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Inter nos

I saggi densi e dotti, e un po’ accidentati, di Guido Cariboni sui cistercensi dei secoli XII e XIII1 hanno suscitato di nuovo in me alcune considerazioni, un po’ naïf e confuse, che rimandano al sottotitolo di questi appunti, quegli «occhi laici sul pianeta monaci» che, con altra accuratezza, sono poi lo sguardo che gli storici depongono sul monachesimo, osservandolo come «fatto» in mezzo ad altri «fatti». E già qui si potrebbe discutere sulla legittimità, o quanto meno sulla significatività, di tale sguardo quando prescinde dal «contenuto» religioso. A questa domanda rispondo nel modo seguente. Meno male che ci sono gli storici! Che proprio in virtù di quell’«in mezzo» studiano e ricostruiscono il fenomeno del monachesimo in rapporto agli altri fenomeni, giacché tale rapporto è sempre esistito, in forme più o meno estese e intense (con la parziale eccezione forse dei certosini); al lettore laico non professionista, invece e d’altra parte, è consentito avvicinarsi al monachesimo come se fosse un fenomeno per certi versi astorico e imprescindibile dal contenuto di fede.

E poi. Le vicende istituzionali dei cistercensi dimostrerebbero ancora che, per semplificare, la quantità uccide la qualità. L’estensione numerica e territoriale dell’Ordine porta infatti tensioni, allontanamenti dall’ideale, impulsi ricorrenti di riforma e di «ritorno alle origini» (e anche qui non può non venire in mente il detto certosino: «Cartusia numquam reformata quia umquam deformata» – bella forza, potrebbe persino pensare il cluniacense spazientito, siete quattro gatti). Dunque nella realizzazione pratica dell’aspirazione a Dio, di una forma di vita ispirata alla carità, esiste un punto di equilibrio che starebbe tra il singolo (l’eremita, perennemente esposto alle illusioni) e la massa, che porta con sé inevitabilmente deformazioni, divisioni e conflitti? Forse non soltanto nell’aspirazione a Dio, ma nella vita in comune in generale? Il piccolo gruppo, i cui membri si scelgono liberamente, essendo l’unica via possibile? La chiave del suo «funzionamento» essendo l’accordo delle volontà che può nascere solo dall’esiguità della compagine (l’unanimitas che era uno dei cardini dell’ideale cistercense)? Si può estendere questo concetto, e come, quando si è in tanti? C’è qui una lezione sul numero? (E già, arriva lui, dopo secoli di pensiero politico al riguardo…)

E quale può essere il rapporto tra piccoli gruppi? O tra il piccolo gruppo e il «grande gruppo»? Mi ha sempre colpito rispetto a ciò il trattamento della segretezza presso i cistercensi delle origini: come era percepita e come la vivevano loro stessi (in questo sovente aiutati dalla collocazione reclusa dei loro «nuovi monasteri»). Scrive ad esempio nella prima metà del XII secolo il cistercense Idungo, nel suo Dialogo di due monaci, rivolgendosi a un «collega» cluniacense: «L’elezione e la deposizione degli abati del vostro ordine, insieme ad alcune cause ancor più difficili, sono trattate dai vescovi, quasi in pubblico, contro il decoro della religione monastica; presso di noi, invece, questi problemi sono risolti tra di noi e da noi di nascosto [apud nos, inter nos, et a nobis in secreto], con convenienza per l’ordine». Sembra quasi che Idungo stia evocando gli arcana imperii… E d’altra parte, Oderico Vitale nella sua Storia ecclesiastica, completata sempre nella prima metà del XII secolo, scrive: «[I cistercensi] serrano le loro porte e nascondono i loro luoghi appartati con massima cura [secreta sua summopere celant]. Non ammettono nei loro penetrali un monaco di un’altra chiesa, né gli permettono di entrare con loro nel luogo della preghiera per la messa o per altri servizi liturgici». Ma quali tratti può avere, oggi, un’idea, se non un’applicazione, «sana» della segretezza?

La storia dei cistercensi, soprattutto nei primi secoli di vita dell’Ordine, e in particolare dopo la morte di Bernardo, è quasi un laboratorio in cui si può osservare con estremo interesse, tra le altre cose, il rapporto di tensione – quasi istantanea, verrebbe da dire – che si crea tra ideali e realtà, e anche tra legge e prassi. Come dimostrano con attenzione minuziosa i saggi di Guidi Cariboni, di almeno uno dei quali proverò a dare conto in seguito.

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  1. Guido Cariboni, Il nostro ordine è la Carità. Cistercensi nei secoli XII e XIII, Vita e Pensiero 2011.

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Meteoriti provenienti da regioni lontane dello spazio

Uno è lì, bello tranquillo (per modo di dire), che si legge la sua bella introduzione all’opera di un frate cappuccino inglese di fine ’500 – introduzione di gran pregio, che rispetta il canone di: cenni biografici sull’autore, tempi di composizione dell’opera, suoi temi principali e fonti, ricezione e fortuna – ed ecco che arriva il colpo a sorpresa. Si chiede infatti l’insigne studioso, estensore dell’introduzione: «Che senso ha, oggi, riprendere in mano e leggere la Règle de Perfection?». Già, perché si tratta della Regola di perfezione di Benedetto da Canfield (stampata nel 1610), ottimamente curata da Marco Vannini nel 2022 per le Edizioni Biblioteca Francescana – e forse potrei chiedermelo anch’io, perché leggerla, oggi…

Di questo «capolavoro che diede forma a tutta la mistica del XVII secolo» proverò a dire qualcosa più in là; per intanto mi preme generalizzare quella domanda: non è forse quello che mi chiedo ogni volta che prendo in mano uno dei «miei» libri di monaci? Continua il Vannini: «È stato infatti più volte autorevolmente notato come la letteratura mistica del Seicento, in specie quello francese, sia per noi oggi una sorta di meteorite proveniente da regioni lontane dello spazio […]. Ciò vale indubbiamente anche per la Régle de Perfection, un genere letterario che ci sembra appartenere a un altro mondo». Non posso forse, in qualche misura, sostituire alla «letteratura mistica del Seicento» i detti dei Padri del deserto, o i sermoni di san Bernardo, o le costituzioni certosine? E i motivi addotti dallo studioso – concetti desueti (come suona alle nostre orecchie la perfezione?), linguaggio astruso, spiritualità ignota agli uomini e alle donne di oggi, eccesso di citazioni bibliche – non possono essere estesi con qualche aggiustamento a molti testi monastici, medioevali e non solo? Non è il caso quindi di lasciare che su tali testi si depositi la polvere del passato e dell’erudizione?

«Ma noi pensiamo che non sia affatto così», afferma con vigore il Vannini. «Crediamo, anzi, che la lettura della Régle de Perfection [di questi testi, aggiungo io] sia di grandissimo interesse esistenziale». È sufficiente aggiornare il lessico, «ovvero dire con un linguaggio oggi comprensibile il significato reale, profondo, del libro. […] Occorre leggere la Régle non come un testo teologico, ma psicologico, relativo alla conoscenza dell’anima».

Che sia uno studioso come il Vannini a fare affermazioni del genere mi conforta molto, se penso alla strada che si tenta in queste note. Per alcuni, con ogni probabilità, non si potrà prescindere completamente dal contenuto teologico di questi testi (e in fondo non lo fa nemmeno il Vannini), ma quella prospettiva può rappresentare il terreno d’incontro fra, per semplificare, chi crede e chi non crede, l’unico che mi riesce di individuare e che mi piacerebbe fosse rivendicato anche dalla «laicità». Non piace «conoscenza dell’anima»? Benissimo cambiamo: psiche, interiorità? Eh, ma non è la stessa cosa… Va bene, parliamone: sull’«anima» troveremo un compromesso, ma intanto restiamo intesi sulla «conoscenza» della cosa, no?

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«Prego, accomodaTi»

Una delle immagini più ricorrenti nel mio tentativo di comprensione di cosa significhi «essere monaci» è quella di «fare spazio», essendo uno degli obiettivi e degli esiti della scelta di vita di monaci e monache la liberazione di uno spazio interiore in cui accogliere la presenza ininterrotta di Dio e restaurare l’«intimità» con Lui. Liberazione ottenuta mediante una serie di «accorgimenti» esteriori, simboleggiati dal monastero e riassumibili nella Regola e nelle sue molteplici declinazioni, ma soprattutto grazie a una «manovra interiore» che metta da parte le vanità mondane e le realtà transitorie e ponga un limite all’ipertrofia dell’Ego. Senza dimenticare come tale limitazione consenta anche una più pulita accoglienza e un più trasparente ascolto degli altri, e non soltanto dell’Altro.

Ho incontrato più che frequentemente negli scritti monastici (dall’articolo alla Costituzione apostolica, dal IV al XXI secolo) questa idea di «fare spazio», che presuppone quindi un precedente «ingombro» (come di ripostiglio invaso da inutili cianfrusaglie); lo si potrebbe definire un leitmotiv, esemplificabile con una citazione, una per tutte, pescata volutamente a caso: «Allora, in parole povere, cosa “fa” il monaco per gli altri? Il monaco fa spazio a Dio. È dunque un individualista? No: proprio così (solo così) può fare spazio agli altri. Proprio nel vivere dell’essenziale egli trova anche la profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo: sotto lo sguardo della Verità scopre sé stesso e ogni uomo come oggetto di uno sguardo di compassione, di una misericordia immeritata. Porre al centro Dio significa decentrare da sé e accorgersi finalmente dell’altro» (da un articolo della monaca trappista Irene Canepa). E come non ricordare anche che «il silenzio è vuoto di sé stessi per fare spazio all’accoglienza; nel rumore interiore non si può ricevere niente e nessuno. La vostra vita integralmente contemplativa richiede “tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare” Dio e il grido dell’umanità» (Francesco, Vultum Dei quaerere, 33).

E allora, con la massima cautela, e con l’incoscienza, del dilettante, si può provare a tirare un filo con un altro concetto nel quale mi sono imbattuto più volte nelle mie limitatissime letture di mistica e di cabbalà ebraica e che trovo sommamente «pensierogeno»: quello di tzimtzum, cioè la «contrazione di Dio in sé stesso [che] ha lo scopo di liberare uno spazio mistico primordiale nel quale egli ritorna poi attraverso la creazione». È Dio per primo, con un «gesto» misteriosissimo di «autolimitazione», a «fare spazio» affinché il mondo, e tutto il resto, sia. E, come mi insegna ulteriormente l’introduzione di Daniela Leoni alla formidabile raccolta delle omelie di Kalonymus Shapira1, lo tzimtzum «non è un evento realizzatosi una volta sola all’inizio della creazione, ma rappresenta la modalità attraverso la quale Dio si rapporta ogni giorno con la realtà».

Non solo. Nella prospettiva di rabbi Shapira «ogni uomo, per entrare in comunione con Dio – o meglio, per lasciare che il Dio infinito entri in comunione con lui – deve compiere in sé stesso lo tzimtzum, imitando quella auto-limitazione del sé che ha Dio come modello esemplare». L’annullamento dell’Ego (la nullificazione dell’egocentrismo «tanto importante come strumento mistico del pensiero chassidico») è l’«abito fondamentale di cui l’uomo deve rivestirsi per poter accedere all’adesione totale del proprio essere al Creatore (devequt), nel quale solo è possibile trovare il senso della propria esistenza»2.

Ma sta parlando un chassid o, per dire, un Padre del deserto, o un certosino? Se vogliamo, poi, e senza avventurarsi in questioni che non sono all’altezza di affrontare, «fare spazio» è una manovra sempre consigliabile, no? Fare spazio nelle conversazioni, alle cose interessanti, alle confidenze, nel traffico, sull’autobus…

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  1. Kalonymus Shapira, Nuovi responsi di Torà dagli anni dell’ira, introduzione di D. Leoni, traduzione e note di L. Cattani, Giuntina 2023.
  2. Aggiunge Adin Steinsaltz: «È possibile asserire che l’egocentrismo è, di fatto, una perdita dell’anima. I nostri maestri dicono: “Chiunque abbia in sé uno spirito rozzo – disse il Santo, benedetto Egli sia – Io e lui non possiamo coabitare nel mondo”, difatti l’io di un uomo del genere riempie tutta la realtà e non vi lascia spazio nemmeno per il Santo, benedetto Egli sia, e a maggior ragione per gli altri» (L’anima, traduzione di A.L. Callow e C. Nicolini Coen, Giuntina 2018, p. 91).

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San Bernardo celo, Isacco della Stella manca

Il mio «interesse per le cose monastiche», credo di averlo già detto, è fatto anche di aspetti leggeri, molto leggeri, sui quali fantastico spesso, fiducioso che non si tratti di mancanza di rispetto, di ostinata secolarizzazione, ma, in fondo, di affettuosa adesione, di semplice gioco. E anche in qualche misura desiderio che queste «cose» conoscano più ampia diffusione.

Alcuni di tali aspetti non sono, forse, così leggeri, come ad esempio il sogno di una libreria superspecializzata in cui si trovi tutto quanto è stato pubblicato sul monachesimo, e nient’altro: scaffali e scaffali di volumi ordinati cronologicamente per ordine: il che produrrebbe, tra l’altro, un fantastico «ordine3», un ordine al cubo. Poi, naturalmente, ci vorrebbe una rivista, anch’essa specializzata, ma non di quelle, serie e bellissime, che già esistono, bensì un periodico di larga divulgazione, e non soltanto quei frequenti «speciali» (Scopri come viveva un monaco del Medioevo, aut similia, che dicono un po’ sempre le stesse cose): no, un bel mensile – chessò, «Famiglie monastiche», «Chiostri» – con tutte le sue belle rubriche.

Poi un supermercato di prodotti monastici! Ce n’è più d’uno online, benissimo, ma io m’immagino un iper di quelli che si vedono dalle tangenziali, con una grande insegna luminosa nella nebbia – MONKS & NUNS –, un comodo parcheggio, reparti ben segnalati e una caffetteria dove gustare il caffè leggero delle monache e sgranocchiare i mandorlati rosa e verdognoli che piacevano tanto al Principe di Salina (glisso sul relativo catalogo cartaceo dello store che conservo gelosamente). «Offerta lampo! 500 g di lavanda di Senanque al -30%». Va da sé che andrebbero previsti anche dei punti vendita più piccoli, più local, come vanno ora di moda, ma ugualmente ben forniti – «Padre, mi scusi, dove trovo la Chartreuse?», «Oh, mi spiace, purtroppo siamo rimasti senza; l’abbiamo già riordinata, ma sa, i certosini hanno i loro tempi…», «… che noi senz’altro rispettiamo»; «Scusi, sorella, è arrivato il miele millefiori di Finalpia?», «Oh sì! Giusto ieri, ed è buonissimo! Lo trova in fondo al secondo corridoio sulla destra».

Poi la Lego potrebbe mettere sul mercato un bel «Kit Mont-Saint-Michel»; e tutte le case produttrici di modellini dovrebbero fare altrettanto (in realtà c’è qualcosa del genere). Birre, caramelle, tisane e saponette ci sono già, quindi magari mazzi di carte, cancelleria, sticker e infinite emissioni filateliche (lo so, sono tutte cose un po’ novecentesche), e potrei andare avanti; il tutto però senza quella sottile distorsione del senso che si avverte nelle innumerevoli e stucchevoli raccolte di «Relaxing Gregorian». No, bisognerebbe che non si perdesse mai la profonda serietà di una scelta di vita e al tempo stesso si riuscisse a declinarla con l’ironia. Non so, questo è un punto delicato, tanto che talvolta comincio a diffidare della cosiddetta «chiave ironica» che tutte le porte dovrebbe aprire, ma adesso non è il momento…

Il culmine infine sarebbe raggiunto se un mattino, andando in edicola, trovassi l’annuncio di una nuova raccolta a fascicoli: «Monache e monaci. Scopri la vita di chi ha scelto il silenzio del chiostro. Prima uscita la figurina “Abate benedettino” e i primi tre pezzi per realizzare un vero chiostro in miniatura. Solo 1,99€». O forse, meglio ancora, se mi accorgessi che un editore illuminato ha appena lanciato l’Album delle figurine dei monaci: lo comincerei all’istante, dieci bustine per favore, grazie, anche a costo di ritrovarmi con sette san Bernardi e neanche un Isacco della Stella, che, lo si capirebbe subito, è rarissimo.

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La tecnica del nuoto (Dice il monaco, LXXXVI)

Uno degli ostacoli per me insormontabili in questo «tentativo di comprensione» è ben rappresentato da una frase che traggo dall’interessante e sapiente libretto che il camaldolese Vincenzo Bonato ha intestato a una Introduzione al monachesimo1, sotto forma di lettera a un giovane che da esso monachesimo si senta in varia misura attratto (testo cui credo dedicherò qualche altra nota). Passando in rassegna i sentimenti e gli atteggiamenti2 che caratterizzerebbero la «nostra relazione con Dio», e senza nasconderne, appunto, la «difficoltà», il monaco afferma: «L’abbandono in Dio è, forse, il sentimento più difficile da conseguire ma è anche l’unico che, liberandoci dal logoramento delle preoccupazioni, ci può infondere pace. Ciò che egli vuole è necessario che accada, mentre ciò che egli non vuole è impossibile che si realizzi». Be’, certo, commento a margine con una timida matita…

Assai opportunamente, p. Bonato accenna poco dopo alle conoscenze scientifiche che ci hanno reso consapevoli della vastità dell’universo e della nostra conseguente nullità, e al fatto che senza l’amore di Dio «saremmo proprio un niente». Quindi, «abbandonandolo, contando solo su noi stessi o addirittura vivendo sottomessi al nostro ego, corriamo il rischio di diventare realmente un nulla, divorati dal rimpianto». Ecco l’ostacolo insormontabile, per il quale accetto senz’altro l’accusa di superbia, se superbia è e non realismo, e questa è la «correzione» che per onestà propongo: non essendoci altro, dovendo contare solo su noi stessi e cercando di tenere a bada il nostro ego, riconosciamo di essere realmente un nulla, facendo il possibile con gli altri per non essere divorati dal rimpianto (e da altre cose). È poco, è qualcosa, è solo un gioco di parole? Non lo so.

A commento della difficoltà di concepire la bontà di Dio anche quando ci manda le (siamo preda delle) tribolazioni e inevitabilemente pecchiamo (sbagliamo) p. Bonato cita un efficace insegnamento spirituale di Doroteo di Gaza (ancora Gaza), e quindi:

Dice Doroteo di Gaza, monaco, agli inizi del secolo VI:

Siamo noi a non avere pazienza, a non voler fare un po’ di fatica, a non accettare di accogliere qualunque cosa con umiltà; per questo siamo fatti a pezzi [!] e, quanto più cerchiamo di sfuggire alle tentazioni, tanto più ne sentiamo il peso, ci scoraggiamo e non riusciamo a liberarcene. Ci sono alcuni che per necessità devono nuotare nel mare; se conoscono la tecnica del nuoto, quando giunge l’onda contro di loro, si curvano e si immergono finché essa passa, e così poi continuano a nuotare indenni. Se invece vogliono resistere all’onda, ne sono respinti e rigettati a una grande distanza. Come ricominiciano a nuotare, arriva su di loro un’altra onda; se di nuovo oppongono resistenza, di nuovo essa li respinge e li getta fuori, di nuovo vengono fiaccati senza concludere nulla. Se invece, come ho detto, si curvano sotto l’onda e si umiliano sotto di essa, questa passa oltre senza far loro del male ed essi continuano a nuotare quanto vogliono e a fare il loro lavoro. Così accade anche nelle tentazioni; se uno sopporta la tentazione con pazienza e umiltà, essa passa oltre senza fargli del male; se invece continua a tormentarsi, a lasciarsi turbare e a incolpare tutti, punisce se stesso, si rende più pesante la tentazione e non ne riceve profitto, ma anzi ne riceve danno3.

Forse, tuttavia, tra male vero e proprio e tentazione vi è una certa differenza…

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  1. Vincenzo Bonato, Introduzione al monachesimo, Nerbini 2021 («Orizzonti monastici»; 46).
  2. E lasciamola qui una «provocazione», che, espressa sottovoce e senza alcuna pretesa di sapienza, può anche non guastare: e se il futuro del cristianesimo fosse quello di una metamorfosi da fede in atteggiamento (complesso di atteggiamenti)?
  3. Doroteo di Gaza, Insegnamento XIII. Sopportare le tentazioni senza turbarsi e rendendo grazie, in Comunione con Dio e con gli uomini. Vita di abba Dositeo, Insegnamenti spirituali, Lettere e Detti, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2014, p. 209. (Vincenzo Bonato dà un’altra traduzione, in cui, tra l’altro, curiosamente, «la tecnica del nuoto» diventa «l’arte del tuffo».)

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Memoria, docilità e solerzia (la prudenza di Josef Pieper)

PieperPrudenzaUna piccola deviazione dal percorso strettamente monastico mi ha portato a leggere il breve trattato che il filosofo e teologo tedesco Josef Pieper (1904-1997) ha dedicato alla prudenza, pubblicandolo nel 1936, per così dire, nel cuore della Germania hitleriana1. Il testo mi ha colpito molto e, seppur fondato principalmente sul, e intriso del, pensiero di san Tommaso, mi è parso assai utile e meritevole di qualche appunto più rischioso del solito.

«Non vi è frase nella morale classica cristiana», esordisce Pieper, «che suoni così poco familiare all’orecchio dell’uomo di oggi, anche del cristiano, e che gli appaia anzi così strana e singolare quanto questa: che la virtù della prudenza è la “genitrice” e la forma base di tutte le altre virtù cardinali, della giustizia, della fortezza e della temperanza… e che l’uomo buono sia tale in virtù della sua prudenza.»

Tenendomi prudentemente (ecco) lontano dalle complicazioni immani della giustizia contemporanea, dai travisamenti della fortezza (nell’arco costituzionale che va dalla resilienza all’immotivata tenacia) e dai travestimenti minimal della temperanza, si può forse dire che proprio la prudenza susciti il maggior sospetto, o almeno che non le sia stata ancora affibbiata un’accettabile maschera postmoderna.

Quale interessante sorpresa è stata dunque trovarsi d’accordo con alcune osservazioni di un filosofo tomista, quando dice, ad esempio, che la prudenza riguarda le vie per raggiungere i fini ultimi – «naturali e soprannaturali» – della vita umana, e non i fini medesimi (intorno ai quali non mi avventuro di certo), e ancor più quando afferma che «la decisione prudente si basa sulla preesistenza di conoscenze vere». Potente antidoto della precipitazione e dell’irresolutezza (e di determinazioni ben peggiori), la prudenza nel suo compimento si basa secondo Pieper su tre premesse, che difficilmente potrei trovare più condivisibili.

Anzitutto la memoria, che è soprattutto fedeltà alla realtà, custodia delle cose e degli avvenimenti «come realmente sono e sono stati»: «La falsificazione del ricordo, contraria alla realtà, attuata dal “sì” o dal “no” del volere, è la rovina vera e propria della memoria». Non può forse essere un comandamento laico? Come non riconoscere la costante minaccia della falsificazione, a partire dalla propria stessa memoria individuale? «E la gravità del pericolo», aggiunge Pieper, «sta proprio nella sua impercettibilità. In nessun altro settore un interesse inconfessato e incontrollabile può inserirsi come qui attraverso deformazioni, ritocchi, omissioni, coloriture, spostamenti d’accento.»

In secondo luogo la docilità. Altra sorpresa, forse, a meno di non intenderla, come suggerisce Pieper, come «rinuncia a fuggire nell’assurda autarchia di un sapere presunto». Imparare, quindi, e di buon grado, ad ascoltare, a farsi consigliare e riconoscere di non potersi bastare in tutto. E sempre in nome della fedeltà al reale, rifuggire dagli estremi opposti: «Incapacità di apprendere e saccenteria [dalla quale deriva l’esecrabile astuzia, la vera falsa prudenza] sono in fin dei conti forme di resistenza contro la verità delle cose reali».

Infine, la solerzia, che non è né mancanza di carattere, né cieca obbedienza, bensì la virtù della «obiettività nell’inaspettato», la prontezza nel decidere per il bene di fronte all’imprevisto, senza cedere all’ingiustizia, alla viltà e all’intemperanza.

La trattazione di Pieper non si esaurisce in questo, che tuttavia mi pare un gran programma di adesione al passato e al presente, a dati di fatto che sono «così e non diversamente», onde poter vagliare quanto è ancora da realizzare. «Fedeltà di memoria, capacità d’istruirsi, chiara obiettività nell’inatteso», conclude Pieper questa parte del suo trattato, «sono queste le virtù del prudente, considerate sotto l’aspetto conoscitivo»: come non sforzarsi di perseguirle con pazienza e applicazione, visto che noi sulla grazia riteniamo di non poterci contare…?

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  1. Josef Pieper, La prudenza, prefazione di G. Santambrogio, traduzione di G. Pezzuto, Morcelliana-Massimo 1999.

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«Monachesimo interiorizzato», di Antonella Lumini (pt. 2/2)

(la prima parte è qui)

Non è certo mia intenzione «confutare» la seconda, densissima parte del saggio di Antonella Lumini1 – non lo è mai, in generale, in queste note –, bensì contrapporre, o più precisamente affiancare un’altra lettura delle cose, fitta di dubbi e anche di contraddizioni, e nondimeno esistente, «richiedente cittadinanza» sulla base di un semplice principio: a chi ascolto, chiedo di essere ascoltato.

Mi permetto di accantonare momentaneamente il fodamentale riferimento al monaco come «archetipo umano», che Lumini deriva dal pensiero di Raimon Panikkar, sia perché devo ancora leggere bene le opere del teologo indo-spagnolo, sia perché affascinato come sono da un tale concetto, ne sospetto tuttavia l’«errore», non foss’altro rispetto al noto assioma della socialità dell’essere umano. Detto questo, «se il monaco», argomenta Lumini, «è un archetipo umano, tanto più è archetipo della vita cristiana. In ogni cristiano vive un monaco, una monaca. Questo comporta, ancora una volta, di spostare la prospettiva dalla comunità alla solitudine». Nulla da dire, se non che progressivamente il richiamo alla solitudine evoca altri concetti, altre situazioni che si estendono al di fuori della «sfera cristiana» e tendono a sovrapporsi con la condizione umana tout court (capisco che per l’autrice le due dimensioni coincidano, ma potrebbe non essere così). Una nuova «centratura» è, ad esempio, una conseguenza salutare della solitudine, di contro alla deriva caotica simboleggiata dalla onnipresente «mancanza di tempo». «La mancanza di tempo», afferma a questo proposito Lumini, «è il sintomo della corrotta concezione consumistica che ha invaso ogni sfera vitale, non solo quella materiale e produttiva. È il risultato della falsa necessità di fagocitare e ingurgitare, che crede di potersi soddisfare accumulando.»

Contesto che a fronte dell’interiorità, dell’attenzione e della concentrazione, venga indicata questa modalità predatoria come unica alternativa: c’è sicuramente anche questa, ma non solo questa. Inoltre, anche senza addentrarsi nella questione del «che fare», non vedo come necessariamente negativa una forma di disseminazione del proprio io (quanto realmente importante?) nell’oceano delle cose e dei fatti, disseminazione che non è «malsano desiderio di possedere», bensì altra forma di resa e abbandono. E per citare un altro concetto centrale nelle riflessioni e nelle proposte di Antonella Lumini, la profondità interiore, dove sarebbe rintracciabile la propria origine di creature, dove è custodita l’«immagine originaria»: ebbene, per quanto – tipicamente – sia attratto dall’immagine degli abissi, non sono certissimo che sia utile spingersi con accanimento laggiù, dove forse ad attenderci c’è solo il nostro «fondo animale», più che l’amore di un Creatore. E non è stato forse l’incessante lavorio di generazioni a creare quegli strati superficiali, culturali in senso lato, stesi sopra la ferinità?

Dice: non mi pare che il successo sia stato rotondo né durevole. Vero, ma qualcosa s’è ottenuto. Dice ancora: ma la disseminazione di cui parli non è forse il segno di quella «sete di infinito» che sta sul fondo, e che può essere placata solo dalla resa all’Amore di una «forza superiore»? L’orda di falsi desideri che ci sballotta non è forse grottesca compensazione dell’anelito originario verso Qualcosa? Può essere. Non sei forse comunque infelice? Mi si perdonerà qui se, prescindendo da ogni considerazione storica, economica, sociologica, rispondo con una certa brutalità: bella scoperta.

E mi si perdonerà anche se mi sono fatto prendere la mano: non è questo il luogo, non è questa la forma. Resta invece la proposta, il libro di Antonella Lumini, che ha suscitato in me tante e tali obiezioni, forse proprio perché va a toccare punti molto sensibili, e che si è dimostrato per questo lettura assai utile.

(2-fine)

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  1. Antonella Lumini, Monachesimo interiorizzato. Tempo di crisi, tempo di risveglio, Paoline 2021.

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Domande, risposte ed equivoci

Sono stato immediatamente attratto da un piccolo libro francese, pubblicato lo scorso gennaio 2021, dal titolo che più programmatico non si può: Monaco o monaca. Chi sei? A cosa servi?, che si fregia di un sottotitolo altrettanto didascalico: Difesa e delucidazione della vita monastica1. L’autore non è, come ci si potrebbe aspettare, un monaco o una monaca, bensì un giornalista e saggista, e il suo libro, come dice l’abate di Solesmes nella sua breve ma approvante prefazione, «si rivolge a coloro che, passando accanto a un monastero, incuriositi da un edificio spesso imponente e soprattutto da una comunità che sembra provenire da un’altra epoca, si chiedono: ma cos’è?

Prima di addentrami nel testo, la sua Introduzione mi ha dato la possibilità di tornare a riflettere sui motivi, sulle sfumature e sugli equivoci del mio interesse per le cose monastiche. E di valutare apertamente le mie reazioni e le mie risposte alle questioni e alle domande suscitate da quell’«oggetto non identificabile» che, nella definizione dell’autore, sono le vocazioni monastiche contemporanee.

«Perché allontanarsi dal mondo e mettersi da parte quando la Chiesa ha tanto bisogno di preti e di religiose attive?» Ho impiegato un po’ di tempo per capire che la «fuga dal mondo» non è rifiuto degli altri, della condivisione dell’umana condizione, quel rifiuto istintivo, e di lunga tradizione, della cosiddetta socialità che comprendo sin troppo bene, ma che nulla ha a che vedere con la scelta monastica. D’altra parte, mi pare che la Chiesa, tra le altre cose, abbia accolto nel corso del tempo tutte le possibili buone inclinazioni (i «carismi»), cercando di estendersi come una mappa 1:1 sulle manifestazioni del bene – dalle recluse ai politici cattolici, passando magari per i filologi.

«Perché condurre volontariamente una vita austera, se non ascetica e di penitenza? A che scopo?» Mentre credo di poter riconoscere il potenziale, e la velleità, della «rivolta» contro il principio di piacere, e le sue nevrosi, le sue ambiguità, la sua cattiva coscienza, mi pare anche di poter intuire il valore di «riparazione» al cospetto del Dio in cui si crede per le offese che ininterrottamente riceverebbe.

«Possono preghiera e penitenza riempire un’esistenza?» Eccome; qualsiasi cosa può riempire un’esistenza, la cui misura è infinitamente più piccola di quanto c’è a disposizione (se così si può dire). Ma questa, lo so, è una risposta del tutto insoddisfacente.

«Se si desidera edificare il Regno di Dio, perché non farlo nel mondo, in mezzo agli esseri umani?» Forse perché non può essere edificato, ma soltanto prefigurato, e… perché l’attesa, anche illusoria, è più dolce della disillusione.

«Monaci e monache non sono altro che testimoni attardati di un passato che non c’è più? Ritardari che dovrebbero mettersi al passo coi tempi?» Una domanda che può porre soltanto chi prova, anche inconsapevolmente, un vago disagio, se non addirittura un informe senso di colpa, in loro presenza (e che sul quel disagio dovrebbe interrogarsi). Non è il mio caso.

Qualsiasi risposta «dall’esterno» è insoddisfacente, sostiene Bienvenu (e fuori fuoco, aggiungo io), perché ci troviamo davanti a un mistero soprannaturale che non può essere penetrato da chi richieda prove, argomenti «naturali». La scelta di vita contemplativa, prosegue l’autore citando un’anonima monaca, «non può essere spiegata», né la felicità che ne può derivare. L’origine del mistero risiede nella vocazione, non come riconoscimento di una inclinazione, bensì come effettiva chiamata da parte di Qualcuno.

Qui le domande si devono interrompere, e la mia insoddisfazione può non essere altro che il segno di quanto io sia perfetto esempio, tra milioni di altri, di un modello di pensiero che «pretende» tutto spiegare. Thomas Merton, citato da Bienvenu, ci mette, per così dire, una pietra sopra: «Sarebbe tragico che un monaco desse un’esposizione chiara, precisa e pienamente comprensibile della vita monastica, della sua esistenza nascosta in Dio: vorrebbe dire che crede, a torto, di comprendere il mistero della sua vocazione. L’essenza della vita monastica è sepolta nel silenzio».

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  1. Hubert Bienvenu, Moine ou moniale? Qui es-tu? À quoi sers-tu? Défense et illustration de la vie monastique, France-Empire 2021.

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L’accordo fondamentale della musica del tempo monastico

Introducendo una bella edizione dei Sermoni per l’Avvento e la Vigilia di Natale di Bernardo di Chiaravalle1, Maria Francesca Righi, oggi badessa del monastero trappista di Valserena, svolge un’interessante riflessione sul tempo, chiarendone la dimensione che esso assume nella prospettiva cristiana, esaltata, se così si può dire, nell’esperienza monastica. Devo dire subito che non la condivido, come si può immaginare, o meglio che non ne condivido la parte negativa, ma devo anche ammettere di non avere argomenti rilevanti da opporle, argomenti che non siano frammenti sparsi di dissentimento, di carattere più che altro emotivo.

Appoggiandosi, tra gli altri, a Agostino, Guardini, Ratzinger e Taylor, Righi si dedica soprattutto a confutare quella posizione tipicamente «moderna» (nella quale mi riconosco) che denuncia la svalutazione del tempo presente da parte della visione cristiana, che sposterebbe nella sostanza, se non nella pratica, il valore dell’esistenza verso l’eternità. Tra cancellazione della memoria ed esaltazione del soddisfacimento immediato dei bisogni, ci consegniamo in realtà a un presente freddo, oscuro, fondamentalmente ostile e svuotato di vero desiderio, di attesa, di speranza – un comodo (per certuni) carcere di falsa festività e profonda disperazione.

È una diagnosi che consuona con molte analisi, svolte anche in campi assai diversi da quello della fede, e infittitesi in un momento di supercrisi come l’attuale. È una posizione alla quale io so rispondere solo con una domanda: perché proprio noi, che forse unici quaggiù siamo consapevoli della nostra fine, dovremmo essere individui che mirano all’eternità? Perché è sempre stato così, da quando l’uomo ha cominciato a porsi consapevolmente domande: bene, questa non è una risposta, bensì, molto semplicemente, un’osservazione.

Va da sé che la risposta di s. Maria Righi è assai più semplice e al tempo stesso più complessa. La risposta è la Rivelazione, la risposta è Cristo, «centro del tempo e della storia». Se il divenire cieco non è altro che corsa verso il nulla, e l’eternità trascendente non è altro che alienazione, «il cristianesimo», nelle parole della badessa, «prende in contropiede entrambe queste visioni coniugando insieme tempo ed eternità, così che l’Eterno scendendo nel tempo ne impreziosisce ogni istante e il tempo trova nell’eterno la sua destinazione, la sua vera patria».

La vita monastica, regolando la quotidianità, celebra la memoria di Cristo, ne attualizza la presenza tramite l’imitazione (o sequela), e ne vive l’attesa del ritorno: «Le assi di questo progetto temporale in cui l’oggi e il correre finché c’è tempo significano l’urgenza e la leggerezza, dentro una vita stabile e regolare, sono i pilastri dell’ora, lege et labora, preghiera lettura e lavoro e, se consideriamo la lettura il nutrimento dello spirito, ci sono anche i tempi dei pasti (dove c’è la lettura) e sono ugualmente regolati i tempi della fraternità. Questi tre pilastri, ordinatamente regolati, costituiscono l’accordo fondamentale della musica del tempo monastico» – una musica di cui, come è evidente, subisco il fascino pur non… suonandola.

La liturgia, l’ufficio divino, è il luogo dove avviene «la concentrazione dell’eterno nell’istante». È in questo momento presente che curiosamente la coscienza monastica e quella postmoderna si incontrano, ma mentre «il carpe diem del postmoderno somiglia molto alla cronofagia del paganesimo, che polverizza e frammenta il tempo e rende l’istante un passaggio verso il nulla», l’adesso cristiano e monastico è abbraccio dei tre tempi, è la saldatura dei tre momenti: passato, presente, futuro: creazione, redenzione, gloria.

Nel mio fragilissimo (egoistico?) adesso, respingo timidamente l’accusa di cronofagia, e anche quella di paganesimo, ma oltre per il momento non so andare – forse perché oltre sento di non voler e poter andare?

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  1. Bernardo di Chiaravalle, Sermoni per l’Avvento e la Vigilia di Natale, a cura di M.F. Righi, introduzione di W. Verbaal, Nerbini 2019 («Quaderni di Valserena»; 10).

 

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Comunità di emozione, comunità di convinzione

«Cosa possiamo fare perché le nostre comunità non assomiglino a raduni di vecchi scapoli amareggiati senza né feste né lacrime?» Oltre al mio interesse, le analisi che molti monaci e monache di oggi dedicano alla loro venerabile istituzione, destano sempre anche la mia ammirazione: per la determinazione a «dire le cose come stanno». Certo, spesso lo fanno nell’ambito di incontri e occasioni a loro riservate, ma i cui documenti sono poi facilmente accessibili a tutti gli interessati.

Le parole sopra citate appartengono a Marc de Pothuau, abate cinquantenne dell’abbazia cisterciense di Hauterive, e alla sua relazione dedicata al carisma cenobitico e pronunciata all’incontro dell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza, tenutosi in Francia nel novembre del 20181.

Nell’affrontare il tema, d. de Pothuau fa riferimento alla sua esperienza di visitatore che tante situazioni gli ha fatto conoscere di assenza di fraternità: giudizi severi tra confratelli, formazione di «clan», incomprensioni e assenza di comunicazione: «In effetti, il disprezzo e la sfiducia nella nostra vita comunitaria sono come polvere in una stanza», se nessuno si preoccupa di rimuoverla, si deposita, dando vita a fenomeni paradossali, come la distorsione degli stessi valori monastici, che diventano «pietre per lapidare quelli del partito opposto». Ecco allora che in nome dell’assoluto rispetto della liturgia si critica l’accoglienza degli ospiti; o che per celebrare il valore del silenzio non si ascolta più nessuno; o ancora che in nome del senso di uguaglianza si ridicolizza chi vuole digiunare, e così via. «La comunità diventa allora un campo di battaglia, o meglio una trincea, perché le linee si congelano abbastanza velocemente e raramente escono allo scoperto al di fuori di momenti di decisioni importanti che diventano crisi serie». La comunità si sfalda, anche materialmente, e soprattutto la disarticolazione delle virtù, mancando il cuore della carità fraterna, fa sì che esse si trasformano in vizi.

Ci vuole un certo coraggio a evocare con questa evidenza tali situazioni, a denunciare così lucidamente le proprie mancanze e la propria preoccupante deriva. E tuttavia la riflessione di d. de Pothuau mi è parsa uscire improvvisamente dal monastero grazie a una semplice domanda di raccordo nel suo discorso: «Cosa pensa Gesù di una vita comunitaria che non è altro che un lento e triste processo nel diventare reciprocamente insensibili?» Anche senza «scomodare» il Figlio di Dio, come non sentire quell’inesorabile processo in atto (non foss’altro che nella propria vita). La risposta dell’abate cisterciense del XXI secolo è quella di san Benedetto, cioè la conversatio morum, la conversione dei costumi, un processo ininterrotto che potremmo chiamare in onore degli anni Settanta di «formazione permanente»: incontro e correzione reciproca, che corrisponde alla vera maturità. Maturità che, avverte d. de Pothuau, «è la capacità di diventare sempre più vulnerabili e sensibili agli altri. Una forza molto paradossale, quindi, perché sentita interiormente come una debolezza».

Bello, molto bello, ma non posso esimermi dal considerarla una formula efficace per una comunità piccola, ristretta, governabile, quale quella delineata da san Benedetto (o al limite perseguibile in una coppia), ma ridotta a petizione di principio di fronte a comunità ampie e complesse. Tutta la valorizzazione del carisma cenobitico, al cuore del discorso dell’abate, sfugge secondo me con fatica al problema della «dimensione», ad esempio là dove d. de Pothuau si sofferma ancora su «incontro, scambio, condivisione e circolazione della vita». Le visite regolari, tra l’altro, servono anche a questo, a «riannodare lo strumento dell’ascolto comunitario», per giungere a una narrazione comune che premetta di «dirsi insieme, nel doppio senso dell’espressione: insieme dire e dirsi che stiamo bene insieme» (sembrano quasi le parole di un terapista di coppia, no?).

Ed è molto bello anche l’approdo del suo ragionamento, cioè la necessita di combinare una comunità di emozione con una comunità di convinzione, poiché da sole – emozione e convinzione – non bastano, anzi «separatamente hanno presto difficoltà a preservare le libertà individuali». Mi pare un programma esaltante, anche e proprio se proviamo a guardarci timidamente in giro, ma può essere esportato fuori del monastero, magari con un bel marchio «made in claustro»? O forse questa idea di esportazione è sbagliata a priori?

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  1. Marc de Pothuau, La comunità di conversione, in «Vita Nostra» 19, X (2020), n. 2, pp. 72-91.

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