibilità «mariana», si carica di umiltà, mitezza, letizia, nascondimento, silenzio, e approda, se così si può dire, nelle riflessioni della badessa, a due concetti cardinali, quello della libertà e quello del servizio. E se il secondo è chiaro e piano – quell’atteggiamento di cura e attenzione, di sacrificio e dedizione, che m. Cànopi inevitabilmente associa alla dimensione materna2; il primo si colora di sfumature paradossali.

Il tema della rinuncia alla propria volontà come strada maestra verso una forma più alta di libertà è spesso presente nei testi della badessa e anche qui rappresenta forse l’ossatura primaria del commento, incentrato sul mantra (mi sia permesso chiamarlo così) della docilità di Maria, che «non è vissuta mai a proprio arbitrio». Il porsi costantemente e con naturalezza «fuori dal territorio dei propri interessi» conduce a quel distacco da sé che è premessa dell’apertura autentica agli altri e della ricerca pura di Dio (da notare la mai casuale presenza di aggettivi che determinano la vera qualità delle disposizioni virtuose). Una condizione di arrendevolezza senza calcoli e senza ambizioni che coincide con la «vera» libertà di essere libero campo d’azione per lo Spirito; campo aperto e privo degli ostacoli della ostinazione, della superbia, della cupidigia e dell’egoismo; campo aperto ma anche «cella interiore», luogo di raccoglimento e nascondimento ove rendere possibile l’incontro con il Signore.

«Maria, diremmo oggi, è come una pagina bianca»: è questa l’immagine scelta dalla badessa, echeggiando la tavoletta di cera dei Padri della Chiesa, modello per i monaci e le monache di oggi: un comune foglio di carta dal quale cancellare gli sfregi dei «sentimenti, pensieri e desideri vani e profani» e da conservare intonso in modo che Qualcuno vi possa scrivere.

(Questa «pagina bianca» suscita in me un certo sconcerto, non posso nasconderlo, ma sia detto soltanto tra parentesi.)

(1-segue)

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  1. Anna Maria Cànopi, Nel «sì» di Maria. Una lettura spirituale della Regola di Benedetto, Paoline 2017.
  2. «Alle nozze di Cana, Maria è presente con attenzione di amore materno: vede la necessità e con la sua preghiera provvede; svolge, in certo senso, quel servizio di “pronto soccorso” che è una delle prerogative fondamentali dei monasteri» (p. 16).

 

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«Il monaco è utile quando è gratuito» (Dice il monaco, IL)

Dice Anna Maria Cànopi, osb, badessa dell’Abbazia Mater Ecclesiae dell’Isola di San Giulio, con la consueta, lucida precisione, nel 2017:

In monastero – ma questo vale per monaci e laici – l’importante non è quello che si fa, ma «come» lo si fa, con quale atteggiamento interiore si vivono il lavoro e i vari servizi comunitari, le relazioni fraterne e la stessa preghiera. Alla base ci deve essere il «distacco da se stessi», che è libertà dalla preoccupazione di voler a ogni costo conservare, o comunque valorizzare capacità proprie – reali o presunte – secondo criteri personali di utilità o convenienza. Il monaco è utile quando è gratuito, quando si dà totalmente al Signore, dicendogli momento per momento: «Eccomi, fa’ di me quello che vuoi». Si entra in monastero non per fare questo o quello, ma per «essere del Signore», perdutamente dati a lui nell’offerta di se stessi, nella preghiera, nell’umiltà, nella povertà. Questa è la radice della fecondità della vita monastica. Non bisogna cercarla in nient’altro. È fondamentale non perdere mai la consapevolezza che si raggiungono i fratelli per soccorrerli anche, ad esempio, lavando i piatti o i pavimenti. Facendo quel lavoro noi, misteriosamente, laviamo le coscienze – a partire dalle nostre – e contribuiamo alla purificazione dell’intera umanità. Ogni più piccolo servizio fatto con amore è una testimonianza non solo del nostro amore per Dio e per i fratelli, ma dell’amore di Dio per gli uomini, perché Dio vuole servirsi di noi come di canali che egli sempre ricolma di grazia, affinché trabocchino a vantaggio di tutti.

(Ho messo una sottolineatura là dove pensiero monastico e psicologia, come spesso è accaduto e tuttora accade, mi sono sembrati particolarmente intrecciati. Molti sono peraltro gli echi che mi è parso di cogliere qui.)

♦ Anna Maria Cànopi, Nel «sì» di Maria. Una lettura spirituale della Regola di Benedetto, Paoline 2017, p. 140.

 

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«Quel poco, che finisce» («L’amore che chiama», di Anna Maria Cànopi, pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Il ruolo esemplare della comunità monastica è ribadito più volte in L’amore che chiama1: le comunità sono organismi che mostrano un’alternativa alla logica «mondana» (cioè «motivi di speranza per credere che l’uomo non è inevitabilmente nemico dell’altro uomo»), che innalzano la loro preghiera a nome dell’umanità intera («E questa è proprio la nostra vocazione: noi siamo qui a pregare per tutti»), che  assolvono una funzione insostituibile («È certo infatti che fino alla fine del mondo ci sarà bisogno di piccoli uomini e piccole donne senza alcuna importanza, ma che sappiano stare là davanti al Signore»). La comunità è quella palestra dove esercitare il desiderio di essere unanimi per scontare il peccato di divisione, dove reiterare l’obbedienza per rimediare alla disobbedienza originale, dove rinunciare ai propri «intenti» per non ostacolare il disegno divino di salvezza2.

Le pagine di m. Cànopi sono piene di definizioni e paradossi che cercano di esprimere un’esperienza che viene riconosciuta come carica di mistero, una vaga certezza – l’improbabile espressione è mia – che va colta nei segni, nelle situazioni e negli incontri e accolta come Maria accolse l’Annunciazione, con istantaneo slancio di adesione. In questo senso, la madre di Gesù rappresenta l’ideale del monaco, e non a caso la badessa ha dedicato alla sua figura una nuova lettura della Regola di san Benedetto. Osservo anche che le pagine di m. Cànopi sono piene oltre il consueto dell’aggettivo «vero» e dell’avverbio «veramente», variamente declinati, come se lei stessa sentisse il bisogno di un continuo rafforzativo per un discorso minacciato dall’incredulità, come se le parole usate da sole non bastassero.

Come ho detto, non ha alcun senso che io muova delle obiezioni al discorso della badessa; c’è tuttavia, tra i molti, un argomento che ha suscitato la mia protesta interiore. È un concetto più ampiamente cristiano e non specificatamente «monastico» e l’ho trovato espresso in una specie di arco teso tra due frasi all’inizio e alla fine del volume. Commentando i modi con i quali si risponde alla chiamata di Gesù, m. Cànopi dice: «Tutte le cose di questo mondo passano, Gesù non passa, Gesù è la verità e la vita. Siamo quindi chiamati a lasciare quel poco, che finisce, per aderire a Gesù, che è per sempre ed è tutto, siamo chiamati a essere discepoli del Signore» (p. 25). Alla fine della sua riflessione, la badessa ribadisce che l’amore di Cristo (l’amore suo e quello per lui) è la via più alta che siamo chiamati a seguire, più alta e più bella delle stesse cose belle che fanno parte del mondo, mentre se «cerchiamo altro, rischiamo di diventare meschini, dimenticando che siamo stati chiamati alla gloria e ad avere in eredità il regno di Dio e non le piccole e povere cose che passano insieme alla scena di questo mondo» (p. 191).

Non nasconderò il sussulto che ho provato leggendo quelle parole che ho evidenziato in corsivo, un sussulto di orgoglio. Mi si accuserà appunto di cieco orgoglio materialista? Di rinnegamento della «dimensione creaturale» (concetto che trovo ripetuto senza sosta nella letteratura religiosa contemporanea, non solo monastica)? Pazienza. Confesso che mi sentirò semmai colpevole di non aver dedicato tutte le mie migliori energie proprio a «quel poco», a quelle «piccole e povere cose», cioè a ciò che c’è, il commosso struggimento per il quale vorrei mostrare alla persona che lo accantona e che al tempo stesso si accende dicendo che «non possiamo neppure lontanamente immaginare che cosa un giorno riceveremo lassù!» Da quaggiù mi sento di rilanciare sul tavolo aperto da questo libro che non lascia indifferenti la sua medesima espressione, esattamente «quel poco, che finisce».

(2-fine)

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  1. Anna Maria Cànopi, L’amore che chiama. Vocazione e vita monastica, prefazione di G. Savagnone, EDB 2017.
  2. «La vita monastica per sé tutta intera è un’offerta di se stessi per qualcuno, è una professione di fede, una confessione pubblica, come un credo proclamato pubblicamente» (p. 183).

 

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«Noi, chiamati in disparte» («L’amore che chiama», di Anna Maria Cànopi, pt. 1/2)

L’amore che chiama di Anna Maria Cànopi1 è un testo pensato e pubblicato, non a caso in una collana intestata alla «Vita religiosa», per le persone consacrate, ma fa piacere poterlo leggere, sia perché la voce della sua autrice, badessa dell’abbazia benedettina dell’Isola di San Giulio, è tra le più interssanti del monachesimo contemporaneo, sia perché offre una riflessione aggiornata sulle ragioni odierne e sui modi della scelta contemplativa. Usare il concetto di «aggiornato» in relazione a queste cose può suonare improprio, ma d’altra parte a ribadire la necessità di un continuo ripensamento invita la stessa m. Cànopi, quando afferma che «una comunità monastica viva deve sempre essere in crescita, non solo numericamente, ma qualitativamente. È necessario, infatti, che ci sia un continuo adeguamento al tempo in cui si vive»2. E il tempo attuale per la badessa è di certo un tempo oscuro, segnato dal dilagare della dittatura dell’«io», istanza che viene sempre affermata, blandita, nutrita fino a scoppiare, fino a diventare unico criterio di giudizio delle cose, delle persone e delle circostanze, unico asfissiante orizzonte. Il tono severo di m. Cànopi, che tradisce una visione, si direbbe, di «pessimismo antropologico», e che ho imparato a riconoscere da altri suoi scritti, traspare anche qui quando il suo sguardo corre per un istante al mondo che circonda il monastero e i suoi abitanti: un mondo popolato da un’«umanità ignara, sconsiderata, sbandata», da individui che lottano nel «guazzabuglio delle proprie idee» e respirano «l’aria inquinata della mentalità mondana»; un mondo «in cui imperversa una cultura di morte», immerso nella «notte del nostro tempo, che è una notte veramente buia», e così via.

La riflessione di m. Cànopi procede, direi in maniera tradizionale, affrontando dapprima il senso della vocazione monastica, nei suoi aspetti più concreti di una chiamata cui si risponde; passando in rassegna successivamente i voti della professione, e il loro patrimonio di grazie e di doni; analizzando infine le dimensioni del tempo, della preghiera e della carità, così come si attuano nel corpo vivo di una comunità. Comunità che rimane sempre il vero orizzonte delle scelte, delle rinunce, delle pratiche, incarnazione del concetto di salvezza collettiva cui il Signore chiama chi vuole seguirlo: ci si salva tutti insieme, e di questo la comunità monastica sia il modello e l’anticipazione, diventando «un esemplare di come si devono costruire le città dell’uomo in ogni tempo e in ogni luogo».

La prospettiva comunitaria unita a quella dimensione più difficile da maneggiare, almeno per uno come me, che è l’amore di Dio si traduce in una specie di basso continuo che attraversa, ossessivamente, tutti i capitoli del libro e che alla fine mi ha lasciato un po’ dubbioso. Si tratta della ben nota destituzione dell’io, un comandamento che viene declinato in mille forme: abbandono, abbattimento, svuotamento, rifiuto, esproprio: l’importante è non abbassare mai la guardia contro questa «entità» sempre pronta a rialzare la testa, anche all’interno del monastero, che rappresenta il luogo ideale per i consacrati dove combattere la battaglia dell’obbedienza definitiva e della vera libertà che ne consegue. «Noi, chiamati in disparte», dice m. Cànopi, con una punta di spirito di corpo, «portati su un monte in senso spirituale, siamo posti in una situazione favorevole, nella tenda del Signore, per condurre fin d’ora una vita celeste», cioè depurata da qualsiasi resistenza che possiamo opporre al disegno divino per colpa dei nostri ragionamenti, dei nostri gusti, della nostra volontà. I monaci sono chiamati a non pensare mai a se stessi: «Niente è più grave che decidere da soli», rincara la badessa, «basandosi su ciò che si pensa o su quello che è il proprio sentire». Mai assecondare il proprio io; evitare la tentazione di sentirsi «qualcuno»; rendersi conto del proprio niente; abbandonarsi con docilità al disegno di Dio.

Non ha senso avanzare delle obiezioni al discorso della badessa, di certo non ne ha dalla mia posizione, dalla quale, tuttavia, mi sento almeno di evidenziare il paradosso che ci impone di azzerarci e ci vieta di essere qualcuno nel momento stesso in cui ci spinge a riconoscere che il Signore ha un disegno preciso per ciascuno di noi, nonché di manifestare un certo rammarico per questa forma, posso dire aprioristica?, di svalutazione. Perché non ammettere la possibilità di un’alternativa tra l’annullamento incarnato dal Cristo (o da Maria) e l’inferno dell’egoismo abissale? Perché non riconoscere una sola scheggia di credibilità a chi ha pensato di educare quei ragionamenti, quei gusti, quella volontà?

(1-segue)

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  1. Anna Maria Cànopi, L’amore che chiama. Vocazione e vita monastica, prefazione di G. Savagnone, EDB 2017.
  2. E prosegue: «Naturalmente non si tratta di scendere a compromessi con la mentalità del mondo, bensì di portare avanti con molto discernimento un processo di attuazione del vangelo e dell’ideale monastico in modo che risponda alle esigenze dell’uomo contemporaneo, alle sempre nuove sfide che la società propone», pp. 46-7.

 

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Segnaletiche e distanze (Anna Maria Cànopi)

Ho letto, e non poteva essere diversamente, il piccolo libro autobiografico che Anna Maria Cànopi ha recentemente dedicato alla sua vita di monaca di clausura. La badessa del monastero Mater Ecclesiae è una voce troppo importante del monachesimo contemporaneo perché mi facessi frenare dal nervosismo che prevedevo mi avrebbero provocato le sue parole. Che poi, più che del mio nervosismo, del tutto irrilevante, si è trattato di qualche inciampo, sempre mio, davanti a certe espressioni molto risolute. Come: «società neo-pagana», «ebbrezza di autodeterminarsi», «di nulla possiamo vantarci se non della gratuità della salvezza operata da Dio», o ancora: «Nulla nella nostra vita avviene per caso. Su ciascuno di noi c’è un disegno di Dio che egli stesso porta a compimento predisponendo i mezzi e le circostanze favorevoli e richiedendo da parte nostra la docilità, la libera adesione – per fede – alla sua volontà» (il corsivo è mio).

Il libro ripercorre la storia di una vocazione lungamente covata e sbocciata infine agli inizi degli anni Sessanta: la famiglia, e il luogo, di origine, gli studi universitari, l’ingresso nel noviziato di Viboldone, la «fondazione» del monastero sull’Isola di San Giulio (1973), la partecipazione ai grandi eventi della Chiesa unita al ritiro fisico e spirituale. Confesso che mi sarebbe piaciuto che la badessa si fosse soffermata di più proprio sulla maturazione della sua vocazione. Il capitoletto è uno dei più lunghi, ma rimane un po’ in superficie (d’altra parte «la vocazione è un mistero di grazia, non è facile descriverne l’origine e lo sviluppo»). Per contro ci sono molti spunti interessanti, come la «lettura» dei monasteri come «una segnaletica nella giusta direzione… per tutti gli uomini in cammino nella storia e spesso distratti e disorientati», come anticipazione della realtà escatologica che, «in certo modo, si rende visibile» – per limitarsi a un solo esempio.

Non è una persona qualunque, ammesso che esistano, la badessa, e ne è consapevole proprio mentre ci racconta la sua scelta di adesione e «immolazione». Questa volta la distanza che percepisco, sul metro delle parole, unico di un possibile confronto, è pressoché incolmabile, e forse non c’è nemmeno bisogno di sforzarsi per trovare un modo di colmarla. Il mondo è lo stesso, la visione è diversa. E tuttavia, se io non mi permetto di considerare «sbagliata» la sua visione, mi piacerebbe allo stesso modo non essere inserito d’ufficio in un disegno altrui – come un bambino ostinato che si rifiuta di accettare la realtà, come un ingrato superbo, come un individuo perduto in attesa di un lampo. Restando su un piano astratto, io tendo a non dubitare della fede altrui, di certo non per partito preso, chiederei in cambio di non essere fatto oggetto di condiscendenza o pietà (o peggio, come accade in casi assai più seri del mio, che è quello di un comune lettore). Capisco anche come ciò sia impossibile – il disegno di questo Dio non può esistere soltanto per alcuni e per altri no – e anche su questo misuro l’ampiezza della distanza.

Anna Maria Cànopi, Una vita per amare. Ricordi di una monaca di clausura, Interlinea 2012.

 

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