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Carlo Maria Martini e Viboldone (pt. 2)

Umile fedeltà quotidiana(la prima parte è qui)

Il documento più interessante è, forse, il testo che registra l’incontro tra le monache e il cardinale a conclusione della visita canonica del luglio 2002, l’ultima, poiché riporta anche alcuni interventi delle monache. È un incontro informale, credo voluto proprio da Martini («Avete visto che c’è qualche mutazione nell’ordo della chiusura della Visita. Di solito la Visita veniva conclusa con una relazione del vescovo e firmata poi qui e questa relazione era sempre un po’ piuttosto ingessata, quindi lasciava un po’ così, non del tutto soddisfatti»), attraversato da una profonda gratitudine reciproca, ma dal quale non sono tuttavia espunti i problemi più gravi.

La badessa, introducendolo, non dimentica, ad esempio, le ansie per gli abbandoni e per il «rimanere in pochi», o la necessità di «vigilare contro una malintesa autosufficienza del monastero». Il cardinale risponde con un ampio discorso per punti, che prende le mosse, dopo i ringraziamenti al padre visitatore, proprio dagli abbandoni (con una citazione dal Vangelo di Giovanni: «Il tralcio che porta frutto [il Signore] lo pota perché porti ancora più frutto», e più avanti con una frase molto diretta: «Talvolta è meglio un noviziato vuoto che una presenza che destabilizza l’equilibrio comunitario») e si allarga poi al tema delle prove cui non dobbiamo sottrarci e a quello dei sentimenti.

Senza prove non si dà pazienza, e senza pazienza non si dà integrità, e le prove sono le cose concrete che ci capitano, che non capiamo o che vanno contro i nostri desideri, non è un discorso astratto: «Siamo sempre pronti ad accettare tutte le prove, eccetto, però, quelle che ci vengono. Tutte le altre le immaginiamo e va bene; sì quella prova e quell’altra, ma questa proprio no!»

Martini cita poi un libro di un neurochirurgo tedesco che sta leggendo – che ribadisce scientificamente la convivenza di molti Io nella psiche di un individuo – e ammette di esserne stato messo in crisi. La strada per neutralizzare questa esplosione del soggetto è quella appunto dei sentimenti, «perché sono i sentimenti che ci muovono». «Ma ha molta importanza, allora, mettere ordine in ciò che sentiamo e questa è la grande scuola spirituale che parte dai Padri del deserto. Mettere in ordine nei nostri sentimenti è la cosa più difficile, ma la più importante… e ci vuole una vita intera.» Il cuore umano è insondabile («Dio solo ci capisce», dice il cardinale; non del tutto, e per il momento, azzarderei io), ma i suoi pensieri no, e possono essere, e vanno, coltivati, puliti, messi in  ordine, ogni giorno – e su questo anche il puro positivista può concordare.

Un’ultima nota, anzi due. La prima per il cardinale che guarda fuori del finestrino dell’aereo: «A tutte queste visite che ho fatto c’è da aggiungere tutte le volte che vi ho benedetto dall’aereo arrivando qui [a Milano]: stando sulla sinistra dell’aereo vedo il campanile e invio la benedizione su di voi dall’alto».

La seconda per l’onestà di s. Maria Franca, che, negli interventi finali delle consorelle, sembra quasi non trattenersi: «La nostra comunità è sempre stata un po’ diversa dalle altre, perché non siamo fatte con lo stampino e questo comporta un po’ di disagio per accoglierci come siamo. Lei ci ha dato anche molti stimoli con la sua parola alla Chiesa di Milano, cercando un’apertura; però siamo molto in difficoltà».

(2-fine)

Un’umile fedeltà quotidiana. Parole come benedizione: il vescovo Carlo Maria Martini alla comunità monastica, a cura di M.I. Angelini, prefazione del card. A. Scola, Edizioni Viboldone 2013.

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Carlo Maria Martini e Viboldone (pt. 1)

Umile fedeltà quotidianaMaria Ignazia Angelini ha recentemente curato (con «trepidazione») un bel volume che raccoglie gli interventi di Carlo Maria Martini, quando era arcivescovo di Milano, rivolti alla comunità monastica benedettina di Viboldone, di cui è badessa dal 1996. Si tratta di testi, scritti o pronunciati, che vanno quindi dall’aprile 1990 (un primo colloquio conoscitivo, due mesi dopo l’insediamento) al luglio 2002 (il documento conclusivo della visita canonica, quando già era stato nominato il successore); per lo più omelie, in occasione di celebrazioni, ricorrenze o professioni solenni, che tornano con insistenza su temi monastici, sia di carattere generale, sia legati al ruolo svolto da un monastero nella chiesa contemporanea, e in particolare nella diocesi di una grande città.

Sono un documento molto significativo, anzitutto perché sono parole intime e non pubbliche, segno di un dialogo concreto tra due entità precise: un vescovo e una comunità di monache, uomini e donne di fede che parlano tra loro; inoltre perché anche un lettore che non ha «nessuna metafisica, un puro positivista» (per usare parole del cardinale) non può non essere colpito dal garbo, dalla discrezione e dai sentimenti amorosi di tale dialogo.

La cautela con cui il cardinale si rivolge alle monache, affrontando qualsiasi argomento, dal senso di una professione solenne all’importanza del lavoro manuale, dalla cura delle anziane alla necessità di limitare l’uso del parlatorio, è seconda soltanto alla precisione con la quale i testi citati dalle Scritture (la Parola) vengono esplorati per trarne riflessioni, indicazioni, speranze. Ho detto «cautela», ma mi verrebbe da usare «circospezione» per definire il modo in cui Martini affronta i vari temi, come se ritenesse di essere sempre e soltanto ai preliminari (cosa che peraltro forse di potrebbe dire della vita terrena di un cristiano: un preliminare, «qui allora noi compiamo qualcosa che avrà la sua spiegazione nell’eternità: là capiremo il senso di ciò che oggi viviamo»), senza per questo tirarsi indietro quando occorre essere chiari o comunque prendere una decisione.

Oltre alla memoria ininterrotta della Parola (una «tenace fedeltà»), «il segno della comunità religiosa deve essere segno che la comunità è possibile, che il perdono è possibile, che la ricostituzione dell’unità è possibile», dice il cardinale, ed è un punto sul quale ritorna spesso, individuando in esso, forse, lo specifico più attuale della comunità monastica: «Questo è il compito altissimo, potremmo quasi pensarlo utopico: come è possibile vivere in tanti insieme ed essere un cuor solo e un’anima sola con tutte le differenze che ci sono tra noi, con tutte le piccole conflittualità che attraversano la vita quotidiana?», e ancora: «Occorre mostrare la possibilità di una comunità alternativa, cioè di una comunità che non si separa dagli altri».

E ancora, e qui Martini cita Basil Hume, quasi accettandone il punto di vista, se così posso dire, ancor più riduzionista: «”Noi non ci comprendiamo come gente che ha una particolare missione o funzione nella Chiesa. Noi non ci proponiamo di cambiare il corso della storia: noi siamo unicamente là, in modo quasi accidentale dal punto di vista umano e felicemente continuiamo a essere semplicemente là”. Questo mi pare interessante per dire che anche l’idea di chissà quale missione, a un certo punto va corretta. Ci siamo, siamo lì: viviamo, preghiamo, siamo lì e questo è ciò che siamo e vogliamo essere volentieri…»

(1-continua)

Un’umile fedeltà quotidiana. Parole come benedizione: il vescovo Carlo Maria Martini alla comunità monastica, a cura di M.I. Angelini, prefazione del card. A. Scola, Edizioni Viboldone 2013.

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La parentesi del cardinale

In occasione della morte di Carlo Maria Martini ho ripreso in mano Il vescovo e il monaco, un volumetto pubblicato nel 1995 dall’Abbazia di Seregno (Milano), che raccoglie una serie di scritti di soggetto monastico dell’allora arcivescovo di Milano. Lo stesso Martini era rimasto un po’ sorpreso dall’iniziativa dell’abate di Seregno: «Non pensavo di aver fatto in questi anni tanti interventi sulla vita consacrata». Estratti da opere, lettere diocesane, omelie, articoli e discorsi di occasione – tra i vari testi antologizzati ho visto che mi aveva colpito una conversazione (inedita) tenuta con un non identificato «gruppo di monaci» nel 1991, un breve testo dal tono incredibilmente intimo e dedicato a due temi distinti.

Anzitutto la pace interiore, quel concetto declinato dentro e fuori la fede fino allo sfilacciamento, ma che in relazione a una comunità monastica recupera un significato preciso e, per così dire, operativo. «O siamo superficiali, o siamo apprensivi», dice Martini, «o siamo l’uno e l’altro», mentre la vera pace è al di sotto. Il più delle volte è un dono, ma «è frutto anche, o meglio fruttifica nella vita monastica attraverso qualcosa di molto semplice che si chiama “custodia dei sensi”, la quale è tanto raccomandata dalla tradizione sin dall’inizio, sin dai padri del deserto». Tale custodia è cruciale («e il demonio cerca di turbarla continuamente») poiché è attraverso le sue manovre – il flusso dei pensieri, i gesti, il tono della voce (o un silenzio «smodato»), il modo di camminare, di guardare, di vestire – che ci influenziamo reciprocamente: «In una comunità, se le porte dei sensi di qualcuno non sono ben custodite, se quindi una porta o una finestra sbatte perché non è ben ferma e sente i venti soffiare, gli altri ne sono disturbati». La comunità è fatta anche di strutture («i muri, la clausura, le regola»), ma la pace ne è il cemento, e la condizione per raggiungere lo scopo della comunità stessa: «Convivere con i problemi propri e altrui. Si potrebbe anche dire», aggiunge Martini con mossa inattesa, «se l’espressione si potesse ben calibrare, “convivere con le frustrazioni proprie e altrui”».

Il cardinale è molto attento ai risvolti pratici di quello che sta dicendo. Convivere, d’accordo, ma questo allora significa che i problemi non si risolvono? No di certo, ma la pace è «la situazione interiore più adatta per risolvere ciò che è possibile», altrimenti si passa, sempre per così dire, nel campo della conflittualità, e la «conflittualità produce conflittualità». La pace interiore è anche la fonte di una certa «autorevolezza», indispensabile per trovare le soluzioni «nel tempo e nel modo giusto, tempestivo, per quanto è possibile e scrutando i tempi di Dio». È un appello autentico e partecipe, cauto, misurato, nobile – come l’immagine che mi sono fatto dell’uomo che lo pronuncia –, ma inestendibile al di fuori delle mura di un monastero.

Il cardinale, rivolgendosi a dei monaci, parla di comunità e lascia al lettore l’esecuzione del sillogismo e della deduzione, ma sono convinto che a lui stesso non sfuggisse la difficoltà, tanto che passando al secondo punto, la presenza della comunità monastica nella chiesa locale, il suo discorso si fa ancora più concreto: «In astratto e a priori si potrebbero dire alcune cose, ma non contano tanto». Ciò che conta sono le forme reali di evangelizzazione che i monaci possono percorrere. Sono sei, e parlano da sole: l’evangelizzazione per proclamazione, per convocazione, per irradiazione, per attrazione, per contagio e per lievitazione. Ce n’è anche una settima, una forma di «attualizzazione evangelica», e sembra quasi che Martini l’abbia tenuta per ultima, in fondo e separata, per chiudere su una nota che avrebbe rincuorato i monaci dopo un discorso piuttosto impegnativo. Già, «c’è anche la gratuità, cioè il non preoccuparsi molto dei successi, del volerli misurare, ma essere contenti di esserci, perché Dio ci fa essere così».

Martini si congeda infine dai monaci, accenna a un suo imminente impegno che lo preoccupa, si affida alle loro preghiere e torna in città. La parentesi si chiude, e per un istante mi sono immaginato che uscendo dal monastero il cardinale abbia pensato: Almeno voi, almeno qui, siate come è impossibile essere là fuori

Carlo Maria Martini, La pace interiore e l’evangelizzazione monastica, in Il vescovo e il monaco. Riflessioni sulla vita consacrata, a cura di V. Cattana o.s.b., Abbazia San Benedetto 1995, pp.123-130.

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