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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 3/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui, la seconda qui)

Tra le molte suggestioni prodotte dalla lettura della Regola delle recluse1 ce n’è una di ordine – oserei dire – psico-teologico che mi ha attirato particolarmente.

Analizzando i rischi che la reclusa corre ascoltando dicerie e pettegolezzi che il Tentatore, per tramite di qualche persona solo apparentemente pia, le offre alla finestra della cella, Aelredo dice che, «ritornata alla quiete, la poveretta rimugina nel suo cuore, trasformate in immagini, le cose che le sue orecchie vi avevano inserito, e trasforma in incendio violento quel fuoco che era stato attizzato dalle chiacchiere precedenti. Nei salmi balbetta come fosse ubriaca, nella lettura le si appanna la vista, barcolla nella preghiera». Il punto decisivo mi pare essere quel «trasformate in immagini», che sposta il problema sulla dimensione, appunto, visiva. Dimensione che rimanda a uno degli aspetti costitutivi della reclusione volontaria: ci si rinchiude per non vedere il «mondo presente» e quindi poter intravedere quello «futuro», si oscura l’aldiquà per gettare una prima luce sull’aldilà. O, ancora, si esclude il «visibile» per affacciarsi all’«invisibile».

Già Pietro il Venerabile, indirizzando la sua lettera sulla vita eremitica (la 20 del suo epistolario) al monaco Gisleberto, gli augura «nell’angustia della cella la vastità del cielo»; mentre Guglielmo di Saint-Thierry, scrivendo ai fratelli certosini, nella sua Lettera d’oro (31), ricorda che «la porta chiusa non significa nascondiglio, ma ritiro segreto», e che «la dimora del cielo e quella della cella si assomigliano; poiché, come il cielo e la cella mostrano una qualche parentela nel nome, così ce l’hanno anche nella pietà. Sia “cielo” che “cella” sembrano derivare il loro nome da “celare”; e quello che si cela nei cieli, si cela anche nelle celle; quello che si fa nei cieli, si fa anche nelle celle».

Ora, nel corredo standard del materialista il «vedere», con riferimento preciso al «visibile», è un’acquisizione non più rinunciabile: si deve poter vedere, in ogni declinazione possibile, dall’esperienza dei sensi all’esplorazione geografica, dal controllo delle fonti all’esperimento scientifico, fino al giornalista che «va a vedere» il fatto prima di riferirne, ecc. Nondimeno il materialista non è insensibile ai pericoli dell’interferenza, del rumore di fondo che inquina la percezione, e quindi osserva la reclusione volontaria (stravolgendone il significato propriamente cristiano) come strumento di depurazione del «segnale», alla ricerca di ciò che non è immediatamente visibile. Ma di quale «segnale» si tratta?

Aelredo non si stanca di mettere in guardia dagli attacchi che provengono dall’interno, anche quando si sia chiusa la porta all’esterno, perché «il male che portiamo incluso nelle nostre membra spesso risveglia istinti temibili» (il corsivo è mio, con una speciale considerazione per quell’«incluso»); e Pietro il Venerabile è ancora più esplicito quando ricorda che «il mondo, passando per un accesso familiare [cioè, con tutta evidenza, l’immaginazione] si offre agli occhi dell’anima con tutte le sue cose», e così rivela un «invisibile» ben diverso da quello che il recluso si aspettava: «In questo modo, mentre imperversano nelle zone arcane della sua mente sensazioni di cose svariate, poiché l’animo non vede niente di quello che pensa se non una celletta vuota, dormicchiando per la noia, cerca rimedio a questa noia miserevole non in Dio ma nel mondo, non in sé ma fuori di sé; il che gli procura un danno ancora più grave».

Istinti temibili, noia, zone arcane della mente: concetti ed espressioni quanto mai familiari al materialista novecentesco, anche quello modestamente attrezzato, no?

(3-fine)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 2/3)

RegolaDelleRecluse (la prima parte è qui)

Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx1, infatti molte «ignorando o non prendendo sul serio il motivo di questa istituzione, ritengono che si sufficiente rinchiudere tra quattro pareti soltanto il loro corpo, lasciando invece che lo spirito sia libero di dissolversi in mille divagazioni», eccetera eccetera; e poi stanno sempre a parlare con qualche «vecchia garrula e pettegola», si fanno raccontare le cose del mondo e poi ci rimuginano, si figurano quanto hanno ascoltato, si preoccupano delle loro proprietà, dei soldi, scrivono lettere, fanno regalini o addirittura «mandano cinture e borse intessute e ricamate con colori variopinti a giovani monaci e chierici». Insomma, fanno entrare dalla finestra (quella maledetta finestra) quel mondo turpe che si sarebbero lasciato alle spalle, e con esso il Tentatore e il suo veleno. Anche le attività più apparentemente nobili sono pericolose, come occuparsi dell’insegnamento di ragazzi e ragazze, trasformando la cella in una scuola. La scena descritta da Aelredo merita di essere riportata per intero: «La reclusa siede alla finestra [appunto], mentre le ragazze si raggruppano nel portico [del chiostro, quindi]. Le guarda una a una, e secondo i loro comportamenti infantili, ora si adira, ora ride, ora minaccia, ora blandisce, ora picchia, ora bacia, ora tira vicina una che piange per essere stata castigata, le accarezza il volto, se la stringe al collo, la trascina a sé con abbracci, la chiama “figliola mia, tesoro”». Si guardi da tutto questo, la reclusa! Per le sue necessità si scelga «una donna anziana» e posata che faccia la guardia alla porta e che tenga al suo servizio «una ragazza più forte e capace di fare i lavori faticosi, che porti l’acqua e la legna, faccia cuocere le fave e gli ortaggi o, se una malattia lo richiede, prepari cibi più sostanziosi». Tu, mia amata sorella reclusa, sposa di Cristo, «tu sta seduta, sta zitta, aspetta».

Sistemati gli aspetti pratici (orari, lavoro manuale, letture, digiuni, abbigliamento), nella seconda parte Aelredo passa in rassegna la «disciplina interiore delle virtù». La verginità, anzitutto, il tesoro più prezioso, poi la castità (che non può prescindere dalle privazioni e dalle mortificazioni, che non devono spaventare, «come se la fiamma della libidine fosse più tollerabile dei bruciori di stomaco»), l’umiltà (occhio, che «c’è anche una sorta di vanità nel compiacersi di una cella curata con eleganza») e infine la carità. Ma come può la reclusa nella sua condizione esercitare l’amore per il prossimo? Con la volontà buona e con la preghiera: «Abbraccia dunque tutto il mondo nell’unico grembo dell’amore, e lì pensa a tutti quelli che sono buoni, e rendi grazie, e insieme guarda a quelli che sono cattivi, e piangi». L’unico modo santo in cui il mondo può rientrare nella cella è tramite l’orazione, che rappresenta la sola prospettiva dalla quale la monaca deve osservarlo e amarlo, senza distinzioni: i poveri, gli orfani, le vedove, i tristi, i pellegrini, le vergini, i naviganti, i monaci tentati, i prelati carichi di responsabilità, persino coloro che sono in guerra: tutti costoro sfilano in corteo nella preghiera della reclusa.

La terza e ultima parte della Regola accoglie tre meditazioni sui beni passati, presenti e futuri, o più esattamente attesi: tre testi molto belli che possono anche essere letti separatamente dal resto e che ebbero larga fortuna, tanto da essere attribuiti ad altri autori e da essere inseriti nella diffusissima raccolta di Meditazioni intestata a sant’Anselmo. Le meditazioni mirano a suscitare una serie di immagini capaci di accendere sentimenti di devozione e pietà, creando una «memoria affettiva» cui attingere durante la quotidiana lotta per la conquista delle virtù: un metodo che anch’esso avrà larga fortuna. Quella sul passato è una ricapitolazione dei principali episodi evangelici, durante la quale dobbiamo immaginarci testimoni diretti dei fatti, insieme con gli apostoli, col paralitico, con l’adultera o presenti all’ultima cena come quattordicesimi convitati. La seconda meditazione, rivolta al presente, è per così dire quella più autobiografica, in cui si passa in rassegna il bene che si è ricevuto e il male che si è fatto (e Aelredo confessa apertamente il suo), e la certezza che l’aiuto di Dio non mancherà mai a chi lo chieda. La terza meditazione si concentra infine sui cosiddetti «novissimi», cioè morte, giudizio, inferno e paradiso. Qui, se ripensiamo a quanto accennato sull’esperienza, possono sorgere dei problemi. Aelredo si affida, comprensibilmente, alla Scrittura, ma conclude la parte sull’«eterno riposo» che attende i beati con un commento molto significativo: «Per la verità, cosa sarà quel riposo, quella pace, quella felicità… la penna non lo può descrivere perché l’esperienza non l’ha ancora insegnato».

Similmente il paradiso si disegna al negativo, per tutto quello che in esso mancherà, che non è altro che ciò che affligge gli esseri umani, in sintesi: la vita, riassunta in un brutale elenco, non privo di un dettaglio inatteso: nessun lutto, o pianto, «o dolore, o timore, nessuna tristezza, nessuna discordia o invidia, nessuna tribolazione, nessuna tentazione, nessun cambiamento di tempo, né un cielo coperto di nuvole, nessun sospetto, né ambizione, né adulazione, né calunnia, nessuna malattia, né vecchiaia, né morte, non povertà, né tenebre, nessun bisogno di mangiare o bere o dormire, nessuna fatica, nessuna debolezza».

La formula con la quale Aelredo definisce il paradiso è memorabile: «Cosa sarà questo regno noi non riusciamo a immaginarlo, tanto meno a esprimerlo in parole o a metterlo per iscritto. Questo so, che niente mancherà di quello che tu desideri e che niente ci sarà che tu non voglia».

(2-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003.

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La «Regola delle recluse», di Aelredo di Rievaulx (pt. 1/3)

RegolaDelleRecluse Sappia, la monaca reclusa, «di non essere sola quando è sola. Allora infatti è con Cristo, il quale non si degna di stare con lei quando è nella folla». Se ne stia dunque sola, seduta, in silenzio e ascolti e parli soltanto con Gesù. La prima parte della Regola delle recluse di Aelredo di Rievaulx1 – delle tre di cui è composta – è dedicata al comportamento esteriore che la monaca reclusa deve tenere per potersi dire veramente tale. Siamo nella seconda metà del XII secolo e il fenomeno della reclusione volontaria, soprattutto femminile, per quanto piccolo, non è trascurabile. Nata nel deserto delle origini, sviluppatasi lungo tutto il Medioevo eremitico e cenobitico, sfocia infine nella sua «epoca d’oro» tra XI e XIV secolo, quando la dimensione cittadina che assume ne esalta la vocazione paradossale e contraddittoria2, quella cioè di ricercare e vivere la solitudine in mezzo alla gente, di fuga dal mondo dentro il mondo stesso3. È così che i reclusori che punteggiano le città (a Foligno, per fare un solo numero, nel 1370 sono censite 62 «incarcerate») diventano quasi dei punti di riferimento per la popolazione dei laici, rappresentando il segno di una fede vissuta nel sua forma più pura, esercitando una specie di protezione sulla popolazione e al tempo stesso fornendo una sorta di anticipazione della promessa di beatitudine futura: le recluse e i reclusi (molti meno) sperimentano un assaggio del paradiso e lo additano agli occhi di chi è ancora alle prese con le miserie dell’aldiqua. Lo rappresentano e in qualche misura ne riferiscono anche, stanti i rapporti che hanno con i laici che li visitano e ne cercano la parola ispirata.

Per molti secoli, tuttavia, la reclusione volontaria si appoggia, per così dire, ai monasteri, che ospitano al loro interno celle dalle quali, con il consenso della badessa o dell’abate, monache e monaci non escono mai, pur intrattenendo, per forza di cose, alcuni contatti con il resto delle comunità4. Per quanto «fuori dal mondo», le recluse devono pur mangiare (poco), devono pur fare qualcosa (oltre pregare), sono sepolte, sì, ma pur sempre vive. Si dà, quindi, la necessità di una «regola per le recluse», e Aelredo, secondo le ricostruzioni degli studiosi, arriva per terzo, dopo Grimlaico, egli stesso recluso, che redige una Regola dei solitari verso la fine del IX secolo, e Pietro il Venerabile, il sommo abate cluniacense, che qualche tempo dopo il 1134 scrive a Gisleberto (o Gilberto), recluso a Senlis, una lunga lettera, tradizionalmente tramandata come un trattato sulla vita eremitica.

La Regola di Aelredo, che viene datata intorno al 1160, è dedicata alla sorella maggiore (di cui purtroppo non si conosce il nome) e questo le conferisce un tono di particolare partecipazione emotiva che, insieme con le notazioni autobiografiche che Aelredo vi sparge, ha suscitato altrettanta partecipazione anche nei lettori più recenti. Anche senza considerare Aelredo come «il più poliedrico degli autori della prima generazione cistercense» (D. Pezzini), e che anch’egli ha vissuto un’esperienza di semi-reclusione (circostanza decisiva per un cistercense: si scrive e si parla di ciò di cui si ha esperienza) quando, da abate di Rievaulx, tormentato da una serie di malanni, si era fatto costruire una specie di eremo a lato del chiostro (il suo biografo lo chiama mausoleum, tugurium e secretarium) nel quale riceveva i confratelli, e mettendo infine da parte la sua fama di cantore dell’amicizia monastica, la lettura della Regola delle recluse, anche astraendo dal suo contesto storico, è interessantissima.

Anzitutto, forse, per la concretezza (anch’essa decisamente cistercense) con la quale Aelredo attacca il suo argomento. Ah, non ci sono più le recluse di una volta, si lamenta l’abate di Rievaulx…

(1-segue)

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  1. Aelredo di Rievaulx, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline 2003. L’estesa introduzione di Domenico Pezzini è quanto di più utile per un primo orientamento sul fenomeno della reclusione volontaria.
  2. Jean Leclercq sintetizza ottimamente come l’eremitismo rappresenti il paradosso di una vocazione «a praticare l’obbedienza senza superiore, la carità senza fratelli, e l’apostolato senza azione».
  3. Una dimensione che in varie forme si è perpetuata sino ai giorni nostri, ad esempio in realtà che vengono definite «monachesimo interiorizzato» o «eremitismo urbano».
  4. Scrive lo studioso inglese Giles Constable (citato da Pezzini) che la presenza di celle per reclusi nei monasteri «in certi casi funzionava come valvola di sfogo per attività religiose incompatibili con la vita di comunità, e anche, bisogna aggiungere, per membri della comunità che risultavano essi stessi incompatibili».

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Non te la prendere

Una delle qualità della Regola di san Benedetto che mi ha sempre colpito è che non intimorisce chiunque le si avvicini, da qualsiasi prospettiva lo faccia e qualunque sia la preparazione teologica, storica, linguistica, ecc., di chi la legge. La sua perfetta, e al tempo stesso «semplice», dimensione atemporale rende inoltre molto interessante la questione della traduzione. Certo, la si può leggere abbastanza facilmente nell’originale latino, ma mi sono chiesto spesso come san Benedetto scriverebbe certe cose oggi (con ogni probabilità in italiano).

Sicché prendiamo, ad esempio, la radice trist*, che nella Regola compare dieci volte. Due nella forma di tristitia, che non presenta particolari problemi: la «tristezza» del fratello scomunicato (XXVII, 3), che può essere eccessiva e che non deve sommergerlo (Benedetto cita qui san Paolo), e la tristezza (il «malumore») di chi è gravato da un servizio di cucina che supera le sue forze (XXXV, 3) e che va anch’essa prevenuta.

Le altre otto volte compare nella forma del verbo contristare, tre delle quali in accezione transitiva: in due casi il cellerario (XXXI, 6, 7) non deve rattristare o irritare i confratelli con il suo comportamento (le sue scelte); nel terzo caso sono i malati (XXXVI, 4) che non devono affliggere chi si prende cura di loro con eccessive pretese.

La forma più frequente è dunque il verbo riflessivo contristari, con cinque occorrenze, una delle quali è riferita nientemeno che a Dio (Prol., 5), cui non dobbiamo dare motivo  di adirarsi con le nostre cattive azioni. In genere (il che significa: nelle traduzioni che ho potuto vedere) contristari viene reso con un ragionevole rattristarsi, oppure con dolersene, trarne motivo di malcontento, stare di malanimo e anche lamentarsi. Ma c’è una traduzione che secondo me restituisce alla perfezione sia il senso che il tono e penso che sarebbe la forma che oggi Benedetto userebbe. È la soluzione colloquiale, diretta, «parlata» adottata da Giovanni Bellardi nella sua traduzione pubblicata da Jaca Book nel 1975 (che mi è già capitato di citare), e cioè: prendersela.

«Chi ha minori esigenze [e quindi riceve di meno] ringrazi Dio e non se la prenda» (XXXIV, 3); «Se poi le particolari esigenze del luogo o della povertà costringeranno i fratelli a raccogliere personalmente i frutti della terra [cioè a lavorare con fatica], non se la prendano, perché allora sono davvero monaci se vivono del lavoro delle proprie mani» (XLVIII, 7). E anche là dove Bellardi opta per malcontento e dolersene, la soluzione colloquiale si prestava ugualmente bene: «La distribuzione e la richiesta di quanto è necessario siano fatte nelle ore prescritte, perché nella casa di Dio nessuno si turbi o se la prenda» (XXXI, 19); «Senza che per questo [che l’abate abbia destinato a un altro il dono ricevuto] il fratello, cui la cosa era stata inviata, se la prenda» (LIV, 4).

A me pare che questa sia una traduzione veramente «benedettina»: sia perché nel concetto di prendersela è implicita una sfumatura di auto-riferimento (di egoismo), che si scontra con l’umiltà; sia perché in esso sono presenti il risentimento e l’invidia (una punta), che credo fossero due veleni che san Benedetto volesse tenere assolutamente lontani dal monastero; e sia anche perché mi sembra di sentirlo, l’abate Benedetto, che a un confratello seccato perché il paio di calze di lana che ha ricevuto dai famigliari è stato poi dato a un altro, risponde pacato: «Non te la prendere, lo sai che ne aveva più bisogno di te».

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La libertà che talvolta altri si prendono (Voci, 27)

CnstitutionsPortRoyalVIII. Svelamento dell’interiorità

Occorre che [la novizia] nutra un’apertura del cuore che vinca la ripugnanza che può avere nel far conoscere le sue debolezze, di modo che in lei non accada alcunché di sì poco rilevante che non ne metta a conoscenza chi cura la sua condotta ancor prima che venga interrogata. Deve perseverare in questa pratica nella speranza che Dio la libererà da tutte le cose cattive che avrà messo in luce nel suo cuore con un umile svelamento di se stessa, invece di nasconderle per paura di essere umiliata, consentendo che mettano radici tanto forti da non poter essere strappate via da un’altra zappa. E deve anche scoprire il bene che si manifesta in lei, così come i buoni movimenti dell’anima che Dio le susciterà, o la grazia che le farà di praticare qualche virtù; non per vantarsene, o per compiacersi vanamente dei doni che Dio le avrà fatto, bensì semplicemente per non nascondere alcunché a coloro che la guidano, in modo che, conoscendo il bene e il male in cui si troverà, la possano aiutare a superare le sue colpe e a trarre maggior profitto dal bene, praticandolo nel modo che Dio avrà stabilito per lei.

IX. Umiltà

Deve manifestarsi in lei un sincero amore dell’umiltà, quale continuazione dello spirito di penitenza che deve avere per essere veramente Religiosa, e che deve essere tanto forte da soffocare nel suo cuore il desiderio di stima, di modo che si giustifichi con difficoltà, e solo quando è costretta a farlo. Non si arrabbi se viene umiliata; non giudichi sbagliato se viene rimproverata un paio di volte più severamente di quanto creda di meritare, o anche quando è accusata ingiustamente, se Dio così vuole; si umili come dice la Regola, inginocchiandosi non appena sarà ripresa, senza esaminare se a ragione o no; abbia rispetto e cortesia per tutti, in particolar modo per le anziane, perché è conseguenza necessaria dell’umiltà, ma anche perché la gentilezza interiore produce quella esteriore: una persona veramente umile si considera nel suo cuore l’ultima di tutti, per un gran numero di ragioni che la grazia le rivelerà, e in virtù di questo sentimento porterà rispetto a tutti. Questa medesima virtù impedisce all’anima che ne è riempita di immischiarsi in cose che non la riguardano, perché ha una buona opinione di coloro che vi sono preposti e sa di non doversene preoccupare; d’altra parte sa accettare la libertà che altri talvolta si prendono di immischiarsi nelle cose che la riguardano, perché si stima incapace in tutto e vuole che anche gli altri lo credano; condizione essenziale, questa, in una Religiosa, e che deve estendersi in genere a qualsiasi cosa, senza eccezioni.

♦ m. Agnès Arnauld [1593-1672], Les constitutions du monastere de Port Royal du Saint Sacrement, 1675; Avis à la Maistresse des Novices.

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Senza ambizione, senza litigi, senza inquietudini (Voci, 24)

Prefazione. Cap. VII. Ritratto di un vero Monaco Benedettino

Un Benedettino imbevuto dello spirito della sua Regola è un Uomo unicamente occupato in Dio e nelle cose del Cielo; egli sempre passa da esercizj in esercizj santi e serj, che lo mantengono nella pratica delle più sublimi virtù e nella considerazione delle principali verità della Religione; ardentemente acceso dall’amore delle verità eterne e delle perfezioni divine, impiega la maggior parte della notte in cantare le lodi del suo Creatore, in ascoltare la di lui parola ed in meditare le di lui grandezze. Le ore della tavola per esso lui non passano oziose, poiché anche in tal tempo egli pasce l’anima sua colla lezione che ascolta, frattanto che frugalmente pasce il corpo; dorme poco, mal agiato ed austeramente, imperocché dorme vestito e calzato, coricato sopra una nuda stuora o sopra un semplice pagliericcio, in mezzo a’ suoi Fratelli, osservato da’ Superiori, non potendo fare il menomo moto senza essere conosciuto e ripreso; fa lezioni lunghe e meritorie, non leggendo se non libri datigli dalla mano del Superiore, leggendoli da un capo all’altro, e sempre in pubblico ed in mezzo alla Comunità; osserva un continuo silenzio; affatica molte ore del giorno; vive in una dipendenza assoluta e generale; professa un’ubbidienza che va fino all’impossibile, e non solo si ristrigne ai comandamenti de’ Superiori, ma si estende ancora a quelli de’ suoi eguali, e de’ suoi inferiori; vive talmente alieno dalle cose mondane, da’ piaceri, da’ passatempi, che non gli è tampoco permesso di scrivere, né di ricevere una lettera; di dare, né di ricevere qualunque menomo donativo, senza licenza del suo Superiore; non può uscire dal Monistero senza il di lui consenso, né mangiare fuori del Chiostro ogni qualvolta possa dentro lo stesso giorno ritornare a casa [trovo questo «ritornare a casa» particolarmente, sì, dolce e significativo]; se falla, quantunque leggermente, è ripreso, e severamente castigato in pubblico; è obbligato agli esercizi più faticosi e più abietti della Cucina e del Refettorio; in tutta la giornata non ha un momento in cui non sia impiegato ed in cui possa dire di essere in sua libertà. Ecco il ritratto di un Monaco, quale ce lo descrive S. Benedetto, e quale in realtà fu egli medesimo, e lo furono i di lui Discepoli più perfetti.

Gli antichi Istitutori degli Ordini Monastici, ed in particolare del Benedettino ànno sempremai considerata la pace, la tranquillità, la solitudine, il silenzio e l’orazione come i mezzi più sicuri, per fomentare la buon’armonia e per mantenere ne’ Monisteri il buon ordine, il raccogliemento, la carità e la Religione. L’ospitalità nell’Ordine di S. Benedetto, tanto considerata e praticata con tanto zelo, non disturbava punto né la solitudine de’ Monaci, né la calma de’ loro Chiostri; questa si praticava al di fuori ed in appartamenti a tal effetto assegnati, dove eravi la cucina, e dove stavano i Monaci deputati per accogliere i forestieri; l’Abate mangiava con esso loro, faceva con esso loro conversazione, gli edificava e dava loro ogni contrassegno di gentilezza. L’arrivo loro, tuttoché molte volte in ore incomode e poco convenevoli, non arrivava alla notizia della Comunità; per ubbidire alla Regola si lavavano loro i piedi; e se l’ora lo permettea, v’intervenivano tutti i Monaci, altrimenti se ne scieglievano alcuni pochi, i quali senza disturbare gli altri adempivano tale incumbenza. Non si sa che S. Benedetto abbia parlato di Servitori Laici e Secolari per servizio de’ suoi Monisteri; io non vedo che ne sia mai stato assegnato alcuno né alla Foresteria, né all’Infermeria; da per tutto, tanto dentro, quanto fuori del Monistero, i soli Monaci adempievano tutte le faccende, anche per quanto riguarda le mietiture e le fabbriche. Al tempo di S. Benedetto non v’era la distinzione de’ Fratelli Conversi dai Cherici, come distinti in due ordini di Religiosi differenti; la professione Monastica rendea eguali tutti quelli che componeano la Comunità.

L’Ufizio Divino negli antichi Oratorj de’ Monaci era semplice, modesto, quieto e tale che muovea a compunzione; non era né frastornato dal concorso del popolo, né pieno di cerimonie lunghe e pompose, allettative a’ risguardanti ed atte a diminuirne l’attenzione. L’Oratorio era per fare orazione: Oratorium hoc sit, quod dicitur, come comanda S. Benedetto. Questo era una fabbrica semplice, senza fasto, comoda pel numero de’ Monaci della Comunità, e nulla più. Anche al giorno d’oggi sussistono alcuni di tali antichi Oratorj, per esempio vicino a Remiremont e a Vieux-Moncier, dove anticamente era il Monistero di San Michele, nell’antico Chiaravalle ed anche in altri luoghi. Non v’era cosa più semplice e più propria ad ispirare la compunzione ed il raccoglimento di cotesti Oratorj; ivi si adorava Dio in ispirito ed in verità; si meditava la di lui legge; si cantavano le di lui lodi, ed ogni cosa spirava pietà.

Il tumulto degli affari secolareschi non frastornava punto i Solitari, che per l’amore della povertà aveano abbandonato ogni cosa, e possedendo pochissimi beni di fortuna in comune, non ne desideravano davvantaggio; imperocché vivendo essi in vera spropriazione, attendeano a coltivare la terra, a guadagnarsi il vitto colla fatica delle proprie mani, senza ambizione, senza litigi, senza inquietudini; la loro frugalità, l’economia, la fatica ed i digiuni erano i loro fondi più doviziosi ed il loro più sicuro ristabilimento; essi non pensavano se non ad imitare Gesucristo povero, e crocifisso, nell’esercizio della mortificazione e della povertà cristiana ed evangelica. Subito che si sono lasciate coteste massime, e che si sono abbandonate le strade mostrateci e battute dai Santi, svanì lo spirito delle Regole e si è oscurato lo splendore e l’onore della vita Monastica.

Commentario letterale, istorico, e morale sopra la Regola di S. Benedetto, Con alcune osservazioni sopra gli Ordini Religiosi che seguitano la stessa Regola, del Padre D. Agostino Calmet, Abate di Senona, in Arezzo, per Michele Bellotti all’insegna del Petrarca, 1751, pp. XIX-XXI.

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Una specie di casa di salute: ammalarsi in un monastero (medioevale) – pt. 2/2

(la prima parte è qui)

Sebbene siano separati dal resto della comunità, i malati ricoverati in infermeria restano al centro delle attenzioni della medesima. Anzitutto nella vita pratica, la cui «gestione» è affidata all’infirmarius (o infirmorarius), che è il confratello più competente di questioni mediche e che deve provvedere a tutte le esigenze dei malati. Non da solo, per forza di cose, tanto che spesso è affiancato anche da laici che si occupano della pulizia, del riscaldamento e del servizio di mensa; costoro risiedono nell’infermeria ma sono tenuti a evitare qualsiasi contatto con i claustrali sani. L’infermiere peraltro svolge il suo incarico in collaborazione con il cellerario, spesso presente in infermeria, e non di rado dispone di una cucina e di un cuoco separati, in modo da vegliare con particolare attenzione sull’alimentazione dei ricoverati. Si sa, in infermeria si riposa, si dorme molto di più di quanto consentito dala Regola e soprattutto si mangia – si mangia la carne.

I malati, si diceva, non possono lavorare, ma in certi casi possono svolgere attività leggere e consone alla loro condizione: «Se sanno cantare, se conoscono la grammatica o qualsiasi altra arte utile al monastero possono insegnarla agli altri», oppure possono spazzare, o ancora mondare legumi e ortaggi, in modo da alleviare il più possibile il peso che la loro infermità scarica sulla comunità, il loro bisogno di assistenza.

Assistenza che, oltre che fisica, è sempre anche spirituale, una connessione che forse oggi ci è difficile cogliere nella sua pienezza. Spesso il fratello infermiere è anche sacerdote e quindi, ad esempio, può confessare o comunque affiancare i deboli e1 gli infermi nell’adempimento dei loro doveri spirituali, appunto. Ci sono poi le visite frequenti dei confratelli sani, che devono chiederne approvazione dal priore e cui è tuttavia proibito interrogare i malati su questioni riguardanti il corpo: se l’argomento della malattia in qualche modo emerge nella santa conversazione, il visitatore non dovrà rispondere nulla e rifernire successivamente al priore. In certe raccolte di consuetudini è contemplata anche la visita di laici, parenti e persino di un saecularem amicum, accompagnato da un testimone: tutto sempre in nome del valore terapeutico del conforto.

Altrettanto regolato è il ritorno in comunità del monaco guarito, che in primis si autodefinisce tale, alzandosi col permesso del priore e presentandosi al cospetto del capitolo. Qui il primo passo è di nuovo l’ammissione della colpa: «Mea culpa… sono stato in infermeria, non ho rispettato come avrei dovuto la nostra osservanza». Al che il priore lo assolve «per tutto ciò che in quella occasione hai offeso». Anzitutto aver mangiato carne («La carne, un pensiero inquietante, ossessivo», osserva Cristiani, che riporta consuetudini che distinguono addirittura i casi: malato carnivoro, malato non carnivoro); ma anche il sonno eccessivo, la rottura del silenzio e la temutissima mormorazione, poiché quanto è facile lamentarsi quando non si sta bene e il confratello non accorre… «Abbiamo mangiato, bevuto e dormito più di quanto abbia preteso la necessità, e tutto abbiamo fatto intempestivamente. Non abbiamo custodito il silenzio, ci siamo abbandonati al riso e alle parole inutili, Abbiamo mosso all’ira il fratello che devotamente ci ha servito con gli aiutanti, ma in tutto peggio di questo, abbiamo mormorato contro di lui». Il processo si compie, l’abate consente al pieno rientro in comunità, seppur «dal basso», e «il periodo di ricovero si conclude sullo sfondo solenne ancora di gesti e formule, di pentimento individuale e carità collettiva».

Lo stretto intreccio di dimensione fisica e spirituale (e collettiva) della malattia è, come si diceva, forse l’aspetto di più difficile comprensione allo sguardo moderno, che pure ne intuisce talvolta il pericoloso vuoto, pur riconoscendo la «benedizione» della medicina attuale. Un intreccio fondante, viene da dire, che i monaci hanno sempre custodito se ancora nel 1942 Ildefonso Schuster (citato da Cristiani)2, commentando la Regola di san Benedetto, osserva: «Il monastero, sotto un certo punto di vista potrebbe considerarsi una specie di casa di salute, di cui l’abbate è il medico direttore».

(2-fine)

 

  1. Molto interessante la discussione che si è svolta intorno a questa congiunzione, là dove san Benedetto al cap. 39 parla di debiles aegrotos, i commentatori hanno talvolta aggiunto un et: debiles et aegrotos, che amplia il cosiddetto campo di applicazione.
  2. Ricordo che le informazioni qui esposte e le citazioni riportate derivano in particolare da Riccardo Cristiani, «Infirmus sum, et non possum sequi conventum». L’esperienza della malattia nelle consuetudini cluniacensi dell’XI secolo, in «Studi Medievali» XLI (2000), pp. 777-807; «Essere o malessere»: il problema della malattia dalla Regola di Benedetto alle Consuetudini di Cluny, in Parva naturalia. Saperi medievali, natura e vita, Atti dell’11° convegno della Società Italiana per lo studio del pensiero medievale (Macerata, 7-9 dicembre 2001), Istituti Editoriali e Poligrafici 2004, pp. 305-320; Il rito della salute. Il salasso nelle consuetudini dei monaci di Cluny (secoli X-XI), in «Quaderni medievali» 60 (2005), pp. 10-26.

 

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Acqua calda: ammalarsi in un monastero (medioevale) – pt. 1/2

«Con diligente attenzione l’abate deve sapere o appurare se qualcuno non si dica malato per desiderio smodato di cibo. Perciò, a colui che tale si dichiarerà e non si alzerà per l’ufficio divino, restando a letto, si dia soltanto una tisana, qualche uovo o giusto un po’ di acqua calda [sucus vel ova aut calidam aquam]: se sta fingendo, sarà la fame a farlo alzare.» Gustose, ma soprattutto interessanti osservazioni come questa (di Smaragdo di Saint-Mihiel, cui si deve uno dei commenti più famosi alla Regola) ho tratto da alcuni studi che Riccardo Cristiani ha dedicato all’argomento della malattia e dei malati nei monasteri medievali, come viene affrontato nei principali commenti alla Regola benedettina e nelle raccolte di consuetudini (di Cluny, ma non solo)1.

L’asse portante della questione è il fatto che il monaco malato, che si sente malato, «non può stare con gli altri, non può fare quello che gli altri fanno regolarmente», dunque è anzitutto peccatore nei confronti della comunità. (Non va peraltro dimenticato che lo stesso Benedetto, per contrasto, fa un larghissimo uso di metafore mediche quando affronta il tema delle colpe e della loro correzione.) Il processo della malattia comincia così con l’ammissione di questa colpa al cospetto del capitolo: «Sono malato, e non posso seguire la comunità», al che l’abate dispone che il monaco indisposto si riposi per qualche giorno, rifocillato ed esentato dai suoi doveri, per così dire «in osservazione». Se il malessere non è passeggero, come tutti i confratelli si augurano nelle loro preghiere, la condizione di malattia diventa «ufficiale», e il monaco viene ricoverato in infermeria, luogo fisico e simbolico di separazione dalla comunità, dove vigono regole speciali, a cominciare soprattutto dall’alimentazione – la vera medicina, insieme con il riposo e il sonno.

I malati, ovviamente, non lavorano, ma posso avere anche problemi a rispettare la recita dell’ufficio divino, soprattutto là dove la liturgia è ricca ed estesa. I casi e i sottocasi sono molti: chi può andare in chiesa, ci va, magari con l’aiuto di un bastone (che spesso diventa il segno distintivo della sua condizione di infirmus, di imbecillis, insieme al cappuccio sempre rialzato per proteggersi da freddo e umido); chi non riesce a camminare da solo viene aiutato e talvolta persino trasportato; a chi proprio deve restare a letto viene dato un libro delle ore e a chi non riesce nemmeno a leggere viene affiancato un confratello. L’importante è che l’opus Dei non sia mai trascurato: alla peggio il priore «invita uno o due monaci a cantare le ore canoniche in infermeria». Nelle abbazie maggiori, poi, è presente un oratorio riservato agli infermi, dove l’ufficio viene cantato secondo le possibilità di ciascuno (ad esempio molto più lentamente o velocemente). Così, commenta Cristiani, aprendo una parentesi quasi narrativa, «bisogna immaginare l’assortimento dei malati riuniti negli oratori di Cluny e Hirsau: tra lettiere, giunchi per giacigli dove i più deboli possono stendersi tenendo la testa poggiata sulla pelliccia, podagrici seduti su sgabelli, zoppi forti del loro bastone, malati inginocchiati su “panchetti” (formulae), malati con il capo scoperto o coperto, con o senza bastone, monaci esausti per la fatica del servizio o riversi sul pavimento su ginocchia e gomiti».

Sempre nelle grandi abbazie, nella pratica, i malati sono sottratti alla vista dei sani, grazie a locali di servizio, corridoi e chiostri secondari, ma per temperare la «nostalgia» del chiostro principale e della vita comunitaria (che diventano pertanto simboli della guarigione) e «fugare l’anomalia di un quotidiano all’insegna della distanza», si concede loro qualche eccezione o attenuante, soprattutto nei casi di lunghi decorsi e cronicità. Gli zoppi, ad esempio, possono sedere in capitolo e in refettorio, seppure per ultimi: distinti ma non separati.

(1-segue)

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  1. Le informazioni qui esposte e le citazioni riportate derivano in particolare da «Infirmus sum, et non possum sequi conventum». L’esperienza della malattia nelle consuetudini cluniacensi dell’XI secolo, in «Studi Medievali» XLI (2000), pp. 777-807; «Essere o malessere»: il problema della malattia dalla Regola di Benedetto alle Consuetudini di Cluny, in Parva naturalia. Saperi medievali, natura e vita, Atti dell’11° convegno della Società Italiana per lo studio del pensiero medievale (Macerata, 7-9 dicembre 2001), Istituti Editoriali e Poligrafici 2004, pp. 305-320; Il rito della salute. Il salasso nelle consuetudini dei monaci di Cluny (secoli X-XI), in «Quaderni medievali» 60 (2005), pp. 10-26 (tutti consultati su Academia.edu).

 

 

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Gli zoccoli la sera no, mi raccomando (Voci, 23)

Capitolo XXII. Del modo, e tempo, che devono dormire le sorelle, e che tutte dormono in un Dormitorio l’una separata dall’altra

Acciocché il nostro dormire non sia immagine di morte, ma sia di riposo e fortificazione del corpo e dello spirito, discretamente ordiniamo tutte di unanime consenso che la Madre usi buona provvidenza circa il dormire delle Sorelle, dando tale ordine alla Sagrestana, che in ogni tempo dell’anno debba sonare la dormizione a tal’ora che tutte abbiano spazio di dormire sette ore fra il giorno e la notte. Onde la detta Sacrestana osservando sempre in ogni cosa l’ordine, il quale è la bellezza ed ornamento della santa Religione, dovrà avere l’orologio, e secondo che la notte manca, o cresce, così dovrà temperare la vigilia della notte con il riposo del giorno, sminuendo o crescendo la predetta vigilia secondo la varietà de’ tempi. Ed acciocché le Sorelle possino essere più ferventi alli Divini Officj, ed all’Orazione mentale, ed agli esercizj corporali, sarà lecito a tutte andare a riposare ne’ suoi letti dopo Mattutino. Nientedimeno vogliamo che sia in arbitrio dell’Abbadessa poter qualche volta proibire la dormizione dopo Mattutino secondo l’occorrente necessità.

Parimente per seguitare lo stile delle nostre Maggiori, e per conformarsi con le Religioni di Osservanza, non vogliamo che le Sorelle dormano su le piume, se non in caso di legittima necessità, come sarebbe per infermità, debolezza, ec., ma dormano sopra li sacconi di paglia, ed abbiano li capezzali di paglia, con il cuscino di piuma di sopra alli capezzali. Potranno ancora usare materassi, lenzuoli di lana, ed altre coperte, e piumazzi secondo il freddo della stagione, sempre però abbiano l’onestà, cioè l’abito indosso in contrassegno di religiosità.

Ogn’una dormi separata dall’altra Sorella nel suo letto, ed ancora nella sua cella. Le nostre coperte saranno schiavine, o fressate di poco prezzo e di poca apparenza. Tutte le Sorelle, come altresì la Madre, dormiranno in un medesimo Dormitorio, né mai dormiranno nude, ma sempre siano vestite, o di camiscia o di tonica; e se per infermità, debolezza, o vecchiaja la Madre non dormisse in Dormitorio, la Vicaria dovrà supplire le di lei veci in questo ed altri casi, quando la Madre non può fare il suo officio per le cose che ogn’ora e spesse volte occorrono.

La lampada stia sempre appesa la notte in mezzo del Dormitorio. Le finestre del Dormitorio, delle celle, dell’Infermeria, della Foresteria, della Chiesa, e generalmente tutte le finestre pericolose e sospette, sieno indispensabilmente serrate [ferrate]. Dette finestre dovranno essere tanto alte che le Sorelle non possono vedere né essere vedute da quelli di fuori del Monistero, se pure non si riponessero qualche cosa sotto de’ piedi, ovvero ascendessero in luogo eminente, la qual cosa nissuna ardisca di fare, altrimenti sia corretta col dovuto gastigo. Per tanto se qualche Sorella sarà scoperta e ritrovata stare a qualche finestra della Casa, o della Chiesa, per qualche leggerezza, o curiosità, o per esser veduta, o per vedere altri, sì fattamente dovrà esser corretta che serva d’esempio a tutte le altre.

In oltre non vogliamo che alcuna Sorella ardisca entrare nella cella dell’altra senza licenza della Madre, o della Vicaria in sua assenza; né in verun modo deve una Sorella dar licenza all’altra di entrare nella sua cella, eccettuata la Maestra delle Novizie, la quale può dar licenza alle sue Novizie di entrare nella sua camera, e così ella può entrare nelle celle delle sue Novizie per visitarle ed ammonirle quando le parerà, senza pigliare altra licenza speziale dalla Madre. Quando vi fosse necessità di dire qualche cosa alla Sorella che trovasi in cella, ciò deve farsi con poche parole e con voce sommessa, stando all’uscio fuori della cella. Siano ancora avvisate le Sorelle di non fare strepiti e disordinati movimenti in cella, o nel Dormitorio, per non conturbare la quiete corporale e spirituale delle altre.

Sonato che sarà il segno della dormizione, così di giorno come di notte, tutte le Sorelle, posposta ogni altra faccenda, vadano alle loro celle per riposare, sempre eccettuate quelle che fossero occupate nelle opere di carità, o avessero licenza dalla Madre di non dormire o di andar a dormire dopo le altre; la qual licenza deve darsi di raro, e massime alla sera, quando non fosse per estrema necessità. Quando pure alcuna restasse dietro alle altre per qualche spazio di tempo, non porti onninamente le zoccole in dormitorio. In ogni altro tempo però è lecito a tutte portare zoccole, anzi nissuna presuma di andare con li piedi nudi per terra, acciocché non le cagioni infermità.

Vogliamo di più, che nissuna Sorella ardisca dormire con un’altra: onde, come è stato detto di sopra, se una Sorella non deve entrare nella cella dell’altra senza licenza della Madre, molto maggiormente non deve una presumere di dormire con un’altra senza saputa della Madre. Quando poi le Sorelle faranno andate a dormire, la Madre, o la Vicaria, o pure un’altra a ciò destinata, dovrà chiavare le porte del Dormitorio, tenendo la chiave presso di sé fino all’ora del Mattutino.

Costituzioni per le Romite dell’Ordine di S. Ambrosio ad Nemus, Sub Regula Sancti Augustini. Escono la prima fiata in pubblico dedicate all’Em.mo Principe il Sig. Cardinal Arcivescovo di Milano Giuseppe Pozzobonelli dal Sig. D. Nicolla Sormani Dottore dell’Ambrosiana Biblioteca in nome del Monistero di S. Maria sul Monte, illustre monumento, e quasi ultimo segno della santa anacorési Ambrosiana; in Milano [1746] nella Stamperia di Pietro Francesco Malatesta.

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Il Bello, il Vero e il Bene: il tesoro della Regola

Nella sua introduzione a una recente edizione francese della Regola di san Benedetto, riproposta anche in Italia1, il trappista (abate, studioso e docente) Guillaume Jedrzejczak (lo scrivo una volta sola) si pone alcune domande su un fenomeno nel quale può rientrare anche questo mio tentativo di osservazione del mondo monastico da una prospettiva laica. «Viviamo in un’epoca», afferma infatti dom Guillaume, «in cui la vita monastica attira. […] In questo inizio di XXI secolo c’è un’attrazione che non può essere classificata come fenomeno di moda, per sua essenza effimero.» I monasteri non si riempiono di novizi, ma al tempo stesso «sono numerosi i laici che leggono quotidianamente la Regola», che ne fanno «una chiave d’interpretazione della loro avventura interiore», mostrando un interesse che esprime «un’altra realtà, un’attesa diffusa e più difficile da individuare». Da dove arriva questa «infatuazione»? Insomma: «Che succede?»

Prima di dare una risposta, l’abate compie un excursus storico-filologico molto interessante, per smontare una serie di pregiudizi molto radicati e porre in evidenza alcuni snodi cruciali del «processo di codificazione» che ha portato la Regola benedettina a diventare il tronco dal quale si è sviluppato l’albero monastico. In sostanza d. Guillaume ci ricorda che: a) ascetismo e monachesimo non sono la stessa cosa; b) i primi monaci, i padri egiziani, non erano rozzi illetterati; c) si può individuare una «tradizione comune… che parte da Filone e Origene, dai Padri del deserto e dai Padri cappadoci per estendersi a Evagrio e Cassiano» e ha al suo centro il concetto di progresso spirituale; d) la Regola di san Benedetto era una delle molte regole, «una trentina», che appaiono in Occidente a partire dal V secolo; e) questo insieme di regole era assai vario e intrecciato («Si sa infatti che nei monasteri antichi si leggevano diverse Regole a cui ci si ispirava globalmente, e che ogni comunità aveva contemporaneamente il proprio libro di usi che corrispondeva alle usanze e alle condizioni del luogo»), f) la vita dei monasteri manteneva comunque un vivo collegamento con le forme della società circostante; g) la Regola di san Benedetto non si è imposta subito, ma ha «convissuto» a lungo, nella pratica, con altri testi normativi fino alla prima metà del IX secolo.

Quello che preme soprattutto a d. Guillaume, alla fine di questa ricapitolazione, è ribadire come il monachesimo non vada più considerato come un «movimento di contestazione di fronte alla decadenza ecclesiale» seguita all’editto di Costantino. Il monachesimo è bensì «il frutto più prezioso» dell’età d’oro patristica (dal IV al VI secolo, ma secondo alcuni al XII), poiché in esso «si esprimono, in modo veramente compiuto, gli elementi essenziali della sintesi dei Padri», cioè il bello dell’esperienza spirituale interiore, il vero della fede più elaborata e il bene dell’agire morale, ispirato all’incarnazione.

Il monachesimo ha testimoniato l’unione di questi tre elementi fino alle grandi controversie del XII secolo, che hanno visto una prima separazione tra spiritualità e teologia. È stata poi la teologia stessa, nel XVIII secolo, a perdere il suo ruolo di «regina delle scienze», e infine, tra XIX e XX secolo è toccato al magistero morale della Chiesa subire una «contestazione radicale». Si è trattato, secondo d. Guillaume di una «cancellazione progressiva» degli elementi della sintesi patristica, ed ecco il motivo del fascino che esercita, proprio oggi, alla fine di quel percorso, il monachesimo: «La vita monastica attrae perché appare uno degli ultimi luoghi in cui l’alleanza dei tre universali, il Bello, il Vero e il Bene, sembra essere sopravvissuta» (il corsivo lo aggiungo a riconoscimento della cautela dell’abate). E se si guarda avanti, la cosa più interessante, «appassionante», conclude d. Guillaume, è che, a differenza dell’immagine trasmessa dai media, l’indicazione di cui si avverte il bisogno è rappresentata proprio dalla «presenza simultanea» di un papa, Francesco, che sta «rivoluzionando i parametri del discorso morale», e di un papa emerito, Benedetto, che «ha preparato l’avvenire» insegnando quella «straordinaria sintesi del cristianesimo» che si può rintracciare ancora nella Regola.

Mi riconosco, almeno in parte, da un punto di vista etico, in questa risposta? Vorrei, forse, poter dire di sì, ma non è così. Quella triade è avvolta, se così si può dire, nella nebbia di un individualismo a termine che nulla potrà più diradare, se non per brevissimi tratti.

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  1. Guillaume Jedrzejczak, La Regola di san Benedetto nel contesto delle antiche Regole monastiche. Una profezia per il terzo millennio, traduzione di L. Matta, Nerbini 2017 (Quaderni di Valserena; 5).

 

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