«Sovente la si vedeva camminare, compiere i suoi uffici, recarsi al coro, così presa dalla contemplazione che, interrogata, non rispondeva; non si accorgeva di quelli che incontrava; spesso restava immobile nel coro.» Poche righe di una delle oltre 670 notizie biografiche di sorelle domenicane che si possono leggere nel corposo volume dedicato alle cronache del monastero di San Sisto, poi dei Santi Domenico e Sisto, a Roma1. Tali Cronache sono conservate in dodici volumi manoscritti, coprono un incredibile arco temporale (dalla fondazione del 1221, dovuta allo stesso san Domenico, al 1993, quando la comunità da tempo si è trasferita nel monastero del SS. Rosario a Montemario) e il volume ne ha presentato per la prima volta in lingua italiana un’amplissima scelta. Sono l’opera paziente e commossa principalmente di quattro monache – s. Pulcheria Carducci (dotata «di scrittura mirabile per nitore e costante grandezza dei caratteri», 1599-1647; la prima data è quella dell’ingresso in comunità), s. Domenica Salomonia («piena di razionalità e di buon senso», 1612-1672), s. Anna Vittoria Dolara («pittrice, musicista e poetessa», †1827) e s. Tommasa Angelica Pannilini («artista, poetessa e parlatrice», †1918) – che hanno scavato nei documenti d’archivio, selezionato, riassunto, collazionato e trascritto, aggiungendovi il tratto della loro personalità. Una parte cospicua è occupata, come accennavo, dai necrologi delle monache, a volte brevissimi («Se ne conosce solo il nome»), a volte distesi su cinque o sei pagine (origine famigliare, dote, tratti fisici e del carattere, devozioni, opere, incarichi). Li ho letti tutti.
Scrive s. Pannilini, introducendo uno dei suoi volumi: «Non si vorrà obiettare che una tale storia non offra alcun interesse: tutto dipende dal punto di vista da cui ci si mette». Già, da quale punto di vista mi metto io nel leggere con inattesa partecipazione le memorie di queste «anime che vivono in fondo al loro chiostro»? «Io so bene», prosegue s. Pannilini, «che se un profano leggesse queste pagine, non vi troverebbe grandi cose da lodare, ignaro com’è dei sentimenti più sacri della vita religiosa, dei bisogni del cuore di chi sa di appartenere a una Famiglia eletta, avviata verso grandi destini; incapace com’è di apprezzare l’eccellenza e il merito di questo genere di vita, di cui non considera che l’aspetto esteriore». Il curatore dell’edizione, il p. Raimondo Spiazzi, sembra poi farle eco quando raccomanda al lettore moderno l’umiltà «dinanzi a chi ha studiato, scritto, riflettuto, vissuto prima di noi», mettendo da parte sia il fideismo acritico sia l’esasperato razionalismo. Queste testimonianze possono anche «fiorire in leggende», e occorre discernimento, «ma senza diventare ipercritici, irragionevoli, fanatici della dissacrazione». Ecco il mio punto di vista.
Un punto di vista non privo, anzi, anche in questo caso inaspettamente, di una certa «nostalgia del sacro»; sentimento sterile, poiché mi dico convinto della irreversibilità della secolarizzazione, e tuttavia presente e, si potrebbe forse dire, retrospettivo. Cosa proverebbe una di quelle religiose se le venisse imposto di riguardare da questo XXI secolo, e con la di lui consapevolezza, la propria devozione del XVI?
Chissà cosa proverebbe ad esempio la venerabile madre suor Filippa Caputi, che, «essendo di intelligenza poco felice», aveva accettato «solo di prendersi cura del pollaio del monastero, e in questo incarico viveva solitaria, a guisa di anacoreta, con la sola compagnia degli animali a lei affidati, contenta della sua sincera umiltà». L’unica sua tristezza era di non poter recitare l’ufficio con le consorelle, e «un giorno che si sentiva afficata, dopo aver svolto il suo umile lavoro», udendo le altre in coro fu presa da «santa invidia» e corse a piangere davanti a una santa immagine della Madonna col Bambino (la statua di Nostra Signora delle Grotte, oggetto di molte peripezie nei vari trasferimenti). Si dice che la Madonna si staccò il Bambino dal seno e lo depose tra le braccia di s. Filippa, che poi glielo restituì collocandolo dalla parte opposta a dove si trovava in origine (questa la prova del miracolo). Fu così che «la fortunata Suor Filippa, rientrata in sé, cominciò a leggere perfettamente, tra lo stupore di tutte le sue consorelle e con sua grande felicità, l’Ufficio corale». Con sua grande felicità.
(1-segue)
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- «La venerabile Suor Eugenia de’ Rossi», novizia nel 1540, «salita alla gioia eterna nel 1575», in Cronache e fioretti del monastero di San Sisto all’Appia, a cura di p. Raimondo Spiazzi, o.p., Edizioni Studio Domenicano 1993, p. 333.
Devozione immutata da mille anni la si trova, ancora oggi nel 2022, presso l’ordine certosino. Il desiderio di sacro, seppur in diminuzione, rimane ancora tra gli uomini e donne inquieti del secolo XXI
Oh sì, senza dubbio. Avrei forse dovuto precisare che il mio accenno era solo a determinate forme di devozione, alla sua espressione, non certo alla devozione in sé.
Grazie