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Un pezzo di mondo (Overbeck, pt. 2)

(la prima parte è qui)

«Al momento della sua nascita, il monachesimo percepisce profondamente – e a ragione – che il cristianesimo, in senso assoluto, era riuscito assai poco a realizzare ciò a cui esso, a partire dalla sua teoria, anelava con sempre maggior forza. Se però, deluso dall’umanità, spinge, dal canto suo, il vero cristiano fuori del mondo, nella solitudine, si capiscono facilmente i motivi per cui ora la rinuncia della mondanità del monachesimo presenti un tratto di cieca misantropia, che è senz’altro estraneo alla fuga dal mondo del cristianesimo primitivo.» Ecco il cuore della contraddizione che Overbeck rintraccia quando il numero degli individui attratti dal deserto cresce fino a diventare significativo. Non si può vivere nel mondo da cristiani, ma la scoperta che attende i primi monaci è forse ancor più terribile: non si può farlo nemmeno nella solitudine di eremi e celle. Seguire l’esempio di Cristo e dei suoi apostoli nel deserto è impossibile, venendo a mancare, per così dire, la «materia prima». Bloccato in questa empasse, osserva Overbeck, il monachesimo assume quel particolare «carattere malinconico, malato».

L’ascesi diventa battaglia, contro gli «spiriti malvagi», e contro sé stessi soprattutto e il proprio orgoglio. Una lotta spietata tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, che tuttavia inquina il secondo corno proprio con il senso del dovere, trasformando la stessa carità in ascesi: «Il monachesimo percepisce la ritrosia verso l’uomo, se non la misantropia, come inclinazione, l’amore umano come obbligo e solo come tale». Di fronte a questo esito lacerante, l’anacoretismo è dichiarato meta troppo elevata per l’essere umano e si prepara, secondo Overbeck, la transizione al cenobitismo.

Dapprima i monaci si riuniscono in «libere associazioni», in celle vicine e collegate, con spazi che consentono attività comuni e mutuo aiuto, poi con Pacomio (soldato, prima di diventare eremita) nasce il cenobio, l’abitazione comune, in cui lo spirito libero del deserto viene irreggimentato da uno strumento potentissimo: la regola. La quale regola non è semplicemente subordinazione del singolo alla comunità, per la creazione di un’entità più forte, bensì annientamento di «tutte le ostinazioni del monaco»; la quale regola rappresenta il germe della morte del monachesimo, cioè l’uccisione morale dell’individuo (e l’ultimo balzo di Overbeck lo porta al «cadavere vivente» dei gesuiti).

«Non possiamo avere dubbi», conclude il teologo, «sulla natura di questo fanatico annientamento dell’uomo. C’era un pezzo di mondo, che l’anacoreta aveva dovuto tollerare con sé anche nella solitudine più profonda e, per farlo, ha dovuto scontrarsi con tutto l’ideale anacoretico. Questo pezzo di mondo era lui stesso. Il cenobitismo rigidamente regolato vuole rimuovere questa pietra dello scandalo e ora comprendiamo perché l’obbedienza divenne la più sublime virtù monastica. Qui, nella follia dell’ascesi di obbedienza del monaco egizio, si ferma la nostra comprensione.»

È una lettura forse troppo astratta, questa di Overbeck (il quale tuttavia non dimentica il bene concretamente operato da generazioni di monaci), che però non credo possa essere ignorata, e cui non si può negare l’onestà di porre alcune questioni rilevanti e scomode, che si sono perpetuate nei secoli e alle quali forse sono stati i singoli individui a tentare una risposta, più che le diverse istituzioni.

(2-fine)

Franz Overbeck, Le origini del monachesimo, Edizioni Medusa 2006.

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In uno spazio relativamente angusto (Overbeck, pt. 1)

«Sono pochi gli eventi storici che, come il monachesimo cristiano, hanno avuto una forza così straordinaria e nello stesso tempo così soffocante, che abbiano conosciuto una spiritualità così alta e una decadenza così profonda, pochi, dunque, che hanno sperimentato tanto amore e tanto odio.» A scrivere così è Franz Overbeck in Le origini del monachesimo, una conferenza tenuta a Jena nel 1867. L’avevo «sistemato» nella casella «amico di Nietzsche», ma una nota in un altro libro mi ha additato l’opera di questo «teologo senza fede», nato a San Pietroburgo nel 1837 (da madre francese cattolica e padre tedesco luterano) e morto a Basilea nel 1905.

Interessantissima, proprio per il suo essere un tentativo di analisi storica e «razionale» e tuttavia scevra di intenti polemici dichiarati, cosa che non fu percepita dai contemporanei teologi che attaccarono, o ignorarono, Overbeck, e ancor più i suoi lavori successivi. D’altra parte, espressa in poche e limpide pagine, la tesi centrale è forte: nato dallo sforzo di preservare l’autenticità del cristianesimo delle origini, il monachesimo ha condotto fuori dal mondo il mito cristiano centrale, quello escatologico, estraniandolo dalla storia; si è poi avvitato nella contraddizione fino a perdere completamente la sua vitalità, a mano a mano che la rivolta degli anacoreti si trasformava nell’obbedienza dei cenobiti.

Gli spunti di estremo interesse sono molti, a partire dall’identificazione del legame originario tra monachesimo (anacoretismo) e martirio. Il monachesimo, infatti, «è un’autoaffermazione del cristianesimo in un momento storico in cui altrimenti rischia di essere divorato», e «poteva pensare di offrire un prodotto sostitutivo per un evento la cui possibile scomparsa causava, già nel III secolo, profonda preoccupazione». Con la cristianizzazione, puramente formale, dello Stato, con le conversioni di massa, i cristiani eredi delle prime comunità dovevano trovare una «nuova frontiera», la Chiesa stessa si preoccupava «di cercare il luogo dove… salvare ciò che ancora rimaneva dell’attitudine spirituale che le era propria e che desiderava mantenere». E quel luogo fu il deserto, dove vennero poste le basi e fatte tutte le esperienze di ciò che sarà per secoli il monachesimo.

Non un deserto qualsiasi, tra l’altro, bensì quello dell’Egitto, «il paese delle meraviglie profane», «la più ricca fucina di orpelli, accumulati qui da ogni dove, con i quali il paganesimo in declino si agghindava» (un armamentario periodicamente rinato e arrivato trionfalmente sino a noi). Qui erano le caratteristiche stesse del luogo a prestarsi particolarmente: «da nessun’altra parte, almeno nell’impero romano di allora, esisteva una natura che, favorendo con il suo clima una rinuncia totale, accostando in modo singolare, in uno spazio relativamente angusto, panorami di luoghi desolati e lussureggiante fertilità, fosse uno specchio migliore dei contrasti dai quali è scaturito lo spirito entusiastico del monachesimo».

E fu così che i cristiani, i più convinti tra loro, per inseguire Cristo e prepararsi al suo secondo avvento, abbandonarono il mondo. Forse, suggerisce Overbeck, per non farvi più ritorno.

(la seconda parte è qui)

Franz Overbeck, Le origini del monachesimo, Edizioni Medusa 2006.

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