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Due comportamenti solo apparentemente contraddittori del grande Macario

Macario è uno dei Padri del deserto che mi sono più simpatici. Egiziano, contemporaneo di Antonio, di poche parole, talvolta dure, e di molti atti, anche assai dolci, con un passato di cammelliere, onorato da vivo e più ancora da morto, di sé diceva di non essere diventato monaco, ma di avere «semplicemente» visto dei monaci.

Puntò alla solitudine più assoluta nel deserto di Scete. Se ne stava nella sua grotta, dando un’occhiata qualche volta alla strada: «Ed ecco un giorno passare di lì Satana in forma di uomo: sembrava che indossasse una tunica di lino piena di buchi, e dai buchi sporgevano delle fiale». Dove vai? E cos’è quella roba? gli chiede Macario. «Vado a insinuare i pensieri nei fratelli», risponde Satana. «Porto ai fratelli le golosità», ne porto tante perché alla fine ce n’è almeno una che piace. Al ritorno, però, Satana è molto seccato perché tutti sono stati «sgarbati» con lui e l’hanno scacciato; tutti tranne uno, Teopempto, «lui mi dà retta e, quando mi vede, si contorce come il vento».

Appena il diavolo si allontana, Macario si alza e si affretta verso il monastero. Grandi feste, ma lui vuole essere portato subito da Teopempto. Si siede con lui e gli chiede: «”Come ti vanno le cose, fratello?”. Disse: “Bene, grazie alle tue preghiere”. “Non ti fanno guerra i pensieri?”. “No, finora sto bene”.» Teopempto si vergogna come un cane, ha paura di confessare, e allora Macario s’inventa di essere lui vittima dei pensieri: nonostante l’età, la fama e tutto quanto «sono turbato dallo spirito di fornicazione». Alla fine il giovane monaco si apre e Macario lo lascia confortato e attrezzato di buoni consigli.

Rientrato al suo eremo, qualche giorno dopo Macario rivede Satana che torna dal monastero. «”Come vanno i fratelli?”. “Male!”, disse [Satana]. “Perché?”. “Perché sono tutti sgarbati; e, quel ch’è peggio, anche quello che mi era amico e mi ubbidiva è cambiato non so come, e nemmeno lui mi dà più retta, anzi è diventato il più sgarbato di tutti».

D’altra parte Pietro racconta che un giorno Macario andò in visita da un anacoreta e, «trovatolo malato, gli chiese: “Che vuoi mangiare?”». Nella cella non c’era niente di niente, e quando l’anziano gli rispose «un pasticcino», Macario non esitò un istante e andò «a prenderlo fino ad Alessandria e lo portò al malato».

«E questo fatto meraviglioso rimase ignoto a tutti.»

Detti dei Padri del deserto, serie alfabetica, Macario l’Egiziano, 3, 8.

 

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«Sparsi nei deserti» (la «Storia dei monaci in Egitto»)

ConiPadrinel desertoHo già preso qualche appunto sulla Historia monachorum, in particolare sulla sua versione latina, di Rufino di Concordia – secondo alcuni autore, secondo altri traduttore di un originale greco – ma l’ho riletta volentieri sia perché è molto divertente, sia perché ne è testé uscita una nuova edizione per le benemerite Edizioni Scritti Monastici dell’Abbazia di Praglia, basata su quello che viene appunto considerato l’originale greco, di autore incerto.

Databile intorno al 400, è un vero e proprio reportage di un monaco di Gerusalemme che, insieme ad alcuni compagni, va a raccogliere notizie su gli «uomini perfetti» che si sono ritirati nei deserti dell’Egitto, e può essere assimilato ai grandi esempi della Storia lausiaca e della Storia dei monaci siri. Non è un documento storico, per quanto i particolari più minuti raccontino aspetti molto interessanti della quotidianità, non è un romanzo fantastico, per quanto sia bombo di senso del meraviglioso: è, come giustamente viene proposto, una «evocazione», di un clima spirituale, di uno slancio, di un’incarnazione della fede, concepita e scritta soprattutto come esortazione per tutti coloro che verranno e ai quali di quel clima non resterà altro che il racconto: sappiate che quegli uomini (e quelle donne, qui però assenti) sono esistiti.

E hanno compiuto prodigi.

«Ho visto, infatti, in Egitto», dice l’autore all’inizio del suo racconto, «molti padri che vivono una vita angelica, seguendo le orme del Signore nostro Salvatore e, come nuovi profeti, con la loro condotta ispirata, meravigliosa, virtuosa, dimostrano di possedere una potenza divina… Alcuni di loro non sanno che sulla terra c’è un altro mondo, che nelle città s’insinua la cattiveria… È possibile vederli, sparsi nei deserti, in attesa del Cristo, come figli legittimi aspettano il padre, come un esercito il proprio re, o come servi devoti il loro padrone e liberatore» (Prologo, 5-7).

È lo stesso autore che osserva come non basterebbe il tempo per raccontare tutte le manifestazioni della virtù somma di questi uomini: taciturni, pazienti, candidi, obbedienti, ospitali, servizievoli, altruisti, longevi, prevalentemente crudisti e grandi amici degli animali; come abba Teona che «di notte, così raccontavano, usciva dalla sua cella e si univa alle bestie selvatiche alle quali dava da bere l’acqua che aveva. Intorno alla sua casetta si potevano vedere orme di bufali, di onagri, di gazzelle e di altri animali la cui compagnia per lui era motivo di grande piacere» (VI, 4).

Mi piace molto quando, quasi inavvertitamente, si insinua nel racconto un minimo particolare che non rimandi all’ascesi e alla penitenza. In questo caso addirittura un «grande piacere», oppure un pisolino, come nel caso di abba Giovanni che, «prima di tutto restò in piedi per tre anni sotto una roccia, pregando incessantemente Dio, senza mai sedersi, senza dormire, a eccezione di qualche sonnellino che riusciva quasi a rubare in quella posizione» (XIII, 4): lo so, è un puro gioco intellettuale, ma io lo vedo l’anziano asceta che chiude gli occhi un momento, e la testa gli scivola di lato e si appoggia alla pietra…

O come nella storia dell’uva e del grande Macario, al quale «furono portati dei grappoli d’uva fresca. Egli volentieri l’avrebbe mangiata ma, per dimostrare di essere temperante, la mandò ad un fratello ammalato», il quale a sua volta la spedì a un altro, che, per carità, e via così: «Quell’uva, in conclusione, fece il giro di molti fratelli e nessuno la mangiò»; fece il giro completo del monastero perché tornò a Macario che «la riconobbe, fece delle indagini, e rimase stupito» (XXI, 14): bravi confratelli!

I nomi non sono estranei alla simpatia che provo per questi personaggi: abba Or, abba Bes, abba Surus, Amun e Pitirione, abba Dioscoro, Piammonas e Pafnuzio, che un giorno disse a un mercante: «Perché non vieni anche tu a godere del nostro nome, il nome di monaco?», e quello andò. E abba Patermuzio, per il quale il sole arrestò il suo corso «e non tramontò prima del suo arrivo nel villaggio [dove si stava recando a visitare discepoli ammalati]: tutti gli abitanti della zona videro bene il fenomeno». Tutti.

Con i Padri nel deserto (Storia dei monaci in Egitto), a cura di S. di Meglio, Edizioni Scritti monastici, Abbazia di Praglia, 2015 (con illustrazioni molto interessanti da un volume del 1625).

 

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Self-help by Evagrio

«Prego… la tua paternità di insegnarmi in che modo io debba combattere coloro che appartengono alle tenebre e prego insistentemente la tua santità di comporre un trattato chiaro, che mi spieghi tutta la malizia dei demoni, che di propria iniziativa intervengono sulla via del monachesimo, e di volermi inviare questo trattato perché senza fatica anche noi scacciamo via da noi i loro perfidi attacchi.» Così scrive un abba Lucio al grande Evagrio, il quale prontamente risponde (la corrispondenza si è conservata per una «felice circostanza»): avrei preferito di no ma, visto che me lo ordini, ti mando il mio trattato, magari lo correggi e lo completi, anche perché «ti confesso… che non ho finora ancora afferrato nella giusta maniera i pensieri demoniaci».

Il trattato è l’Antirrhetikos (da antírrhesis, «replica»), risale agli anni successivi al 390 ed è noto anche come Contro i pensieri malvagi. Come dice Gabriel Bunge, «è una delle opere più importanti del monaco pontico Evagrio e, con tutta evidenza, una delle più interessanti per dei monaci». Contiene 498 risposte – suddivise in base agli otto «pensieri», i progenitori dei sette peccati capitali – ad altrettante suggestioni demoniache: quando il monaco, soprattutto l’anacoreta, è assalito dalla tentazione, non sempre ha la risposta adatta sotto mano, ecco quindi un «arsenale» di rimedi pronti all’uso. Praticamente, un manuale di self-help.

Precedute da un breve e denso prologo sulla lotta contro i pensieri, tipica dei monaci che hanno abbandonato le cose materiali, consueto ricettacolo dei demoni per gli uomini mondani, le risposte sono citazioni bibliche (Antico e Nuovo Testamento), tra le cui fonti spiccano per frequenza il Deuteronomio, i Salmi, i Proverbi e le Lettere di san Paolo. Inevitabilmente, come suggerisce lo stesso Bunge, in quanto «lettore moderno» sono stato attratto, più che dalle risposte, dalle tentazioni, che consentono un eccezionale colpo d’occhio sulla psicologia, nonché su certi tratti concreti, del monachesimo primitivo.

Scorrendole, ci si imbatte nelle lusinghe della memoria («Contro il pensiero che ci ricorda le delizie di un tempo e ci fa venire in mente i vini dolci e le coppe tenute nelle nostre mani, quando eravamo ai banchetti e ci davamo al bere», I, 30) o negli avvertimenti del buon senso («Contro il pensiero che ci prospetta una brutta malattia per i danni provocati in noi dal digiuno e ci persuade a mangiare qualcosa di cotto», I, 59), in desideri comuni («Contro il demone che nella mia mente mi consiglia di unirmi a una donna e di diventare padre di famiglia e di non rimanere così combattuto dalla fame con pensieri di fornicazione», II, 49) o in comuni reazioni («Contro il pensiero di chi non sopporta il tocco del demone che si precipita tra i fianchi e da lì sotto si muove in essi, provocando l’incendio», II, 63), e ancora in paure generiche («A causa del demone che insinua nei miei pensieri la paura della follia e della perdita della ragione, insieme alla vergogna che ne verrebbe per me», IV, 43) o in scene quotidiane («Contro il pensiero che suscita la nostra ira verso il bestiame che non va avanti dritto per la strada», V, 18), e infine in situazioni passe-partout («Contro i pensieri di ogni sorta che sono generati dalla collera per questioni di vario tipo», V, 50) o specificatamente monastiche («Per l’anima che a causa dell’acedia si carica di pensieri che mandano in frantumi la speranza, facendole vedere che è molto dura la vita monastica e difficilmente un uomo la sopporta», VI, 14). Insomma, finirei per citarle tutte, perché adoro questi elenchi…

Scorrendole velocemente, passano come su uno schermo, con qualche aggiustamento dal IV al XXI secolo, tutti i pensieri di cui sarei portato a vergognarmi, e la schiera dei demoni che li suggerirebbe scompare, lasciando il posto alla cosiddetta natura umana, invidiosa, collerica, avida, vanagloriosa, smodata – un bel cataloghino. Evagrio mi ricorda che in fondo ogni sconfitta la devo a me stesso e ogni vittoria la devo al Signore – c’è un che di tragico nel considerare l’essere umano un campo di battaglia tra forze che lo oltrepassano: miliardi di campi di battaglia affiancati, che si sovrappongono, si toccano, sconfinano l’uno nell’altro, con il sangue del male che scorre dall’uno all’altro… Da parte mia, tenderei a puntare, contando sulle sole forze qui disponibili, allo scadere del tempo, a un dignitoso pareggio.

Evagrio Pontico, Contro i pensieri malvagi. Antirrhetikos, introduzione di G. Bunge, traduzione e note a cura di V. Lazzeri, Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2005.

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Un pezzo di mondo (Overbeck, pt. 2)

(la prima parte è qui)

«Al momento della sua nascita, il monachesimo percepisce profondamente – e a ragione – che il cristianesimo, in senso assoluto, era riuscito assai poco a realizzare ciò a cui esso, a partire dalla sua teoria, anelava con sempre maggior forza. Se però, deluso dall’umanità, spinge, dal canto suo, il vero cristiano fuori del mondo, nella solitudine, si capiscono facilmente i motivi per cui ora la rinuncia della mondanità del monachesimo presenti un tratto di cieca misantropia, che è senz’altro estraneo alla fuga dal mondo del cristianesimo primitivo.» Ecco il cuore della contraddizione che Overbeck rintraccia quando il numero degli individui attratti dal deserto cresce fino a diventare significativo. Non si può vivere nel mondo da cristiani, ma la scoperta che attende i primi monaci è forse ancor più terribile: non si può farlo nemmeno nella solitudine di eremi e celle. Seguire l’esempio di Cristo e dei suoi apostoli nel deserto è impossibile, venendo a mancare, per così dire, la «materia prima». Bloccato in questa empasse, osserva Overbeck, il monachesimo assume quel particolare «carattere malinconico, malato».

L’ascesi diventa battaglia, contro gli «spiriti malvagi», e contro sé stessi soprattutto e il proprio orgoglio. Una lotta spietata tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, che tuttavia inquina il secondo corno proprio con il senso del dovere, trasformando la stessa carità in ascesi: «Il monachesimo percepisce la ritrosia verso l’uomo, se non la misantropia, come inclinazione, l’amore umano come obbligo e solo come tale». Di fronte a questo esito lacerante, l’anacoretismo è dichiarato meta troppo elevata per l’essere umano e si prepara, secondo Overbeck, la transizione al cenobitismo.

Dapprima i monaci si riuniscono in «libere associazioni», in celle vicine e collegate, con spazi che consentono attività comuni e mutuo aiuto, poi con Pacomio (soldato, prima di diventare eremita) nasce il cenobio, l’abitazione comune, in cui lo spirito libero del deserto viene irreggimentato da uno strumento potentissimo: la regola. La quale regola non è semplicemente subordinazione del singolo alla comunità, per la creazione di un’entità più forte, bensì annientamento di «tutte le ostinazioni del monaco»; la quale regola rappresenta il germe della morte del monachesimo, cioè l’uccisione morale dell’individuo (e l’ultimo balzo di Overbeck lo porta al «cadavere vivente» dei gesuiti).

«Non possiamo avere dubbi», conclude il teologo, «sulla natura di questo fanatico annientamento dell’uomo. C’era un pezzo di mondo, che l’anacoreta aveva dovuto tollerare con sé anche nella solitudine più profonda e, per farlo, ha dovuto scontrarsi con tutto l’ideale anacoretico. Questo pezzo di mondo era lui stesso. Il cenobitismo rigidamente regolato vuole rimuovere questa pietra dello scandalo e ora comprendiamo perché l’obbedienza divenne la più sublime virtù monastica. Qui, nella follia dell’ascesi di obbedienza del monaco egizio, si ferma la nostra comprensione.»

È una lettura forse troppo astratta, questa di Overbeck (il quale tuttavia non dimentica il bene concretamente operato da generazioni di monaci), che però non credo possa essere ignorata, e cui non si può negare l’onestà di porre alcune questioni rilevanti e scomode, che si sono perpetuate nei secoli e alle quali forse sono stati i singoli individui a tentare una risposta, più che le diverse istituzioni.

(2-fine)

Franz Overbeck, Le origini del monachesimo, Edizioni Medusa 2006.

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In uno spazio relativamente angusto (Overbeck, pt. 1)

«Sono pochi gli eventi storici che, come il monachesimo cristiano, hanno avuto una forza così straordinaria e nello stesso tempo così soffocante, che abbiano conosciuto una spiritualità così alta e una decadenza così profonda, pochi, dunque, che hanno sperimentato tanto amore e tanto odio.» A scrivere così è Franz Overbeck in Le origini del monachesimo, una conferenza tenuta a Jena nel 1867. L’avevo «sistemato» nella casella «amico di Nietzsche», ma una nota in un altro libro mi ha additato l’opera di questo «teologo senza fede», nato a San Pietroburgo nel 1837 (da madre francese cattolica e padre tedesco luterano) e morto a Basilea nel 1905.

Interessantissima, proprio per il suo essere un tentativo di analisi storica e «razionale» e tuttavia scevra di intenti polemici dichiarati, cosa che non fu percepita dai contemporanei teologi che attaccarono, o ignorarono, Overbeck, e ancor più i suoi lavori successivi. D’altra parte, espressa in poche e limpide pagine, la tesi centrale è forte: nato dallo sforzo di preservare l’autenticità del cristianesimo delle origini, il monachesimo ha condotto fuori dal mondo il mito cristiano centrale, quello escatologico, estraniandolo dalla storia; si è poi avvitato nella contraddizione fino a perdere completamente la sua vitalità, a mano a mano che la rivolta degli anacoreti si trasformava nell’obbedienza dei cenobiti.

Gli spunti di estremo interesse sono molti, a partire dall’identificazione del legame originario tra monachesimo (anacoretismo) e martirio. Il monachesimo, infatti, «è un’autoaffermazione del cristianesimo in un momento storico in cui altrimenti rischia di essere divorato», e «poteva pensare di offrire un prodotto sostitutivo per un evento la cui possibile scomparsa causava, già nel III secolo, profonda preoccupazione». Con la cristianizzazione, puramente formale, dello Stato, con le conversioni di massa, i cristiani eredi delle prime comunità dovevano trovare una «nuova frontiera», la Chiesa stessa si preoccupava «di cercare il luogo dove… salvare ciò che ancora rimaneva dell’attitudine spirituale che le era propria e che desiderava mantenere». E quel luogo fu il deserto, dove vennero poste le basi e fatte tutte le esperienze di ciò che sarà per secoli il monachesimo.

Non un deserto qualsiasi, tra l’altro, bensì quello dell’Egitto, «il paese delle meraviglie profane», «la più ricca fucina di orpelli, accumulati qui da ogni dove, con i quali il paganesimo in declino si agghindava» (un armamentario periodicamente rinato e arrivato trionfalmente sino a noi). Qui erano le caratteristiche stesse del luogo a prestarsi particolarmente: «da nessun’altra parte, almeno nell’impero romano di allora, esisteva una natura che, favorendo con il suo clima una rinuncia totale, accostando in modo singolare, in uno spazio relativamente angusto, panorami di luoghi desolati e lussureggiante fertilità, fosse uno specchio migliore dei contrasti dai quali è scaturito lo spirito entusiastico del monachesimo».

E fu così che i cristiani, i più convinti tra loro, per inseguire Cristo e prepararsi al suo secondo avvento, abbandonarono il mondo. Forse, suggerisce Overbeck, per non farvi più ritorno.

(la seconda parte è qui)

Franz Overbeck, Le origini del monachesimo, Edizioni Medusa 2006.

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Per giunta

Ho letto un altro reportage sui Padri del deserto, quello del simpatico Rufino di Concordia (oggetto di «una doverosa, se pur tardiva, rivalutazione», dice il curatore). C’è molta discussione sulla reale paternità della Historia monachorum che gli viene accreditata, ma ovviamente il testo non perde di interesse per questo. Anche perché è uno dei rari casi in cui viene data notizia delle difficoltà incontrate per andare a intervistare quei «pazzoidi» chiusi in qualche grotta del deserto egiziano. Rufino, che fu in Egitto intorno al 374, riferisce infatti nell’epilogo «dei pericoli del viaggio verso gli eremi». (Nota pifferesca: le citazioni sono ritoccate su uno degli originali latini, visto che la versione italiana appare qua e là un po’ prodiga di «arricchimenti».) Ne fa proprio un elenco.

Che comincia con la «stanchezza mortale», e prosegue con la durezza del terreno, costellato di punte aguzze («umore salmastro» solidificato) che se mettono a dura prova i «buoni sandali», figuriamoci i nudos pedes. E poi le acque stagnanti del Nilo esondato, i predoni dal mare, il vento e infine «l’ottavo, il più grave», e cioè i coccodrilli (crocodili), sdraiati intorno a una pozza nell’ora più calda, perfettamente immobili. «Noi», dice Rufino, «non eravamo a conoscenza della loro maniera di fare [e] ci avvicinammo per vedere e ammirare la dimensione di quelle bestie che ritenevamo morte. Ma bastò lo scalpiccio dei nostri piedi perché esse lo avvertissero, balzassero su e ci venissero addosso.» Invocazione immediata al Signore: i coccodrilli si ributtano nello stagno e «noi ce la demmo a gambe, correndo verso il monastero»…

L’«intervista» più interessante è forse la prima, quella a Giovanni eremita (di Licopoli), di cui scrive anche Palladio nella sua Storia Lausiaca, riferendo le seguenti parole del sant’uomo: «Da quarantotto anni mi trovo in questa cella: non ho visto volto di donna, non immagine di moneta; non ho visto essere umano in atto di masticare; nessuno ha veduto me in atto di mangiare o di bere» (35, 13). Quando Rufino e i suoi compagni si presentano, Giovanni, ormai novantenne, si dichiara molto sorpreso che si siano dati pena di affrontare «un viaggio tanto faticoso» per incontrare proprio lui: «Siamo uomini come tutti gli altri, modesti, insignificanti, che nulla hanno in sé che possa essere desiderato o ammirato». Ma poi parla diffusamente, dilungandosi soprattutto sulle tentazioni, sulla distrazione dei pensieri, sulla tirannia delle passioni, sulla necessità di «svuotarsi» per far posto a Dio.

E infine racconta tre storie, di suoi «colleghi», la prima delle quali è fantastica e narra di un monaco, insuperbito dalla sua santità, che una sera riceve una visita «di una donna di splendido aspetto». È tardi, la giornata è stata dura, lei è molto stanca, teme le bestie feroci (non a torto…): «Consentimi di riposare in un angolino della tua cella». Il monaco, compassionevole, l’accoglie. Iniziano a parlare, com’è come non è, e «il veleno delle moine femminili frattanto prende il sopravvento». Adesso ridono, anche, e la donna «stende la mano a carezzare il mento e la barba veneranda del vecchio; procace, invece che in atteggiamento di venerazione!» E non si ferma, «tum vero palpare cervicem mollius, collumque levigare»…

È inutile tirarla per le lunghe, racconta Giovanni, «fatiche trascorse, propositi di santità, sono tutti dimenticati in un attimo». Siamo a un passo dagli «obscoenos complexus», ed ecco che «quella manda un grido enorme, con voce orrenda, [… e] si sottrae rapidamente all’amplesso di lui; che inseguiva vane parvenze con moti indegni; lo pianta lì in tronco e per giunta con scherno sgradevolissimo». Allora balza fuori la «truppa dei demoni» e si mette a sfotterlo, e il monaco perde la testa. Non si risolleverà più dal colpo; avrebbe dovuto piangere, pentirsi e riprendere a combattere, «ma non fu così»… e si lasciò andare.

Rufino di Concordia, Storia di monaci, a cura di G. Trettel, Città Nuova 1991.

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Quindici fichi secchi

Una delle più curiose (e divertenti) classificazioni degli anacoreti è quella che ci offre Teodoreto, vescovo di Cirro (vicino ad Aleppo) dal 423, nella sua Storia di monaci siri. È quasi inevitabile che a occhi moderni questi campioni di ascetismo del monachesimo primitivo sembrino delle macchiette, impegnati come sono in una specie di olimpiade della mortificazione. Tuttavia, è altrettanto inevitabile una strana fascinazione per questo rivolgere contro se stessi il disgusto del mondo (di un mondo concreto, di una società), e provare un brivido di fronte a questa feroce disciplina, a questo spietato masochismo ante litteram, per quanto probabilmente amplificati dall’apologetica. E colpisce come il «bersaglio», l’ossessione radicale, di questi individui, siano proprio quegli impulsi e bisogni che caratterizzano l’(animale) uomo.

Come nella coppia di opposti rappresentata dagli «ipetri» e dai «reclusi», che estremizzano il tema del riparo, della casa. I primi infatti scelgono di vivere all’aperto, sempre, con qualsiasi condizione climatica – come il «grande Giacomo» che, incurante di una forte nevicata durata tre giorni, «ne fu sepolto a tal punto che non si vedeva neppure un piccolo brandello dei cenci che lo ricoprivano» (e fu salvato soltanto da un gruppetto di spalatori); o come il «grande Eusebio» che, «giunto a vecchiaia così avanzata da aver perduto la maggior parte dei denti, non mutò né il nutrimento né la dimora; ma, gelato d’inverno e bruciato d’estate, sopportò con fermezza le avverse condizioni dell’aria e […] logorò il suo corpo con molte fatiche, tanto che la cintura non gli restava ai fianchi, ma gli cadeva a terra». I reclusi, da parte loro, se la prendono con la più normale delle «boccate d’aria» e, visto che tanto lì dobbiamo finire, si portano avanti e si seppelliscono vivi, come il «meraviglioso Zenone» che, da corriere imperiale qual era, si precipitò «in una tomba (la regione di Antiochia ne ha molte) e visse da solo per purificare la sua anima e tenerne costantemente terso lo sguardo. […] Perciò non ebbe un letto, né una lucerna, né un focolare, né una pentola, né un’ampolla, né una cassetta, né un libro, né alcuna altra cosa».

Oppure come nella coppia di simili rappresentata dagli «stiliti» e dagli «stazionari», che sopprimono il bisogno di muoversi. E se i famosi stiliti si piazzano su una colonna, per essere più vicini al Signore, gli stazionari scelgono la costante immobilità (magari con l’aggravio di qualche catena di ferro) – come il «meraviglioso Abramo, che domò il suo corpo con veglie, con lo stare in piedi e con digiuni tali che per moltissimo tempo rimase come immobile, non potendo affatto camminare».

Come si vede, la lotta contro il sonno e il cibo è data quasi per scontata. E a proposito di quest’ultimo si può trovare anche qualche indicazione concreta su cosa effettivamente mangiassero questi anacoreti per non morire di fame: «lattughe, cicorie, prezzemolo e altre erbe siffatte», «quindici fichi secchi» per sette settimane, «ceci e fave bagnate con acqua», «una libbra di pane [300 g ca.] divisa in quattro parti e distribuita in quattro giorni», ecc. Una dieta, tra l’altro, che procurava un sacco di problemi intestinali, anche gravi, il cui «sollievo» cozzava ad esempio con l’imperativo di non muoversi mai…

Questi uomini e queste donne («ritengo utile ricordare che anche le donne hanno lottato non meno, anzi di più»), ci ricorda Teodoreto, «indussero il corpo a far pace con l’anima», furono campioni nella lotta contro il demonio, chiudendo gli occhi, le orecchie e la bocca, negando la fame e la «dolce tirannide del sonno (e in quel dolce Teodoreto si tradisce…), abolendo il riso e scegliendo «la durezza del suolo».

Cioè non essendo uomini e donne.

Teodoreto di Cirro, Storia di monaci siri, Città Nuova 1995.

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