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Dove l’eccezione sia la regola («L’eremo» di Anselmo Giabbani, pt. 2/2)

Eremo Giabbani (la prima parte è qui)

È facile associare il concetto di discrezione a quello di eccezione, soprattutto quando si parla di regole, che vanno aggiornate, interpretate, riviste alla luce dei tempi che cambiano. A parte il fatto che la discrezione monastica, che viene esercitata dalle persone che mettono in atto la regola, va per così dire in entrambi i sensi, sia quello di un certo alleggerimento, sia quello di un maggior rigore, nelle pagine del p. Anselmo Giabbani1 la discrezione non ha a che fare con la fiacchezza, bensì essenzialmente con la libertà.

Se negli «ambienti di vita cenobitica» può circolare anche un vero e proprio preconcetto nei confronti dell’eccezione, e la «struttura» nel suo complesso («la regolarità, gli uffici, il pericolo di attirare l’attenzione altrui, ecc.») può in qualche misura trasformarsi in una limitazione della «perfetta libertà» che è il terreno dell’incontro con il Cristo, «nella patria dello spirito, l’eremo», scrive il monaco camaldolese, «questa libertà dev’essere assoluta, altrimenti la vita eremitica perderebbe la sua ragione d’essere. Dovunque ci si può santificare, specialmente nel monastero, ma avere la possibilità di seguire completamente e con tutta libertà le attrazioni dell’amor divino e darsi totalmente alla preghiera e alla mortificazione, questo si può nell’eremo soltanto. Perché la vita monastico-eremitica studia il rispetto dell’individuo, di cui vuole salvata e arricchita la personalità. L’“anima” infatti di questa concezione di vita è la “discrezione”, ossia la legge della diversità delle anime, riconosciuta qui e attuata pienamente nel campo spirituale.» (Il corsivo è dell’autore.)

Già, le anime sono tutte diverse, e pertanto gli individui: «Dio non copia. A lui si deve l’ineguaglianza delle anime». È singolare questo percorso che pare unire la solitudine estrema alla piena manifestazione della propria individualità; un concetto singolare, perché a lasciarlo risuonare emergono molte consonanze e altrettante disarmonie con altre «regioni» del pensiero monastico, in primis il contrasto tra l’annullamento di sé e lo sviluppo del proprio potenziale spirituale. D’altra parte non si può dire che il monachesimo sia mai stato, e sia, un blocco di granito senza differenze e particolarità.

Occorre anche ricordare che la vita dell’eremita, quello camaldolese nello specifico, era resa possibile nella sua sussistenza da una comunità «di sostegno», composta dunque da persone che rinunciavano a una piena libertà? Che perseguivano una libertà vicaria? O che seguivano un’altra strada di salvazione?

Non è difficile estendere per analogia tali domande e la questione al campo laico (è un mio difetto tipico, ma è anche il modo di dialogare con un po’ di vitalità). In tale campo non si darebbe quindi una «situazione» di piena manifestazione della propria individualità paragonabile a questa visione dell’eremo? Poiché quale discrezione si potrebbe applicare alle «regole» del vivere sociale? L’abuso dell’eccezione (ideologica e pratica: «Ma non si può fare un’eccezione?») non è forse una vera malattia della socialità? Ci si limiterà quindi a quei comportamenti che non rientrano nella sfera del diritto? Ma come distinguere? Ci si contenterà, per certi casi, di soddisfazioni vicarie? Si cercherà nel tempo di spostare i limiti di tale sfera, basandosi su quella manovra concettuale che è l’«io sono fatto così», tanto attraente in astratto quanto potenzialmente ambiguissima nella pratica? O confidando nel processo della razionalità collettiva? Io confido.

E non resisto alla tentazione di leggere la seguente conclusione del p. Giabbani cedendo ancora al demone dell’analogia (il corsivo è sempre suo): «In un ambiente strettamente cenobitico, dove la “regola comune” ha lo scopo di “formare”, l’eccezione non ci dev’essere, e se c’è, si chiama per l’appunto “eccezione”; ma gli uomini formano tutti un’eccezione l’uno in confronto all’altro quando hanno raggiunto una certa personalità spirituale, e dovranno allora avere un ambiente e una possibilità di movimento dove l’eccezione sia la regola, o rientri perfettamente nella regola.

«Nello stato monastico tale ambiente è l’eremo.»

(2-fine)

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Anselmo Giabbani o.s.b., monaco eremita camaldolese, L’eremo. Vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo, Morcelliana 1945.

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Le tendenze sregolate della nostra natura («L’eremo» di Anselmo Giabbani, pt. 1/2)

Eremo Giabbani La combinazione di libro vecchio e argomento monastico esercita su di me un’attrazione irresistibile, anche quando il testo porta inevitabilmente i segni del tempo in cui è stato scritto. È il caso in questi giorni del volume L’eremo del camaldolese Anselmo Giabbani1, che ho lungamente inseguito, infine trovato e quindi letto, con grande soddisfazione. Tra l’altro, avevo dimenticato di aver già incontrato la singolare figura del suo autore. Nato nel 1908 a Pratovecchio (provincia di Arezzo), che dista una ventina di chilometri da Camaldoli, e morto 96 anni dopo proprio a Camaldoli, dove era entrato come novizio a 15 anni; priore di Fonte Avellana dal 1938, quindi priore generale dei camaldolesi nel travagliato decennio dal 1951 al 1963; insieme con Benedetto Calati studioso delle fonti camaldolesi e attivo nell’opera di rinnovamento degli statuti e dei regolamenti dell’ordine, nonché padre conciliare durante la prima sessione del Vaticano II; il p. Giabbani è stato una figura di spicco della congregazione, e non solo: dal 1952 alla di lei morte nel 1990, è stato il direttore spirituale di Julia Crotta, cioè di suor Nazarena, ed è in questo ruolo che l’avevo incontrato nel libro che Emanuela Ghini ha dedicato alla ora assai nota reclusa camaldolese del monastero di Sant’Antonio sull’Aventino2.

Il libro andrebbe letto oggi nel contesto più ampio degli anni di guerra in cui è stato portato a termine, e in quello della storia della congregazione camaldolese, tutt’altro che impermeabile alle vicende che si svolgevano al suo esterno, cosa di cui non sono capace. L’ho letto per quello che dice, che è poi in fondo ciò che più o meno faccio sempre (e aggiungerei anche per come lo dice, poiché imbattersi negli imperocché, negli eppoi, nelle spalle indolite, nell’affarraggine, nei bercioni, nel girottolare e nello scapricciare fa parte di quell’attrazione di cui sopra).

E quello che dice, componendo un vasto insieme di citazioni dalle testimonianze della vita di san Romualdo, dalle Costituzioni di san Rodolfo e dalle opere fiammeggianti di san Pier Damiani («Pier Damiano» per l’autore), è che «al centro della concezione monastico-eremitica sta l’eremo», cui dopo l’esperienza cenobitica si deve tendere «come a un gradino superiore in linea della perfezione monastica e religiosa». L’eremo, come immaginato e vissuto da Romualdo e dai suoi primi successori, l’eremo camaldolese, dunque, che in un certo senso sgorga dal cenobio, «assicura la perfetta libertà dell’individuo» allo scopo di perseguire in terra, al massimo grado possibile, l’unione divina. «Nell’eremo non si strascica il giogo del Signore, non ci si rammollisce nelle posizioni acquisite, ma o si corre con esultanza o si scappa. La delizia e l’entusiasmo sono condizioni indispensabili in questa vita che richiede spesso una forza sovrumana e lo sforzo reiterato di ogni giorno.»

Dalle parole del p. Giabbani, che oggi nessuno forse si sentirebbe di far sue, traspare la considerazione della posizione preminente dell’eremo nel cammino verso la più alta contemplazione («A questa condizione [della sua finalità] l’uno e l’altro – l’eremita e l’eremo – trovano il loro posto di superiorità assoluta nel quadro del Monachismo e della società cristiana»). E traspare anche una visione penitenziale che oggi mi pare squalificata, nei testi se non, come si spera, anche nei fatti. Nell’eremo si distrugge, letteralmente, per ricostruire, e lo si fa tramite la mortificazione: «Il desiderio della libertà e della vita gli fa [all’eremita] prendere di mira il mezzo indispensabile all’espandersi di queste nell’anima cristiana: la rinunzia, la morte. La morte di ogni atto peccaminoso, la morte alle tendenze sregolate della nostra natura, la morte ai germi del peccato». Così, ascesi, nel vitto, nel riposo, nell’abbigliamento («Nelle celle non si fa uso di scarpe né di calze»), nella preghiera, nell’autoflagellazione, nel desiderio di patire: «Penitenza, dunque, vuole l’eremo e l’eremita. Non per un principio stoicizzante o per tendenze patologiche lontanissime dallo spirito eremitico; ma solo e unicamente per la fede nella parola di Gesù e la partecipazione unitaria alle sofferenze».

Un terreno estremamente accidentato e impraticabile, oggi, del quale si direbbe che anche il p. Giabbani fosse già allora consapevole, tanto da fare seguire alle pagine sulla mortificazione un vero e proprio inno alla discrezione, «idea madre della concezione monastico-eremitica»: «Se l’austero eremita Pier Damiano credé opportuno accondiscendere tanto all’umana debolezza, nessuna meraviglia che oggi, dopo nove secoli di osservanza eremitica, si trovino nell’eremo maggiori indulgenze introdotte dalla legittima autorità. Il necessario è che siano salvi i principi del vivere eremitico, senza dei quali l’eremo avrebbe un valore puramente archeologico; mentre con la “discrezione” è possibile conservare il carattere della vita eremitica e venire incontro alla fiacchezza umana».

(1-segue)

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  1. Anselmo Giabbani o.s.b., monaco eremita camaldolese, L’eremo. Vita e spiritualità nel monachismo camaldolese primitivo, Morcelliana 1945. Degna di menzione la «Nota del tipografo», a p. XVIII, in cui si ricorda che «per ben 18 mesi, dal novembre 1943 all’aprile 1945, il lavoro di P. Giabbani è rimasto nella nostra tipografia: e vi abbiamo lavorato anche durante i bombardamenti con interruzioni continue e corse alle cantine di rifugio. All’arrivo del fronte di guerra a Fabriano, i tedeschi irruppero anche nella tipografia Gentile, distrussero i macchinari in vista, buttarono tutto sossopra, rovesciarono per le scale e i magazzini i quadri di composizione in cui era buona parte di questo volume. All’impazzimento di ricerca dei singoli caratteri rimasti decimati si aggiunse la mancanza di energia elettrica e la difficoltà di inviare le bozze all’Autore dovute all’interruzione delle strade ecc., cosicché qualche sedicesimo lo passammo alla stampa senza accurata revisione».
  2. Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa 1945-1990, a cura di Emanuela Ghini, Piemme 1993; ora Itaca 2019.

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Alterazioni eremitiche

FormaDiVitaEremiticaHo letto due volte (sono una settantina di paginette) l’opuscolo che la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica ha dedicato, nel settembre 2021, alla Forma di vita eremitica nella Chiesa particolare. La mia lettura di lettore laico «non credente», cui questo testo molto sorvegliato non è in alcun modo rivolto, se non per opportuna informazione, ha rallentato sino a fermarsi su tre momenti: tre «alterazioni» del discorso, di una superficie altrimenti liscia e scorrevole, densa semmai di «orientamenti» (è il sottotitolo del testo) e istruzioni indirizzate a chi stia considerando questa scelta di vita.

La prima e la terza alterazione sono simili, quindi accenno dapprima alla seconda, che ho registrato nel capitolo 25, all’interno della parte dedicata a uno dei tratti fondamentali (e sanciti dal diritto canonico) della vita eremitica: la separazione dal mondo. (Per inciso, è interessante sottolineare come secondo la dottrina «senza il mondo non si può concepire un uscire dal mondo: ci si separa dal mondo per salvarlo, ci si allontana per volerlo integrare. […] Separarsi non vuol dire fuggire».) La separazione, dunque, corrisponde fisicamente, se così si può dire, all’andata nel deserto – che è stato (ed è ancora, talvolta) quello vero e può essere isola (e tra tutte viene citata Lérins, unico luogo menzionato nel testo), foresta, luogo appartato, e che tuttavia «non deve essere troppo isolato, impervio o di difficile accesso» per non far perdere del tutto all’eremita il contatto con la comunità, umana ed ecclesiale, della quale, comunque, fa parte. Quando il testo evoca la foresta, ecco l’alterazione, la nota che non ti aspetti: «… la quale [foresta] per parte sua è certo luogo di separazione dal mondo, ma per così dire in un eccesso di natura, di fecondità smisurata e disordinata». Che strano quell’«eccesso di natura», e notevoli anche i riferimenti alla dismisura e al disordine, di fronte ai quali peraltro l’eremita è chiamato a «mettere ordine», ad agire nei confronti di «una natura che seduce e confonde». Seduce e confonde: chi oggi userebbe questi concetti parlando della natura? Non sembra quasi di sentire un’eco delle paure ancestrali suscitate dai grandi boschi…?1

Le altre due alterazioni mi hanno colpito all’interno di due elenchi di aspetti che caratterizzano in concreto la vita dell’eremita (ai capitoli 2 e 34). Nel loro intento di offrirsi completamente e più rigorosamente al Signore i primi eremiti scelsero la solitudine e l’assiduità della preghiera, «vivendo in continenza, nella libertà da se stessi e dalle cose, significata dal digiuno, dalla rinuncia ai beni e da una vita povera». Libertà da se stessi: credo di capire cosa intendano qui gli «orientamenti» della Congregazione, e tuttavia è un’espressione non del tutto priva di ambiguità. Ambiguità che si sfuma nel secondo elenco, una trentina di capitoletti dopo: «La vita casta dell’eremita, separata e nascosta, solitaria e silenziosa, sarà nutrita dall’ascesi, la diffidenza di sé, la mortificazione, la custodia dei sensi e del cuore»2. La diffidenza di sé: dunque nella reale impossibilità di essere liberi da sé occorre almeno di sé esser diffidenti? Cioè dubitare: delle proprie intenzioni, della propria costanza, della propria coerenza, della propria possibilità di essere fare dire alcunché. Dubbio salutare, paralizzante o patologico? Santo o diabolico?

In assenza di una «istanza superiore», e immersi nella folla e nel rumore, sicuramente prudente.

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  1. Ecco il passo completo: «Il luogo in cui ci si ritira, e che per questo si continua a chiamare deserto, diventa dapprima l’isola (per esempio Lérins), poi la foresta, la quale per parte sua è certo luogo di separazione dal mondo, ma per così dire in un eccesso di natura, di fecondità smisurata e disordinata. L’eremita nel suo vivere all’interno di una natura che seduce e confonde, è chiamato a mettere ordine, a trasformare l’ambiente in cui vive in un giardino. Questo va inteso soprattutto come una metafora della ricerca spirituale» (p. 33). Ed è molto interessante anche che la ricerca spirituale venga in qualche modo equiparata al «mettere ordine».
  2. Ecco il passo completo: «La vita casta dell’eremita, separata e nascosta, solitaria e silenziosa, sarà nutrita dall’ascesi, la diffidenza di sé, la mortificazione, la custodia dei sensi e del cuore, come da un’ordinata organizzazione della giornata e del lavoro, un adeguato riposo, un’alimentazione sufficiente e moderata, una sana attenzione allo stato di salute» (pp. 47-48).

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Frédéric Vermorel, eremita contemporaneo

SolitudineOspitaleD’altra parte lo dice lui stesso, proprio nelle prime righe, in cui, pur facendo appello all’«amico lettore», afferma che questo libro «l’ho scritto anzitutto per me, per narrare a me stesso le meraviglie che il Signore ha compiuto nella mia esistenza». Ed è questa l’impressione primaria che ho tratto dalla lettura di Una solitudine ospitale di Frédéric Vermorel1, nato in Francia nel 1958 e approdato quarantacinque anni dopo all’eremo di Sant’Ilarione, da lui restaurato, nella diocesi calabrese di Locri-Gerace, dove conduce una «vita semieremitica» intessuta di silenzio e solitudine, ma aperta agli ospiti, ai visitatori, al territorio, agli esseri viventi circostanti e al mondo.

Un’impressione resa ancora più forte dalla forma adottata da Vermorel, quella cioè di un montaggio non cronologico di brani tratti dal proprio diario (iniziato nel 1970) e intervallati da commenti e riflessioni al presente. E se il lettore incontra qualche difficoltà a «seguire il filo» di una vicenda spirituale ed esistenziale, che prende le mosse dalla comunità ecumenica di Taizé per toccare il Sahara di Charles de Foucauld, la comunità dell’Arca di Jean Vanier, la comunità monastica di Santa Maria delle Grazie a Rossano Calabro (un capitolo delicato e doloroso), il monastero benedettino di Goiás in Brasile, e ancora l’Istituto di Studi Teologici dei gesuiti a Bruxelles, il monastero di Marango a Caorle… appunto, l’effetto è quello di restituire quasi il meccanismo stesso della memoria, che a voltarsi indietro mostra contemporaneamente quadri e frammenti che si sovrappongono e s’intrecciano al presente, e vengono riletti e ricombinati, e si richiamano, si illuminano o sfumano in una progressiva oscurità.

Sono spesso colpito da quelle vicende nelle quali l’«itinerario alla ricerca di se stessi» va in parallelo a un viaggio reale, come se il proprio io autentico, ammesso che esista e che lo si riconosca, possa essere trovato solo in un luogo preciso. Oppure, per usare una formula più consona al libro, come se la «volontà di Dio» possa essere ravvisata alla fine di un pellegrinaggio geografico. Il suggerimento che viene dal testo di Vermorel è che forse più che attraverso una serie di luoghi (sull’«idolatria» dei quali l’autore infatti mette in guardia), il pellegrinaggio vada condotto attraverso una serie di incontri con gli altri, con l’«altro», cioè con Gesù. E di altri nel libro ce ne sono così tanti, così tanti…

In questo senso, in effetti, il libro di Vermorel racconta la storia di un continuo sradicamento: da luoghi, situazioni, affetti, amicizie, progetti, da tutto – a esclusione forse di una sola «cosa», cioè da se stessi.

Lo do sempre per scontato, ma credo sia giusto precisare che qui sto parlando di un libro che è stato pubblicato e che ho letto, e non di una persona, che non conosco e che non si sovrappone al libro che ha scritto. Dunque, al di là del complesso e privato criterio di scelta dei brani trascritti dai propri diari2, forse il merito maggiore del libro sta proprio nell’onestà e nel coraggio con i quali Vermorel si espone al lettore, ripercorrendo le proprie esperienze e mostrando il succedersi dei propri pensieri su se stesso e sul proprio cammino. E forse proprio in quella autodefinizione di «eremita contemporaneo» del sottotitolo si trova un indizio, là dove la ricerca di sé, ammesso che abbia ancora un senso, è comunque un percorso, ammesso che si ritenga necessario intraprenderlo, solitario pur in mezzo a una folla di amici, compagni di strada, guide e maestri, ammesso che esistano. La «nostalgia di comunità» che mi è sembrato di cogliere lungo tutto il testo si scontra in qualche misura con l’attaccamento a una «storia personale», che la contemporaneità inevitabilmente frantuma, attaccamento che forse rimane tale anche quando si accompagna – per non dire si nasconde – all’insistita domanda rivolta al Signore di illuminare e dare un segno della Sua volontà: «Cosa vuoi che io faccia, Signore?»

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  1. Frédéric Vermorel, Una solitudine ospitale. Diario di un eremita contemporaneo, prefazione di G.M. Bregantini, Edizioni Terra Santa 2021.
  2. Su questo aspetto è molto significativo il fatto che in uno dei momenti di maggior tensione spirituale, su richiesta di un consigliere spirituale della comunità di Rossano, Vermorel distrugga una serie di diari, «per obbedienza e [per] offrire un palese segno della mia disponibilità a perdonare e riprendere il cammino comunitario». Ne distrugge un po’, ma non tutti.

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«Monachesimo interiorizzato», di Antonella Lumini (pt. 1/2)

La solitudine che stiamo attraversando, o più precisamente il senso di solitudine e spersonalizzazione che secondo l’autrice stiamo provando con crescente intensità è un segno, profetico, della necessità che abbiamo di metterci in ascolto delle nostre profondità, per affrontare quella crisi che la situazione attuale, segnata dall’emergenza sanitaria, avrebbe reso dolorosamente palese a ognuno di noi. Una necessità, un’intenzione, una possibilità, un desiderio di ascolto che richiede, per cominciare, anche delle condizioni esteriori: la solitudine, appunto, e il silenzio. In questa prospettiva una strada è stata aperta secoli fa, una strada sulla quale possiamo rimetterci, fiduciosi nei confronti di chi ci ha preceduti: quella del deserto, cioè quella del monachesimo delle origini. Non un monachesimo eremitico tout court, tuttavia, e tantomeno cenobitico, bensì un monachesimo interiorizzato: «La svolta oggi necessaria spinge verso un monachesimo da vivere non più come fuga dal mondo, ma come possibilità di patire il mondo. Nuovo monachesimo sempre più interiorizzato, nascosto dentro i deserti delle nostre metropoli».

Tra gli altri aspetti di rilievo, il libro di Antonella Lumini1, nota per la sua esplorazione della pustinia (la vocazione al silenzio della tradizione ortodossa), si distingue per la chiarezza: alcune pagine sono più «ispirate» di altre, e il loro tono si fa quasi mistico, ma non vi sono mai oscurità, e anche le posizioni meno concilianti sono esposte senza ambiguità. La crisi del monachesimo tradizionale, ad esempio, è dichiarata senza mezzi termini e un cardine come la regola (derivata concettualmente dalla Legge) è posto irrimediabilmente in discussione: «Le chiese sono vuote, molti monasteri chiudono, ma una nuova spiritualità sta fiorendo a livello sotterraneo. La legalità è un problema che riguarda anche le Regole di conventi, congregazioni e monasteri in cui regni una visione ancora legalistica di Dio. Le regole sono basate sul dover-essere, sullo sforzo di volontà. È una visione del mondo che sta crollando». La trasformazione necessaria, l’unica in grado di aprire alla salvezza, secondo Lumini non può venire da strutture, ancorché rinnovate, o regolamenti, bensì dall’«incarnazione dell’amore», il cui orizzonte è quello della comunione, prim’ancora di quello della comunità. Se si volge lo sguardo alle origini, l’identificazione del vero monaco con il cenobita è impropria, la vocazione alla solitudine è originaria e connaturata al concetto di monaco e non va guardata con sospetto: «Se uno si mette in cammino al di fuori di una Regola», rivendica Lumini, evocando san Benedetto e i suoi commentatori, «non significa affatto che voglia fare “quello che desidera”. La vera obbedienza è allo Spirito, che parla nel silenzio e chiede assoluta abnegazione, kenosi».

Oltre a quella dei Padri del deserto, la strada sulla quale l’autrice invita a rimetterci (nella prima parte, per così dire, preparatoria del volume) è quella della tradizione cristiana orientale, con il suo ampio corredo di concetti e «strumenti» che possono aiutarci a ricollegarci con ciò che sta al fondo del nostro cuore: «la memoria della vita divina da cui proveniamo», la realtà occultata dalle immagini e dal rumore del mondo. Traendoli soprattutto dalla Filocalia, l’immenso deposito della sapienza psicologico-spirituale dei padri orientali, «troviamo termini diversi per descrivere la stessa esperienza», pratiche spesso già indicate dal pensiero greco, ma qui finalizzate alla trascendenza, «cristianizzate»: la nepsis (cioè la vigilanza, il raccoglimento, la custodia), l’apatia, l’esichia (la tranquillità, la pace interiore), la preghiera esicasta, il risveglio del senso interiore. «La letteratura patristica», sottolinea Lumini, «diventa nutrimento per lo spirito, favorisce una conoscenza autentica di Dio, non speculativa, ma esperienziale». Conoscenza esperienziale (aggettivo che comporta per me sempre qualche complicazione) cui sono dedicate la seconda e la terza parte del volume.

(1-segue)

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  1. Antonella Lumini, Monachesimo interiorizzato. Tempo di crisi, tempo di risveglio, Paoline 2021. Per una presentazione del volume, con ampia partecipazione dell’autrice, si può vedere qui, mentre per una testimonianza sulla sua vocazione si può leggere Antonella Lumini e Paolo Rodari, La custode del silenzio. «Io, Antonella, eremita di città», Einaudi 2016.

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Capanne, porcili, depositi, roulotte e pollai

Qualche anno fa ho scritto una nota su un libro dedicato agli eremiti contemporanei della cui superficialità mi rammarico ancora (il pezzo è rimasto dov’era, ovviamente). Da allora, credo soprattutto di aver capito quanto sia improprio unire strettamente la dimensione eremitica a quella dell’ascetismo penitenziale. È possibile che tale «errore» sia dovuto all’idealizzazione dei «fondatori» dell’eremitismo, i Padri del Deserto, coloro che ne avrebbero posto le vere coordinate: uomini (e donne) anzitutto di penitenza e poi di contemplazione. Ma non è detto che sia così, che la chiave dell’eremitismo sia l’espiazione, l’autopunizione per i propri peccati. Se cerco quindi di essere molto più cauto, non riesco tuttavia a non sentire una certa forma di sollievo nel desiderio di fuga dal mondo, e dagli altri, finalmente soddisfatto, non importa se all’interno di una stanza senza finestre o in una capanna ai margini di un bosco. È solo una mia proiezione?

Mi è capitato ancora leggendo il capitolo che, nel suo libro In praise of the Useless Life1, il monaco trappista Paul Quenon dedica ai famosi eremitaggi che circondavano l’Abbazia di Gethsemani nel Kentucky. E non soltanto al più famoso, il «bungalow» di Thomas Merton, del quale Quenon è diventato oggi il «custode», ma a tutti quelli dei molti monaci che negli anni Sessanta e Settanta diedero vita a quella che l’autore stesso chiama «la nostra età d’oro degli eremitaggi». «C’è qualcosa in certi posti che reclama la presenza di un eremitaggio, ben prima che un eremita si presenti alla ricerca di un luogo adatto», dice Quenon, osservando i boschi circostanti l’abbazia. La forma che questi rifugi presero, poi, dipese molto dalla personalità dei monaci che li edificarono.

Ad esempio quello di d. James Fox, abate di Gethsemani per vent’anni: una struttura seminascosta e sorprendente, in pietra, cemento e vetro, disegnata per lui dal cellerario (ex impiegato nello studio di Frank Lloyd Wright) come luogo dove deporre il peso delle responsabilità abbaziali (all’epoca delle sue dimissioni, nel 1968, Gethsemani ospitava oltre trecento monaci). La baracca di fr. Odilo, invece, era costruita con materiali di scarto: più che costruita, «messa assieme», senza un vero progetto, «stravagante e imprevedibile» come il suo abitante, definito dallo stesso Quenon «un solitario», e ricordato mentre attraversava la cucina del monastero sussurrando: «Sono solo di passaggio». Fr. Alan aveva riadattato un porcile, mentre fr. Hilarion aveva recuperato una roulotte usata; nella sua roulotte fr. Chrysogonus (Waddell) aveva trasportato un piccolo pianoforte e aveva trasformato la toilette in una libreria; poi era passato a una sistemazione più grande e l’aveva riempita di libri: «Teneva le finestre chiuse per evitare che l’umidità del Kentucky rovinasse i vecchi volumi. Quando cominciò a usare un computer, schermò tutte le finestre e l’ambiente diventò buio come una caverna, a eccezione di una piccola lampada sulla scrivania».

Fr. Rene costruì la sua «Arca» con gli avanzi dei pannelli di legno usati per realizzare le confezioni di formaggio vendute dall’abbazia; l’Arca, priva di acqua corrente e di elettricità, diventò in seguito l’eremitaggio di fr. Roman Ginn, «quanto di più simile a un Padre del Deserto ti potesse capitare d’incontrare»: ci passava tutta la settimana e soltanto la domenica faceva un salto al monastero, con i suoi due asini al seguito, per concelebrare la messa e per recuperare cibo e acqua. Fr. Matthew Kelty usò un prima un deposito di dinamite abbandonato, vicino a una cava, poi la casupola di un pozzo; mentre fr. Augustine prima si rinchiuse in una piccola stanza del monastero, chiamata «La casa dei 10.000 oggetti», poi passò in un pollaio dismesso. La galleria di personaggi è lunga, fitta di curiosità e bizzarrie, piena, credo di poterlo dire, anche di piccoli segnali di un conforto cercato nel contatto stretto con la natura e nella separazione dagli altri esseri umani.

«La stagione degli eremitaggi è finita», conclude Paul Quenon. «Come i funghi sono spuntati dalla terra e alla terra sono tornati… Oggi infatti ne sono rimasti due, che vengono usati solo di tanto in tanto.» Ma di eremiti ce ne saranno sempre nella Chiesa, aggiunge, e io provo una gran simpatia per questa particolare versione kentuckyana, che unisce al richiamo verso un più concentrato e profondo dialogo con Dio, attraverso la solitudine, una dose, anche non necessariamente consapevole, di asocialità, di anarchia e di spirito d’avventura.

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  1. Paul Quenon, o.c.s.o., In Praise of the Useless Life. A Monk’s Memoir, foreword by Pico Iyer, Ave Maria Press 2018.

 

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«Un eremo non è un guscio di lumaca»

Dopo le asprezze dell’«Eremita» precedente, e le mie chiusure nei suoi confronti, mi ha fatto bene leggere il resoconto di un’eremita di pasta completamente diversa qual è stata Adriana Zarri (come quando si parla con una persona della quale non si condividono le idee ma si capisce la lingua, e poi ci si pensa). Un eremo non è un guscio di lumaca raccoglie soprattutto i testi di Erba della mia erba, le lettere dall’eremo di Molinasso (dalle parti di Ivrea) già apparse in volume nel 1981, cui si aggiungono altri testi sparsi (tra l’edito e l’inedito) e poche pagine inedite, scritte a Cà Sàssino, ultima residenza, sempre presso Ivrea, dove la teologa e scrittrice è morta nel novembre del 2010. Mi ha fatto bene anzitutto perché mi ha indirettamente mostrato la stupidità di alcune considerazioni che ho svolto qui in passato, poi perché ho visto con chiarezza le qualità di una scelta solo in apparenza simile a quella dell’«Eremita» – d’altra parte, come ricorda l’autrice, «ciascun eremita fa regola a se stesso».

Mi pare infatti che la visione, e anche la teologia da quel che posso capire, che sta dietro la scelta eremitica di Adriana Zarri sia di segno quasi opposto: una scelta di piena adesione al mondo e alla comunità degli esseri umani, vissuta però nella solitudine, che è cosa ben diversa dall’isolamento: «Un eremo non è un guscio di lumaca, e io non mi ci sono rinchiusa; ho solo scelto di vivere la fraternità in solitudine. […] Non si sceglie la solitudine per la solitudine ma per la comunione, non per star soli ma per incontrarsi, in un modo diverso, con Dio e con gli uomini». La tentazione di considerare queste frasi alla stregua di un volteggio linguistico è forte, e tuttavia è l’esistenza stessa di chi le ha scritte che dà loro sostanza, la sua vicenda pubblica prima, durante e dopo gli anni del Molinasso. L’eremo di Adriana Zarri era certamente isolato ma aperto a tutti, ai contadini vicini, agli amici, agli ospiti occasionali, ai tanti animali (e anche ai malintenzionati, ahimè); era un luogo di preghiera, modellata in parte sulla liturgia delle ore, ma non di penitenza e macerazione; era un luogo di contemplazione, ma anche di lavoro (manuale e intellettuale). Un luogo dal quale il mondo non era cacciato fuori (tra l’altro radio, tv e giornali non sono mai stati esclusi), bensì accolto in una forma più intensa e concentrata, attraverso lo sprofondamento in una situazione radicalmente circoscritta: cascina, orto, stalla, cantina-cappella, bosco, freddo, caldo, pioggia, ieri, ora, la nuova stagione: «Io, comunque, sono qui».

Un «qui» che non esaurisce la nostra vicenda (e come potrebbe, per chi si disegna comunque in una prospettiva cristiana) e che tuttavia è già molto e non deve essere sperperato. La formula cui giunge la teologa è interessante: «Ci sarà, ci dovrà essere, vogliamo ancora che ci sia altro cammino e conquista e gioia; ma il futuro che resta da sperare non toglie che ormai il più ci è stato dato e ci sentiamo in una situazione di arrivo, di definitività. Io chiamo questo “definitività del provvisorio” perché la contingenza è già assunta a livello di assoluto». (L’eco sinistra, sociologica, che assume oggi questa formula forse sfuggiva alla teologa…)

Non sono certo di seguire fino in fondo questo discorso, anzi, ma, per tornare all’inizio, trovo comprensibile la lingua della credente Adriana Zarri, soprattutto nei pudori («è tanto più sano parlare di conigli piuttosto che, impudicamente, di nostro Signore che ci incontra»), nelle aperture («ora, se guardo l’orologio, vedo che è tempo di scendere. Forse pregherò fuori, anziché in cappella. Amo il tempio desacralizzato del mondo, proprio perché amo il mondo e lo trovo cattedrale degnissima di Dio»), nella rivalutazione dell’ordinarietà («un anonimato senza orpelli»), nell’abbraccio di tutti gli aspetti dell’esistenza, anche di quelli che si è scelto di non praticare.

Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi 2011.

[Aggiungo, come in nota, una curiosità, una di quelle associazioni che scattano involontariamente. «Se non esiste questa disposizione all’accoglienza universale, è poi difficile aprire una finestra per far entrare Dio. Tutto, invece, il nostro essere deve farsi finestra, apertura, accoglienza»: una frase che, per un forte utilizzatore del famoso sistema operativo, acquista uno strano sapore.]

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Scusi, perché no? («Introduzione alla orazione mistica», pt. 2)

(la prima parte è qui)

«Qui c’è appena qualche solco, ma ben dritto: al punto da costringere alla conversione o al rifiuto.» Così l’«eremita» introduce le sue riflessioni, suddividendole in due parti, una preparatoria e distruttiva – delle nostre illusioni, delle nostre abitudini, della nostra individualità –, una più propedeutica alla comunione con la divinità. Se sulla seconda parte mi è impossibile dire alcunché, dalla prima mi sento chiamato in causa, e ammetto una strana ambivalenza. Riconosco cioè come mia, da un lato, l’avversione per quello che si può definire «accomodamento» nel proprio sedicente io, o anche «compiacimento spirituale» (tutto il volume è percorso da una netta critica verso certi aspetti della religiosità corrente), ma, dall’altro, non ne condivido la durezza, soprattutto quando l’orizzonte sembra svuotarsi di altri individui, dei compagni di strada.

La scelta fondamentale, secondo l’«eremita», è la via purgativa, che ci conduce alla consapevolezza della nostra fragilità e «malattia»: bisogna aprire il proprio cuore, e poiché non siamo in grado di farlo agli altri, il «deserto» è l’occasione per aprirlo a noi stessi, e ancor più al Signore. Bisogna gettare la maschera, riconoscere il «veleno» che è in noi (il peccato originale) e «rinunciare a realizzare una nostra personalità egocentrica, secondo progetti istintivi e idolatrici» (che sono opera dei «demoni progettisti»). Ora, non credo sia cecità di fronte al male non condividere questa antropologia negativa. L’alternativa non è «piacersi», come sostiene l’autore. Non amo i miei difetti: li soffro e cerco di correggerli; non amo miei appetiti: li indago, li assecondo o li respingo; non amo le mie opinioni: a esse, in realtà, sono sempre meno attaccato. Di certo, talvolta indulgo – me le faccio passare – ma non per questo ripongo piena fiducia in me stesso, e non sento il bisogno di un’istanza superiore per percorrere questa strada, l’istanza che semmai mi soccorre sono gli altri, tutti «gli altri», anche se non cerco a oltranza la loro compagnia.

«La dimensione umana peccatrice», prosegue l’«eremita», «è una dimensione deliberata e permessa dal Padre celeste. Essa è costitutiva della nostra esistenza.» Credo di capire, ma no, mi è sufficiente il concetto di debolezza animale (mortalità, ecc.) per contemplare il mio nulla. Un nulla che si gioca tutto qui, in questi limiti concreti di spazio e di tempo, e del quale sconto già qui la pena.

Le parole dell’autore si fanno via via più severe a mano a mano che l’opera di purgazione prosegue, in una curiosa mescolanza di aspetti atemporali e contingenti («il mondo serve alla Misericordia Divina come osservatorio, per poterci assegnare il posto più adatto dopo la nostra morte» (sic), «generazione perversa e traditrice come la nostra», «quando facciamo assegnamento sulle creature umane, comincia per noi un pungente purgatorio», «saremo felici solo per le nostre sventure» e così via), tanto che mi è sorto il dubbio che costui abbia sofferto esperienze molto negative in mezzo agli esseri umani per esprimersi con tale immotivata durezza.

Sulla seconda parte, quella più precisamente dedicata all’«orazione mistica», come dicevo non mi pronuncio, sarei del tutto inopportuno. Mi soffermo soltanto su due frasi che mi hanno colpito. La prima è una domanda: «Il lettore che sia giunto fin qui potrebbe domandarsi: tutto ciò non sarà frutto di autosuggestione?» Niente affatto, risponde l’«eremita»: «Non può essere la nostra fantasia a fingere di trovarsi alla Presenza di Dio». Scusi, perché no? La seconda frase è posta a conclusione del percorso quasi indecifrabile dell’orazione mistica, la comunione con Gesù Cristo, il «fondamento dell’essere cristiano»: «Fuori di questo, credetelo, per noi c’è il lucido nulla». Ebbene sì, preferisco il lucido nulla, che in ogni caso per qualche decina d’anni mi avrà dato parecchio da fare.

Sono stato confuso, in questo tentativo di resoconto, lo so. Forse sono stato condizionato dal tono violento di queste pagine. Magari ci ritornerò. Per il momento, di fronte al bivio che l’autore poneva all’inizio, tra conversione e rifiuto, la mia scelta non può che essere il rifiuto.

(2-fine)

Un eremita, Introduzione alla orazione mistica, Effatà Editrice 2008.

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Marciume? («Introduzione alla orazione mistica», pt. 1)

Gli eremiti, come i malati, e talvolta i vecchi, hanno (o si prendono) spesso il privilegio di dire quello che pensano senza veli né rispetto per le convenzioni. È quindi con estremo interesse che li ascolto quando decidono di parlare, senza soffermarmi su quel pizzico di contraddizione insito nel fatto stesso di rivolgersi a qualcuno da parte di chi si è sottratto all’umano colloquio – d’altra parte gli individui comuni da millenni vanno a sollecitare risposte a chi si è ritirato nel deserto. Così sono salito volentieri sul ring di Introduzione alla orazione mistica di «Un eremita». Ed è stato un bel confronto, dal quale ho ricavato una profonda irritazione, un ottimo risultato!

Prima di addentrarmi nel volume (forse occorre una rilettura) credo sia meglio sfogare questo nervosismo – era molto che non scrivevo così tanti «no» sui margini di un libro. «Nei rapporti tra persone, la via dei ragionamenti non crea comunione, ma crea soltanto distanze»: dipende, e non è certo il presupposto con il quale si avvia un dialogo; «Egli trattiene momentaneamente la sua Grazia lasciandoci alle nostre sole forze, cosicché possiamo fare la deludente esperienza di ciò che valiamo davvero (poco)»: mai detto il contrario, di valere qualcosa, ed è una consapevolezza che nasce facilmente proprio dal confronto con gli altri; «Questa terra è stata destinata a recinto ove l’umanità potesse purificarsi»: come una mandria di bovini destinata al macello?; «Scopriamo di aver sepolto nel cuore marciumi dei quali non ci rendevamo più conto»: certo, le pulsioni, anche quelle che confessiamo a stento, ma perché marciumi?; «La nostra vera felicità interiore è nascosta in quello che Dio ci dà da soffrire nel momento presente»: no, nient’altro che no.

Al di là di queste affermazioni, che fanno comunque parte di un discorso argomentato, i miei no nascono soprattutto dal rifiuto dell’idea di lunga tradizione secondo la quale anche il discorso del non credente è inserito entro le coordinate del Disegno. Ne capisco la necessità, dal punto di vista della fede, ma molto semplicemente la rifiuto, ben consapevole che di vicolo cieco si tratta. Il fatto che la rifiuti, che la possa rifiutare, per un credente deriva dalla libertà che mi è concessa di non credere: «Ciascun membro dell’umanità rimane libero di rifiutare questa unione a Dio». No, per me oggi è ormai il contrario: ciascun membro dell’umanità rimane libero di credere alla possibilità di un’unione con un dio.

(la seconda parte è qui)

Un eremita, Introduzione alla orazione mistica, Effatà Editrice 2008.

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Corpi d’élite

Credere e obbedire, si è detto, ma anche combattere. Il «combattimento spirituale» è una delle attività fondamentali del monaco, sin dai tempi dei Padri del deserto, contro se stesso, contro il mondo, contro le distrazioni, contro le tentazioni, contro il serpente antico dell’Apocalisse. È un tema costante, che, a partire dalla medesima radice, ha conosciuto nei secoli declinazioni sempre rinnovate, ha ispirato pagine di grande potenza e che, ovviamente, non conosco nella sua interezza e complessità. Sono sempre colpito, tuttavia, dal fiorire ininterrotto di immagini militaresche nella letteratura monastica, e osservo con una punta di apprensione questo esercito di uomini e donne che camminano «armati» sulla via della perfezione, votati alla «santissima milizia».

Prima e dopo la complicata parentesi dei templari, e degli ordini cavallereschi, di questo esercito gli eremiti sono i soldati scelti, le forze speciali, i corpi d’élite. E consapevoli di esserlo, tanto che qualche volta lo hanno anche scritto, come nel Prologo del Libro della regola eremitica, uno dei testi fondativi della spiritualità camaldolese, redatto intorno al 1107. «Sebbene molte siano le forme di vita religiosa con le quali si serve l’unico Dio, si milita per l’unico re e si cerca l’unica vita […], è comunque cosa certa che, in particolare, la forma di vita solitaria tiene il primato. Questa, infatti, è la vita che vince il mondo, reprime la carne, sconfigge i demoni, cancella i peccati, tiene a freno i vizi e i desideri carnali che fanno guerra all’anima.»

L’eremita è la pattuglia in avanscoperta, è l’avanguardia, è l’ardito cui viene affidata la missione più pericolosa, è l’eroe capace di affrontare il rischio più alto, e lo fa, oltre che per un carisma particolare, in seguito a un addestramento specifico che lo prepara alle condizioni estreme, «come un soldato rivestito dell’armatura che, trovandosi, in mezzo alla guerra, prepara lo scudo contro i giavellotti». Non è per tutti l’eremo, come ricorda un altro testo camaldolese, le Costituzioni di Rodolfo, del 1080, non si può puntare direttamente alla vetta senza passare prima per le pendici. E bisogna guardarsi dal vestire una divisa di cui non si è in grado di portare il peso: «“Venire all’eremo, infatti, è somma perfezione, non vivere rettamente nell’eremo è somma dannazione”. Non ignoriamo, infatti, fratello, quale gran danno subisci se vieni detto eremita e non ne pratichi la vita. Se, infatti, vuoi [esserlo], adesso è il momento di combattere, di resistere, di trionfare

A voler insistere su questa analogia, la fondazione di Camaldoli, opera del grande Romualdo, rappresenta un caso esemplare. Oltre all’eremo vero proprio, cinque celle assegnate ad altrettanti fratelli, con la regola più semplice di tutte: digiunare, tacere e rimanere nella cella, Romualdo infatti fa costruire una chiesa presso l’ospizio di Fonte Buono, poco distante, che si trasforma poi in un cenobio «di appoggio» all’eremo. E compito di questo cenobio, come si legge sempre nelle Costituzioni, è anche quello di preparare «i fratelli che fossero giunti per vivere questa nostra vita: vale a dire che nel suddetto ospizio facessimo sì che i fratelli […] praticassero perfettamente l’osservanza regolare e il rigore secondo come comanda il beato Benedetto», prima di andare, «così istruiti» nell’ordine e nella disciplina, nei digiuni e in tutte le altre pratiche ascetiche, all’eremo. Cioè in prima linea.

Ed è interessante notare come il cenobio sia al tempo stesso campo di addestramento e retrovia: «E quando essi [gli eremiti], come succede spesso… cadono in qualche stato di debolezza o di malattia, vengano portati all’ospizio di Fonte Buono e con sollecita cura sia somministrato loro tutto ciò di cui i loro corpi hanno bisogno.» Un ospedale militare, in pratica, in cui rimettere insieme i feriti che tornano dal fronte, in modo che «quando si siano ristabiliti, facciano ritorno all’eremo». Cioè in trincea.

E se capita che muoiano mentre sono in convalescenza? «Qualora essi muoiano all’ospizio, i loro corpi siano portati all’eremo, perché siano seppelliti con gioia là dove con grande fervore essi hanno servito il Signore.»

Da: Privilegio d’amore. Fonti camaldolesi. Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie, a cura di Cecilia Falchini, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2007.

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